Ucraina: le donne in guerra

In Ucraina sono molte le donne che hanno deciso di combattere al fronte, ma solo recentemente il loro ruolo è stato pienamente riconosciuto. Emancipazione, diritti e guerra in questo reportage.

Niente di nuovo nell’est del paese: al fronte, fa caldo. Durante l’estate la guerra peggiora sempre. La guerra, ufficialmente chiamata in Ucraina Operazione anti-terrorismo o semplicemente ATO, è iniziata nella primavera del 2014, quando la Russia ha sostenuto gruppi separatisti nella regione del Donbass.

Oggi è tutto tranquillo qui a Popasna, nei pressi della città di Sloviansk. I primi colpi si sentono solo verso mezzanotte, quando gli osservatori OSCE se ne vanno a casa.

I soldati ascoltano rock ucraino patriotico di scarsa qualità, puliscono i loro fucili, giocano con i cani del campo, fumano. Roksovana è l’unica donna in questa brigata che si occupa di intelligence, in mezzo a venti uomini. E’ una dei 50mila soldati che attualmente compongono l’esercito ucraino o che operano nei battaglioni volontari.

Photo: Katja Garmasch

Roksovana è il nome di battaglia, non vuole rivelare il suo vero nome o far vedere il suo viso. E’ originaria della Crimea, dove la sua famiglia ancora vive e dove potrebbe avere dei problemi se la sua identità venisse rivelata. “Meglio così”, ride, “almeno non devo truccarmi”. Ciononostante, vicino al suo letto scarno, vi sono alcuni trucchi tenuti in modo ordinato. In alto, sopra al capezzale, un angelo di legno, regalo della nipote.

Roksovana ha 45 anni e non ha figli. Perché mi sono arruolata? Perché, dice, è un mio dovere civico e non voglio ritrovarmi a vivere in Russia. Dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia Roksovana si è dimessa dal suo incarico di economista presso la Camera di commercio locale ed ha prestato servizio presso l’esercito per un anno come volontaria. Ora è al fronte da sei mesi e passa la maggior parte del suo tempo in una baracca scura e sporca, che divide con i commilitoni.

Mentre nei paesi dell’Europa occidentale l’apertura – sebbene esitante – dell’esercito alle donne ha rappresentato una novità, nell’Ucraina post-comunista è ricorrente un immaginario della donna come protettrice della nazione. Non è un caso che il monumento più alto e più importante dell’Ucraina, il “Monumento alla Madrepatria”, a Kiev, raffigura una donna con una spada in una mano e lo scudo nell’altra, entrambi sollevati verso il cielo.

Qui al fronte si incontrano donne soldato mosse da varie ragioni: chi, come Roksovana, non voleva starsene con le mani in mano. Chi ha seguito i propri mariti. Chi banalmente aveva bisogno di soldi per mantenere i figli e non riusciva a trovare altro lavoro. Vi sono anche donne che vogliono giocare alla guerra. “Feccia asociale”, le definisce Roksovana. E chi spera, nell’esercito, di trovare l’uomo giusto, uno che si guadagna uno stipendio – e non ve ne sono molti attualmente in Ucraina.

A differenza di quanto accade per i battaglioni volontari, non tutte le donne arruolate nell’esercito si ritrovano in prima linea. Per farlo vengono selezionate per attitudine e specializzazione. Per molto tempo molti ufficiali non volevano avere alcuna donna al fronte, affermando che il loro effetto sul tessuto sociale del gruppo era difficilmente valutabile, al meglio avrebbero rafforzato il morale della brigata, ma avrebbero anche potuto costituire un fattore di rischio. Per Roksovana preoccupazioni del tutto comprensibili: “Se capita qualcosa ad un uomo è del tutto normale, ma se capita ad una donna tutti si sentono nell’obbligo di salvarla e di rischiare la loro vita per lei”.

Belka e Julia

Anche alla periferia della capitale Kiev, nulla di nuovo. Come spesso accade, negli appartamenti dove abitano le ex soldatesse Belka e Julia non arriva l’acqua calda. “Ancora due settimane”, informa la vecchina che lavora alla portineria, senza aggiungere altro. Ma che non ci sia l’acqua calda certo non preoccupa Julia, almeno da quando la guerra è iniziata, perché è abituata a docce di trenta secondi. L’igiene personale deve essere rapida in guerra.

