Agli abitanti di Venezia, la loro città sembrerà sicuramente la più bella quando la guardano da una certa distanza, proprio come nelle vedute del Canaletto del XVIII secolo.
In un pomeriggio autunnale, quando il riflesso delle facciate dei palazzi maestosi scintilla sulla superficie del mare, surreale nella sua bellezza, Venezia pare davvero il dietro le quinte di un film.
E oggi, Venezia non è molto più di un scenografia.
Quando la vicina del primo piano del palazzo in cui ho affittato una stanza finalmente riesce a scendere, chiudo il pesante portone d’entrata. Con i suoi ottant’anni, la signora Immacolata cammina appoggiandosi al bastone. Prendiamo la Calle dei Fabbri perché mi vuole mostrare dove si trova il supermercato più vicino. Camminiamo piano e non solo per le sue condizioni fisiche, ma anche a causa di questa via. Una di quelle che dal ponte Rialto porta a Piazza San Marco, già alle nove di mattina è un via vai continuo di turisti. Piccola e china su se stessa, vestita di nero, Immacolata a fatica si fa strada tra la folla. Trascina con sé la borsa della spesa con le rotelline. Al primo ponticello sul canale si ferma e faticosamente sale tenendosi alla ringhiera. Ci sono due ponticelli del genere sulla strada per il supermercato, entrambi con le scale. Il supermercato Coop, nelle vicinanze di Campo Santa Maria Formosa, in realtà dista da casa sua solo cinque o sei minuti di camminata lenta, ma la signora Immacolata ce ne mette una ventina. Una volta là, ci attende una lunga coda alla cassa, dato che tutti i turisti dalle poche disponibilità è la che si recano. Tra una cosa e l’altra all’anziana signora ci vuole almeno un’ora per fare la spesa. “È così ogni giorno”, dice lei, sospirando. Le gambe reggono ancora, ma non riesce a portare il peso per le scale. Per fortuna, nel giro di poco tornerà la sua badante, una signora croata che si occupa di lei.
Un tempo, vicino al suo appartamento nella Corte Gragolina, c’erano anche il panificio, piccoli negozi di alimentari con tutto il necessario per la casa, la macelleria, il fruttivendolo, l’edicola, il falegname – in breve, tutto ciò di cui uno ha bisogno nella vita quotidiana… Invece adesso ci sono solo negozi di souvenir. Nella sua via non c’è altro che negozietti con il vetro di murano falso, pizzerie che vendono un trancio di pizza a 8 euro, ristoranti turistici, bar e gelaterie. Nell’intero quartiere intorno a San Marco ci sono solo due supermercati, uno più piccolo dell’altro e, mi pare, un solo ufficio postale, che ho faticato a trovare.
“Venezia non è più una città dove si può vivere normalmente…”, conferma un altro vicino, un impiegato di banca che vive nel palazzo di fronte al nostro. “La mattina è impossibile arrivare in tempo al lavoro o a una riunione, perchè c’è un tale caos che una persona della mia età semplicemente non riesce a farsi strada per salire sul vaporetto. Tutte le infrastrutture sono asservite al turismo: i prezzi nei supermercati e nei ristoranti, gli spettacoli teatrali in lingua inglese e persino i concerti di musica classica nelle chiese, dove i musicisti suonano con indosso costumi barocchi. Gli immobili hanno prezzi assurdi e ci sono sempre meno supermercati, scuole, asili, ambulatori, ospedali.”
Ovviamente il vicino ha ragione. Negli ultimi cinquant’anni Venezia ha perso il 65% della sua popolazione e nel centro storico ne vive soltanto il 23% – e si tratta, per lo più, di anziani. Solo qualche decennio fa nella parte vecchia della città abitavano 150 mila veneziani, mentre oggi a stento si arriva a 40 mila, numero questo in costante diminuzione. In parte perchè Venezia è costosissima, quindi i suoi abitanti si spostano nell’hinterland, come ad esempio Mestre, e in parte perchè non c’è lavoro per i giovani e i laureati. Venezia gode di un’ottima Università e molti giovani ci vengono a studiare, ma poi non restano. “Se non vuoi fare il cameriere, la donna di pulizie o la badante, non hai molta scelta. Anzi, anche questi lavori ormai li svolgono soprattutto gli stranieri: gli immigrati…”, conclude rassegnato il vicino.
