Che resta dell’Europa, se non si dà pace?

La rassegnazione di fronte alla guerra in Ucraina non solo ignora le atrocità commesse, ma anche le narrazioni sottostanti. Ora è il momento di riconsiderare le ortodossie politiche, afferma l’autore e storico ucraino Vasyl Cherepanyn nel suo contributo alla serie “Lezioni di guerra”.

Il Secondo Congresso internazionale degli scrittori in difesa della cultura, che si è svolto nel 1937 a Valencia, capitale della Repubblica spagnola dopo l’attacco delle truppe falangiste di Franco a Madrid, divenne noto come uno spettacolare atto culturale di opposizione al Fascismo. Parteciparono più di cento scrittori da tutto il mondo. Il loro impegno in quello che chiamavano “umanesimo rivoluzionario, una lotta per la dignità umana e la libertà dei popoli”, merita di essere ricordato nel momento, storicamente simile, in cui ci troviamo oggi. Farlo potrebbe aiutarci a comprendere meglio la situazione internazionale che rappresenta l’invasione fascista della Russia e una guerra neocoloniale di sterminio contro l’Ucraina.

Il principale problema politico per i delegati a Valencia era la politica di non intervento delle democrazie occidentali, che condannarono fortemente, più e più volte. All’opposto, i progressisti culturali e politici di oggi si sono ritirati nelle loro torri d’avorio della non-escalation e del non intervento, oppure portano avanti il sogno poetico di un pacifismo astratto, che non è altro che un eufemismo della resa al fascismo.

In questo momento l’Europa sta affrontando una sfida, sfida che non è nient’altro che la realtà vissuta dall’Ucraina nell’ultimo anno e mezzo: cosa fare riguardo alla devastazione in corso? È una domanda che contiene diversi livelli esistenziali – militari, politici, psicologici, sociali, ecologici, economici e molti altri – e che non si presta a risposte catartiche. Al contrario, contiene solo dolore infinito, da ogni punto di vista.

L’espressione migliore di questa sfida persistente potrebbe essere il famoso dipinto di Edvard Munch “Il grido”: ci troviamo oggi precisamente in un momento di ansia, incertezza e distorsione. L’opera di Munch nacque da un attacco di panico vissuto dal pittore nel 1892, panico in reazione ai crimini di guerra della Russia. Reazione contraria a quella che vediamo oggi, dove la comunità internazionale sembra gradualmente accettare le atrocità come inevitabili, una risposta che in passato sarebbe stata impensabile. 

Il panico sarebbe forse una risposta politica più efficace, perché potrebbe innescare un indispensabile e urgente intervento internazionale.

Amsterdam February 2022 / Adenosine Triphosphate, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

La war porn e le fantasie della ricostruzione

New series: Lessons of War

 

Introduction: how Europe’s response to Russia’s attack on Ukraine contrasts with opposition to the US invasion of Iraq in 2003.

 

Solidarity with Ukraine has given European integration momentum. But the challenges facing the Union are essentially geopolitical.

 

The Russian attack on Ukraine has plunged Europe into a security crisis. So far the response has been united.

 

Ukraine’s resistance to Russia’s imperialist war has discredited the spheres of influence theory once and for all.

 

The war in Ukraine has shown up the limits of European pacifism and revived a long-forgotten precept.

 

Russian atrocities in Ukraine have implications for underlying European narratives.

 

However urgent, a common European security policy requires democratic legitimacy.

Per quanto riguarda l’approccio della guerra in Europa, si possono individuare due approcci nella sfera pubblica, che riflettono gli atteggiamenti socio-politici rispetto alle atrocità che stanno avvenendo. Il primo è la cosiddetta “war porn”, una sorta di romanticizzazione delle rovine, che, come qualsiasi pornografia, è oscena. Qui, le macerie servono semplicemente da scenografia mediatica, mantenendo alta l’economia dell’attenzione mentre queste rovine vengono letteralmente e costantemente prodotte dalla guerra in corso. 

Il secondo approccio è la fantasia politica della ricostruzione post-bellica. Psicologicamente è una strategia seducente, perché consente di mettere a tacere la dura realtà della guerra stessa, concentrandosi su un futuro ipotetico. Il tutto mentre la guerra infuria senza che se ne veda la fine.

L’Europa si trova di fronte a una crisi le cui conseguenze definiranno il resto del XXI secolo. Ora è il momento perfetto perché l’Europa riveda e rielabori le proprie narrazioni, storie che gli europei raccontano da decenni, ingannando sia loro stessi che gli altri. Questo momento storico è stato definito una “Zeitenwende” (cambiamento epocale), ma un termine più preciso, ripreso dalla storia culturale europea, sarebbe quello che Aristotele chiamava “peripeteia”, un ribaltamento drammatico delle circostanze, un cambiamento drastico da uno stato di cose verso il suo opposto. 