Belka spegne la sua sigaretta e infila la sua maglietta con lo stemma giallo-blu dell’esercito ucraino in pantaloni militari troppo larghi. “Molti pensano che le donne vanno al fronte solo per fornire servizi sessuali e quindi devo convincerli che non è così. Come? Con la violenza! L’unica cosa che conta veramente è il calcio di un fucile! Ma la maggior parte sono dei gentiluomini, mi hanno protetta ed hanno scavato anche un gabinetto solo per me. Avere un gabinetto per se stessi è il massimo!”. “No, la cosa migliore è avere una doccia per sé!”, la contraddice Julia “anche se ho sempre paura che vi sia un attacco con granate quando sono nella doccia. Sarebbe la cosa peggiore, morire senza senso e nude!”. Entrambe scoppiano a ridere e accendono la terza sigaretta nel giro di cinque minuti, abitudine presa al fronte. Anche a fumare si deve essere rapidi in guerra.

Belka è gentile e dal cuore generoso. La 21enne Julia è al contrario energica, anarchica ed impulsiva. Ad un primo sguardo non hanno molto in comune, eccetto i numerosi tatuaggi. “Gli eroi non muoiono mai!” vi è scritto in slavo antico sui loro avambracci. “Tutti sono uguali”, in ebraico, sulla mano di Belka. Belka è un’ebrea ucraina originaria di Dnipropetrovsk, metropoli dell’est del paese. Era disegnatrice di moda prima della guerra. Julia è invece originaria della cittadina russa di Pyatigorsk ed era, prima della guerra, un’ardente nazionalista russa. Solo fino a pochi anni fa partecipava a marce per una “Russia etnicamente pura”. E poi? “E’ stata Euromaidan a Kiev. Guardavo la TV in Russia ed ho sentito che i fascisti ucraini bevevano il sangue dei bambini russi. Volevo vederlo di persona. Ma poi sono andata a Maidan ed ho trovato degli amici. Anche Belka era là. Quando i russi hanno preso Sloviansk, mi è stato tutto chiaro: il mio paese si sbagliava, stava istigando alla guerra”.

Julia è poi entrata a far parte del Battaglione Aidar, un battaglione volontario dall’ideologia nazionalista, Belka l’ha seguita alcuni mesi dopo. Julia si è dissociata dalla sua famiglia in Russia ed è ora considerata una “traditrice della patria”.

Belka e Julia sono state ora smobilitate, anche se avrebbero voluto volentieri rimanere al fronte. Julia ha partorito “Miroslava” (la pacifica) che ora ha un anno e che, in qualche modo, è un souvenir di guerra. Il souvenir di guerra di Belka è invece la “diagnosi numero 17”. Ma Belka non sa esattamente cosa significhi perché, dopo sei ferite, tra cui anche un trauma cranico, la sua memoria è alterata. La cosa peggiore è il modo in cui le sue mani tremano, ed è impossibile per lei tenere in mano un fucile.

All’interno della Brigata volontaria Aidar Belka era una tiratrice. Nell’esercito è stata però registrata ufficialmente come telefonista perché non vi sono donne a cui era riconosciuto il ruolo di tiratrice. Come non vi sono donne che ufficialmente guidano il carrarmato, come ha fatto Julia. Fino a pochi mesi fa infatti alle donne non era permesso combattere in prima linea come soldati. Per questo venivano registrate come cuoche, medici e, ovviamente, telefoniste.

Questo è anche il motivo per cui Belka riceveva uno stipendio di soli 7mila hryvni – circa 250 euro – a fronte del salario per gli uomini tiratori di 12mila hryvni, più pagamenti extra per i combattimenti. E questo è anche il motivo per cui non le viene riconosciuta un’indennità di invalidità.

Julia e Belka vivono sul sussidio di maternità per Miroslava, su una manciata di hryvni di sussidio di disoccupazione e con soldi donati da amici e volontari conosciuti in guerra. “Ovvio che siamo amareggiate: perché sono i ragazzi a prendersi i premi adesso. Ragazzi che non hanno fatto nulla si beccano i soldi, case, appartamenti. E per noi nulla. A parte alcuni volontari, nessun altro bada a noi”, racconta Julia.