A ogni modo, non bisogna piangere sul destino dei cittadini veneziani. Molti di loro vivono bene grazie all’affitto degli appartamenti, alcuni hanno venduto gli immobili e ora rosicchiano il capitale. Comunque, è un dato di fatto che per quelli che in città ancora ci vivono – e sono sempre più gli anziani – la vita è ogni giorno più difficile. Bisogna sopravvivere all’onda di milioni di turisti all’anno, masse che si riversano sulle strade di questa meravigliosa città costruita sui canali, dalle viuzze raramente più larghe di tre o quattro metri. I veneziani son ben consapevoli che non vivono in una città, ma in un museo. Come se Venezia fosse sempre meno una città reale e viva e sempre più il museo del passato europeo che incarna tutto lo splendore, la ricchezza, il potere, la bellezza e l’arte di un’epoca lontana. Per questa ragione milioni di turisti la visitano. L’industria del turismo di massa ha compreso per prima che bisognava capitalizzare non solo la bellezza, ma anche il significato che Venezia riveste.
Ma allo stesso tempo, questa Venezia è la perfetta metafora di quello che l’Europa era una tempo, quell’Europa la cui cultura e valore gli europei rivendicano, della quale sono orgogliosi e che vorrebbero salvaguardare.
Tourist shop in Venice. Photo: Giovanni Dall’Orto. Source: Wikimedia
Bari, città del sud Italia, mostra un quadro totalmente diverso da Venezia. Fa ancora caldo. Siamo a fine settembre, ma non ci sono più turisti. Domenica sera in piazza del Ferrarese, nella parte vecchia della città, un passante vi troverà gli abitanti seduti su un muretto basso o nei bar a bere birra o a passeggiare avanti e indietro. Alcune migliaia di persone così raccolte danno l’impressione di conoscersi tutte: alle nove di sera i bambini giocano a inseguirsi, gli adolescenti si rinfrescano con i gelati, mentre i loro genitori, ma anche i nonni e le nonne, stanno in disparte e chiacchierano a voce alta, gesticolando, come in un film in bianco e nero degli anni ’60 di Vittorio de Sica.
Questa è una città viva. Se Venezia è il luogo dove la vecchia Europa sta morendo, Bari è il luogo dove sta nascendo la nuova Europa. La porta d’ingresso degli immigrati in Europa.
Nell’estate del 1991, quindi vent’anni fa, qui arrivò la motonave albanese Vlora con a bordo più di ventimila profughi. I più vecchi ricorderanno sicuramente quell’esodo albanese attraverso l’Adriatico, prima della loro “rivoluzione di velluto”, se mai ne hanno avuto una in Albania. La fotografia dell’enorme motonave, stracolma di persone, fece il giro del mondo. Accade che un’unica fotografia diventi il simbolo di un periodo o di un evento storico. Così fu per la fotografia di Jeff Widener, che ritrae un uomo fermo in piedi davanti alla colonna di carri armati in piazza Tien’anmen. O per quella di Nick Ut che immortala una bambina vietnamita nuda con i suoi fratelli ustionati dal napalm, o per quella di Eddie Adams che a Saigon catturò l’istante della morte di un prigioniero di Vietkong, ucciso con la pistola dal capo della polizia, oppure per quello che riguarda la fotografia recente delle sevizie su un prigioniero a Abu Ghraib…
È questo anche il caso della famosa fotografia Vlora di Luca Turi. La sua mostra “La Fuga delle Aquile”, in occasione del ventennale di questo evento, è stata inaugurata nell’atrio del teatro Petruzzelli.
Mentre Vlora sta attraccando, la gente è stipata sul ponte della nave e sulle ringhiere; come grappoli alcune persone pendono dalla ciminiera, dalle corde e dagli alberi della nave. Nella foto successiva, a poca distanza dalla riva, già si buttano in mare e nuotano, come se avessero paura che la terra potesse sfuggir loro. E poi, magnifica, ma anche inquietante, la fotografia presa dall’alto della massa di persone che sbarcano sulla riva e stanno sotto il sole cocente. L’immagine di ventimila persone “congelate” nel momento in cui si accaparrano la terra ferma, sembra biblica.
In quegli anni in Italia arrivarono circa 100 mila albanesi – oggi sono intorno a mezzo milione. Negli ultimi anni, dopo l’ingresso della Romania nell’Unione Europea, è arrivata un’ondata di rumeni, e sono quasi un milione. Circa il 10% dei rumeni sono Rom, diventati i nuovi agnelli sacrificali delle politiche europee contro gli immigrati. L’occidente li deporta, privandoli dei permessi di soggiorno (Italia, Francia…), mentre a est li rinchiudono nei ghetti, li torturano e li ammazzano (Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria…).
Eppure, solo fino a cinque o sei anni fa, gli stranieri in Italia, ma anche in Europa, non rappresentavano un tale problema.