La revisione delle narrazioni: il genocidio

La guerra della Russia contro l’Ucraina e l’Occidente è caratterizzata da una logica edipica; il compito dell’Europa in questo tempo di emergenza è soprattutto quello di smettere di non guardare per imparare a vedere, per rivedere e cambiare in profondità le narrative centrali della sua storia, giacché sono essenziali per il suo futuro. 

La prima narrative è il discorso sul genocidio. Questo principio fondamentale dell’Europa post-nazista, la cui integrazione politica era basata sull’idea di una responsabilità comune per l’Olocausto, è stato brutalmente messo in discussione dall’invasione russa dell’Ucraina. Oltre ai campi di filtraggio, alle deportazioni di massa, ai rapimenti e alle torture, le forze armate russe hanno danneggiato o distrutto circa 1.600 siti culturali ucraini dal 24 febbraio 2022. La Russia punta alla distruzione dell’infrastruttura culturale del paese come parte dei suoi attacchi alle strutture civili.

Secondo Rafal Lemkin, l’uomo che ha forgiato il termine “genocidio”, la distruzione del patrimonio culturale fa parte delle azioni che rientrano nella sua definizione.  Per Lemkin il genocidio consiste essenzialmente nella barbarie (attaccare le persone) e nel vandalismo (attaccare la cultura). Il secondo componente, tuttavia, è stato omesso nella Convenzione Onu sul Genocidio del 1948. Le ragioni sono chiaramente coloniali: diverse delle potenze occidentali temevano che i popoli indigeni (ed ex schiavi) potessero usare la convenzione contro di loro.  Le Nazioni Unite hanno invece adottato la Convenzione dell’Aia del 1954 che protegge il patrimonio culturale in caso di conflitto armato, un compromesso che ha spostato il problema su un piano completamente diverso. La vera domanda non è come proteggere la cultura in tempo di guerra (anche se è ovviamente vitale), ma come fermare il genocidio. Appena comincia la distruzione intenzionale su larga scala della cultura, la conclusione dovrebbe essere che ci troviamo di fronte a un genocidio.  

Ma l’Europa preferisce ancora parlare del genocidio in termini di politica della storia, cultura della memoria e “giungere a patti con il passato”, spesso evitando di applicare il termine al presente per paura della sua “relativizzazione”. Questo è un tipico esempio di ciò che in tedesco viene chiamato “Schuldabwehr”, la deflessione della colpa. Trauma e colpa per le atrocità passate sono riemerse quando l’Europa si è confrontata con la barbarie russa in Ucraina.

Il problema dell’Europa non è la “relativizzazione” del genocidio, ma la riluttanza a riconoscere che un genocidio è in corso in Ucraina, proprio perché il genocidio sta accadendo ora! Ecco perché l’Europa tende a sostenere che non si tratti di un genocidio “puro”, che il genocidio è difficile da dimostrare, nonostante il fatto che gli obiettivi genocidiari della Russia siano stati apertamente dichiarati e pubblicamente esposti dai mezzi d’informazione russi e da responsabili del governo, compreso il leader del Cremlino. Se l’Europa accettasse la premessa che in realtà sta assistendo e da tempo ad un  genocidio in Ucraina, senza cercare di fermarlo, dovrebbe ammettere che ha permesso che avenisse. Sul suo territorio. Di nuovo. 

La decolonizzazione

Il secondo filone narrativo europeo che necessita una revisione è l’uso della parola “decolonizzazione”. Questa è diventata un altro termine di moda nel dibattito pubblico internazionale, ma il problema fondamentale è che è percepita e praticata in una forma apolitica e culturalizzata. La decolonizzazione è vista semplicemente come un mezzo di rappresentazione, mentre qualsiasi vero anticolonialismo riguarda anzitutto la giustizia. Senza la giustizia, rimane vuota e retorica. L’attacco della Russia all’Ucraina, che deriva da una mentalità colonialista profondamente radicata, rende ancora più urgente la questione. La decolonizzazione non riguarda solo la commemorazione o la rappresentazione di varie esperienze comunitarie indigene (per quanto importanti possano essere), ma significa anche chiedere conto agli autori dei loro crimini coloniali.

L’approccio etnografico e delle questioni decoloniali, comune in numerosi progetti culturali in tutta Europa, spesso rievoca stereotipi coloniali e cliché che si adattano comodamente alla fantasia neo-imperiale, sia delle potenze coloniali passate che di quelle contemporanee, fingendo che il colonialismo sia già un caso chiuso e che tutto ciò che dobbiamo fare ora sia “celebrare la diversità”. Invece, la decolonizzazione non è una parata “multikulti” [riferimento alle politiche pubbliche multiculturali tedesche negli anni Settanta e Ottanta, ndr] di diverse cucine del mondo. Se così fosse, sarebbe il peggiore risultato della guerra, sia per il popolo ucraino che per i tatari di Crimea, significherebbe che la causa giusta dei colonizzati è stata completamente persa.