Una ricerca

“Non sono venuta al fronte per soldi. Non volevo premi o medaglie”, chiarisce Maria Berlinska. Non le è interessato all’inizio di non essere stata registrata come funzionaria dell’intelligence. Si è accorta solo molto dopo che era un gran problema, quando si è resa conto che anche ad altre era accaduta la stessa cosa. Assieme a Tamara Martsenyuk e Anna Kvit, entrambe sociologhe e ricercatrici su questioni di genere, Maria Berlinska ha effettuato una ricerca sulla situazione sociale, finanziaria e legale delle donne nell’esercito ucraino. Le interviste che ha realizzato confermano che la situazione è problematica se non catastrofica: spesso le donne nell’esercito non ricevono né uniformi della loro misura né un salario ragionevole e neppure accesso ai servizi sociali; ed è raro che il loro contributo venga riconosciuto dai colleghi maschi.

Maria Berlinska non si sarebbe mai aspettata che il suo studio smuovesse così tanto dibattito, con tanto di dimostrazioni per strada. Ma almeno ora la legge è cambiata e sono stati individuati 25 ruoli al fronte anche per le donne soldato.
“L’Ucraina sta cambiando a ritmi vertiginosi”, afferma Berlinska. Il paese si è lasciato da tempo alle spalle le leggi di Stalin ed oggi in ogni campo si procede con riforme. Ciononostante, né l’amministrazione corrotta e letargica e neppure la mentalità ancora prigioniera di una presa sciovinista possono essere cambiate rapidamente. Lo stesso accade per l’immaginario legato al ruolo della donna. “La guerra, anche se terribile e anormale, è anche in un certo senso una benedizione”, sottolinea la Berlinska. “Quello che altri paesi raggiungono in molti anni a noi in Ucraina sta accadendo in pochi mesi e questo non sarebbe stato possibile in tempo di pace”.

Femministe come Maria Berlinksa sentono un legame forte con la radicata tradizione dei movimenti a favore dei diritti delle donne in Ucraina: qui, prima ancora che in molti altri paesi europei, si è risvegliato l’ideale della parità tra i sessi e, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, si è articolato un movimento femminista. Poetesse e giornaliste ucraine, come ad esempio l’eroina nazionale Lesya Ukrainka, hanno rotto pubblicamente con l’assegnazione convenzionale dei ruoli ed hanno contribuito all’avanguardia femminista in Europa.

Femminismo

E il movimento femminile in Ucraina, essendo legato al tema dell’indipendenza e all’emersione di una coscienza nazionale, ha sempre avuto un focus patriottico. Sotto Stalin, la questione “della donna” è stata dichiarata risolta e il movimento femminista di conseguenza sciolto. Da una parte sono arrivati buoni sostegni da parte dello stato: nidi, asili, mense in modo che le donne potessero contribuire a costruire il comunismo assieme agli uomini. Ma Stalin però prescrisse alle donne il ruolo di madri. Non era più il “collettivo” ma la famiglia la “cellula del comunismo”. Quindi: il comunismo veniva costruito durante il giorno, le patate sbucciate alla sera.

Dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, l’immaginario legato al ruolo della donna è oscillato come un pendolo, da un estremo all’altro. Da un parte ha preso forma il desiderio di una femminilità esagerata, accompagnato dall’aspirazione al ruolo di donna della classe media. Lo status sociale è tornato ad essere garantito quindi dallo sposarsi un buon partito e facilitato dall’apparire enfaticamente femminile, banalmente incarnato dal cliché della donna dell’est Europa: tacchi alti e scollatura bassa. Dall’altra sono sempre più le donne che gli uomini a frequentare le scuole superiori e le università e molte investono su se stesse e nella propria carriera professionale.

“Per quanto riguarda il femminismo, molte donne hanno confusione nelle loro teste”, afferma Anna Dovgopol riferendosi a questi contrasti. Dovgopol, ricercatrice che si occupa di questioni di genere presso la Heinrich Böll Stiftung a Kiev, continua: “E la situazione nel paese è altrettanto confusa: da una parte, la guerra, con i suoi discorsi neo-nazionalisti e neo-patriarcali. Dall’altra una società civile pacifica, in pieno sviluppo, che adotta standard occidentali. E che si rende conto che adesso è arrivata l’occasione di cambiare le cose. Perché ora tutto è in movimento”.