L’isteria anti-immigrati, e soprattutto anti-Islam, si è intensificata dopo la pubblicazione delle caricature del profeta Maometto nel 2005, mentre ha raggiunto proporzioni serie con l’inizio della recessione nel 2008. Gli abitanti di Bari erano solidali, aiutavano gli immigrati, perché da quella città e dalla regione Puglia, all’inizio del XIX secolo, milioni di Italiani poveri emigrarono in America, la terra promessa, e nel giro di un paio di generazioni si integrarono totalmente. Cento anni dopo, per altri immigrati, la terra promessa è diventata l’Italia.
Negli ultimi tempi Bari è una città di transito per gli immigrati, più che altro per i profughi. Qui, nelle vicinanze dell’aeroporto, è stata sistemata la più recente ondata di circa 40 mila immigrati, arrivati a Lampedusa dalla Tunisia e dalla Libia, in conseguenza ai cambiamenti politici di questi due Paesi. I nuovi immigrati vengono sistemati in un centro per i richiedenti asilo (CARA) e poi una commissione decide della loro sorte. In Italia ci sono otto centri CARA, tredici centri per l’identificazione e l’espulsione (CIE), sette centri di prima accoglienza (CPSA) e solo poche commissioni che decidono del destino di quelle persone. Infatti l’estate scorsa, Bari si è trovata al centro dell’attenzione mediatica, proprio a causa dei profughi, o meglio, dei richiedenti asilo del CIE.
All’inizio di agosto 2011 in centinaia sono scesi nelle strade della periferia, hanno fermato il transito dei treni e preso parte agli scontri con la polizia. Il risultato: 80 feriti e 29 in manette.
Cerco di informarmi al riguardo con i miei nuovi conoscenti.
Ogni giorno all’ora di pranzo si trovano al bar Il Borghese, all’angolo tra via de Rossi e corso Vittorio Emanuele: gli avvocati Dario Belluccio e Maria Pia Vigilante dell’associazione “Giraffa” (organizzazione civile di consulenza legale per immigrati), la redattrice del giornale locale Maddalena Tulanti, l’assistente sociale Silvana Serini e Erminia Rizzi dell’ufficio informazioni per immigranti. Dario, attivista per i diritti umani, uno dei pochi ad avere accesso al centro di identificazione ed espulsione, dove è vietato l’ingresso sia agli avvocati sia ai giornalisti, mi racconta che si tratta di un problema specifico: quando sono arrivati i libici, con loro sono giunte, in numero minore, persone provenienti dal Ghana, Nigeria, Mali, Burkina Faso e da altri paesi africani, che però da anni lavoravano in Libia. Secondo la legge non possono avere lo status di profughi di guerra come i libici, ma devono essere esaminati in base al Paese d’origine, indipendentemente da quanto tempo vivevano e lavoravano in Libia. Per questa ragione non avevano alcuna possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. Il problema non è solo la lentezza con cui i loro casi vengono risolti, ma anche il fatto che il governo li tratti come dei semplici criminali. Le condizioni nelle quali vivono, privati del diritto di avere un contatto con la realtà circostante, sono peggiori che nelle prigioni, dice Dario. Uscendo sulle strade e creando disordini hanno cercato di denunciare la loro situazione impossibile.
Silvana si occupa dei minori non accompagnati, ossia i bambini profughi senza genitori. Mi racconta di due fratelli, profughi di guerra dell’Afghanistan, arrivati da adolescenti. Erano analfabeti, mentre ora stanno finendo la scuola superiore e lavorano, dice orgogliosa. Poi prende l’ultimo numero dell’Espresso con il reportage di Fabrizio Gatti dal titolo “La prigione dei bambini”, la storia di 225 bambini e adolescenti rinchiusi da mesi, senza che venga condotta alcuna indagine, sistemati assieme agli adulti nel campo CPSA, a Lampedusa. Vivono in situazioni igieniche terribili, senza alcuna attenzione, nonostante si tratti di bambini traumatizzati, alcuni dei quali non solo sono stati testimoni delle uccisioni dei genitori, ma hanno anche patito fame e sete. Su quest’isola nel giro di sei mesi, da marzo a fine agosto, sono sbarcati 707 bambini, tra di loro alcuni neonati e altri nati sull’isola. La loro situazione è ancora più difficile e incerta.
Don Angelo, il sacerdote della chiesa San Sabino (subito accanto alla spiaggia chiamata Pane e Pomodoro) è la persona più fidata della città quando si tratta di aiutare gli immigrati. Stava giusto finendo il seminario quando sono sbarcati gli albanesi, li aveva visti sulla riva e allo stadio, dove avevano rinchiuso 10 mila persone che il governo ha liberato solo dopo l’intervento di Don Tonino (il famoso pacifista e vescovo, al secolo Antonio Bello), che è stato anche nelle missioni umanitarie in Bosnia e in Kosovo.