In questo contesto la confusione arriva dal fatto che la decolonizzazione è stata effettivamente esternalizzata dai responsabili verso le loro vittime: il cosiddetto Sud globale o l’Est post-sovietico dell’Europa. Se gli occidentali o i russi fossero lasciati a sé stessi senza alcuna pressione dalle altre parti del mondo, non si preoccuperebbero affatto della decolonizzazione! Si tratta di una prospettiva profondamente perversa, in cui la decolonizzazione diventa una sorta di terapia o esercizio psicologico per i colonizzati, ridotta a storie personali e radici familiari, mentre dovrebbe essere esattamente il contrario, ovvero una questione altamente politicizzata e in cima alla lista delle priorità dei colonizzatori.

Il colonialismo deve essere affrontato prima di tutto dalle potenze imperiali passate e presenti, non dai colonizzati. L’unica potenza coloniale che è stata punita a livello internazionale per le sue atrocità è stata la Germania nazista, ma anche allora i crimini coloniali sono stati nascosti dietro il fraintendimento della “Erinnerungskultur”, come se fosse davvero solo una questione di cultura della memoria, piuttosto che le ferite aperte che ancora definiscono la realtà politica e di guerra dell’Europa.

L’antifascismo

Un terzo filone narrativo fondamentale dell’Europa e che richiede di essere politicamente reintrodotto, è quello dell’antifascismo. L’antifascismo è stato così centrale nella storia moderna europea e globale che spesso è stato trascurato e trasformato in un attributo di un gruppo politico particolare, una sottocultura che svolge i suoi soliti riti il 1° maggio. L’antifascismo dovrebbe invece essere trattato come un pilastro dell’Europa unita di oggi e del mondo libero. Senza la base dell’antinazismo le istituzioni politiche e il quadro politico odierni non sarebbero mai emersi. La vera democrazia è possibile solo quando è per natura politica, antifascista, altrimenti non lo è.

Le società europee si sono così abituate ai diversi movimenti di estrema destra, populisti, autocratici e autoritari, che l’attacco della Russia all’Ucraina li ha colti di sorpresa. Improvvisamente si sono trovati di fronte a una domanda fondamentale, che dovrebbe essere storicamente riconoscibile: come scoraggiare e porre fine a un regime fascista (questa volta con capacità nucleari)? C’è stato un acceso dibattito per capire se sia corretto definire il regime russo al potere come fascista. Paradossalmente, chi si rifiuta di farlo si nasconde dietro un eccesso di storicizzazione del fenomeno, e non per mancanza di ragioni, ma perché ce ne sono troppe.

Quel che più stupisce è il modo in cui le autorità e l’esercito russo hanno imitato i nazisti nella loro guerra contro l’Ucraina. L’ideologia nazista della “non esistenza” degli ucraini viene usata come pretesto per i massacri. La terribile retorica della “denazificazione” viene sfruttata per riorientare il contesto storico e giustificare così l’invasione militare. Questa guerra non provocata viene dipinta come una continuazione della Seconda guerra mondiale (“possiamo rifarlo”). Tutte le intenzioni revansciste della Russia sono state in realtà finalizzate a sovvertire l’ordine istituzionale e giuridico europeo, quello stesso ordine che si fondava sui risultati ottenuti con la sconfitta del nazismo, al fine di disgregare l’Ue e la Nato e riprendere il controllo dell’Europa dividendola nuovamente.

La guerra della Russia contro l’Ucraina ha reso urgente la necessità di un antidoto politico: l’antifascismo deve essere reintrodotto a livello internazionale come base per la politica di stato e per la formulazione delle politiche non governative. Non è un attributo di una parte specifica dello scacchiere politico, ma costituisce la condizione dell’esistenza dello scacchiere stesso. 

Qui l’Europa porta una responsabilità storica e politica particolare e, attraverso questa, può raggiungere ciò che Aristotele chiamava “anagnorisis”, un passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, il riconoscimento non solo di una persona ma anche di ciò che quella persona rappresenta.

Oggi si può solo prudentemente sperare che un simile riconoscimento dell’Europa e di ciò che rappresenta possa aprire la strada: dall’attuale tragedia della guerra a una catarsi politica paneuropea. Ma la speranza è proprio ciò che resta sul fondo del vaso di Pandora.

This translation is contributed by Voxeurop.

Published 15 September 2023
Original in English
Translated by Voxeurop
First published by Voxeurop / Eurozine

Contributed by Voxeurop © Vasyl Cherepanyn / Voxeurop / Eurozine

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