A causa della guerra sono onnipresenti in Ucraina slogan patriottici e simboli nazionalisti: “Lunga vita all’Ucraina, viva gli eroi!”. Ovunque sventolano bandiere ucraine e, allo stesso tempo, quotidianamente la gente scende in strada chiedendo democrazia. Fatti che creano confusione. “E’ stata una questione molto dibattuta nei circoli femministi, se fosse giusto o meno prendere parte ad Euromaidan, perché vi era così tanta retorica di destra lì”, spiega Dovgopol. “Ma se le femministe non vi avessero preso parte, la loro voce sarebbe mancata dalla rivoluzione. La domanda ora è: a quali valori possiamo impegnarci collettivamente? O permettiamo che ci si divida? Difficile dare una risposta al momento. Ma vi è un ulteriore sviluppo: gente che rientra dal fronte partecipa al Gay Pride perché vuole che il proprio paese progredisca”.

Tutto questo anche se per tradizione i nazionalisti sono ostili alla comunità queer e, richiamandosi a valori quali la moralità e la famiglia, discriminano lesbiche, gay e transgender.

Anche Julia ha preso parte quest’anno al Gay Pride di Kiev. Attualmente sta assieme ad una donna, ma avrebbe partecipato in ogni caso alla manifestazione. Quando i suoi amici conosciuti al fronte lo hanno saputo sono stati colti di sorpresa: “Ma perché sei andata al Pride? Come se non ci fossero altri problemi nel paese!”. “Ed allora io ho chiesto loro: ma se ci sono tanti altri problemi, non c’è qualcosa di più importante che criticare il Pride? Ciascuno dovrebbe poter combattere per i propri diritti!”.

Quest’anno erano presenti 6500 poliziotti per proteggere i circa duemila partecipanti. “E questo significa che nessuno è riuscito nemmeno a vederci, circondati dai cordoni di polizia e quindi il Gay Pride non ha in realtà raggiunto il proprio obiettivo. Ma almeno nessuno è stato aggredito e ferito come l’anno scorso e questo è già un grande risultato”, aggiunge Anna Dovgopol.

L’Ucraina di oggi è caratterizzata da una forte società civile che, a partire dalle proteste in piazza Maidan, ha acquisito poteri effettivi e altrettanta responsabilità. Comprende tra l’altro migliaia di volontari che riforniscono l’esercito di tutto – tranne armi e tecnologia di guerra – che organizzano cure e riabilitazione per i feriti; offrono rifugio ai profughi originari del Donbass. Questa società civile comprende anche Ong finanziate dall’Occidente per occuparsi ad esempio di questioni sociali e di formazione. E comprende “persone normali”: non passa settimana che non vi sia una manifestazione di fronte alla Rada, il parlamento ucraino. Dopo due Rivoluzioni Maidan, centinaia di promesse vuote e speranze infrante e un secolo di dominazione straniera, la gente non si fida più delle istituzioni.

Anche in termini di uguaglianza dei diritti la società civile sta guadagnando spazio e promuovendo il dibattito. Anche senza considerare Femen, realtà molto conosciuta nell’Europa occidentale, ma che le femministe ucraine non ritengono essere un attore politico, ma una trovata di marketing. L’esempio più recente è l’hashtag Twitter avviato dalla giornalista ucraina Anastasia Melnichenko, #IAmNotAfraidToSay, che migliaia di donne inizialmente in Ucraina e poi in Russia hanno iniziato ad utilizzare sui social network parlando delle proprie esperienze di violenza sessuale. La risposta al lancio dell’hashtag ha portato la questione al centro del dibattito nella società ucraina.

E anche questa è una rivoluzione: è una rivoluzione personale, perché almeno le donne colpite dalla violenza ricevono solidarietà e sostegno. E’ una rivoluzione sociale, perché il modo in cui si tratta della violenza sessuale sta cambiando. E queste rivoluzioni dimostrano che l’Ucraina è cambiata. Le verità scomode non possono più essere messe sotto al tappeto. Troppo vi era già stato accumulato ed è ormai sprofondato al piano di sotto trascinandosi dietro sciovinismo, stereotipi, angoscia ed inazione.

Published 19 October 2016
Original in German
Translated by Osservatore Balcani e Caucaso
First published by Missy Magazine 3/2016 (German version); Eurozine (English version); Osservatore Balcani e Caucaso (Italian version)

Contributed by Osservatore Balcani e Caucaso © Katja Garmasch / Osservatore Balcani e Caucaso / Eurozine

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