Quell’uomo dai capelli rossi e dal sorriso disarmante mi parla di “razzismo delle istituzioni”, dei motivi di frustrazione tra i ribelli, i quali ritengono di essere, in ogni caso, discriminati rispetto ai libici e ai tunisini, anche a causa del colore della pelle. Conferma quanto detto da Dario sulle condizioni insostenibili nelle quali vivono, tra l’altro nella totale incertezza sulla durata e sull’esito delle procedure legali dalle quali dipendono.
“La loro rabbia è contagiosa, si propagherà anche negli altri centri. Non siamo più nella situazione in cui gli immigrati accettano con gratitudine un pezzo di pane e poi stanno zitti e aspettano. Cercano delle risposte”. E in effetti, amareggiati dal trattamento che il potere riserva loro, ancor prima che a Bari, si sono ribellati a Mineo, poi a Crotone, ma anche al nord Italia. “Si tratta di disperazione e non di una ribellione orchestrata da fuori. È assurdo che il governo non lo comprenda”, mi dice Don Angelo.
L’abisso tra gli immigrati e il potere è un problema strano, ma ora vi è anche l’abisso tra i cittadini e gli immigrati. Infatti, a fine settembre si sono verificati degli incidenti a Lampedusa. Gli abitanti di quell’isoletta, più vicina alla Tunisia che alla Sicilia, sono poco più di 5 mila e all’inizio, in primavera, recuperavano gli annegati dal mare, salvando così centinaia di vite e aiutandoli a sopravvivere. Ma dopo un po’ di mesi, dopo che sull’isola si sono riversati come minimo 40 mila immigrati, tutto ha preso ad andare per il verso sbagliato. Gli abitanti si sono rivoltati contro gli immigrati, dopo che questi ultimi hanno incendiato il centro di prima accoglienza CPSA – in cui ne erano stati sistemati un migliaio, un numero assai superiore alla capienza del centro – cercando con questo gesto di costringere il governo ad accelerare la risoluzione delle procedure sui loro status. Negli scontri con la polizia una ventina di persone è stata ferita. È un dato di fatto che il governo non sta mantenendo la promessa di trasferirli, ossia di deportarli abbastanza in fretta. Quindi, in seguito ai disordini, il sindaco ha dichiarato che non permetterà a nessun altro profugo di sbarcare sull’isola. E così, questo pezzo di terra dimenticato e trascurati è diventato esso stesso una sorta di vittima, un ostaggio nelle strumentalizzazioni del governo. Perchè un uomo comune, nel giro di alcuni mesi, passi dalla solidarietà all’astio, qualcosa dev’essere andato storto. Perché quegli stessi abitanti di Lampedusa, che prestavano aiuto e salvavano centinaia di annegati, due mesi dopo prendano a sassate i profughi, urlando “buttateli nel mare, sono tutti criminali!” – le cose devono essere seriamente cambiate. È evidente che questa piccola comunità isolana, che già vive in condizioni difficili, non può gestire un tale peso senza l’aiuto del governo.
E proprio del rapporto con i profughi giunti su un’isola del genere, piccola e senza nome, e dello scontro tra il principio di umanità e la legge, tratta il film Terraferma, del regista Emanuele Crialese, al quale è stato assegnato il Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia.
L’ho visto a Bari il giorno dopo la prima. Alla proiezione delle 18,30 eravamo solo una decina di spettatori. Forse era troppo presto, forse faceva troppo caldo o forse semplicemente c’è stato poco interesse perché il film si occupa di una problematica complessa, e non è il solo a parlarne.
Sull’isola vivono i pescatori. E se non si può sopravvivere di pesca, d’estate si vive di turisti. Ma quando il mare sputa sulla loro riva i primi profughi del nord Africa, questo fatto complica la vita, rovina i rapporti famigliari, porta dilemmi morali… I profughi non sono solo “una brutta pubblicità” per il loro piccolo paradiso turistico, bensì pongono problemi ai quali non sono abituati e che non possono capire. Uno dei pescatori riassume così questo dilemma: “È possibile che il governo ci vieti di salvare le persone nel mare? Per tutta la vita abbiamo fatto il contrario e se adesso invece è così, vuol dire che la nostra abitudine è al di sopra di questa legge”.
“Molto bello e umano”, mi si rivolge inaspettatamente un signore anziano, all’uscita dal cinema. Quest’anno al Festival di Venezia c’erano diversi film che si occupavano della stessa tematica, ad esempio Io sono lì di Andrea Segre, Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno e Il villaggio di cartone di un grande del cinema italiano, Ermanno Olmi. Dei problemi degli immigrati e dei profughi si scrive molto, ne scrivono non solo giornalisti, ma anche sociologi, politologi e scrittori come Gabriele del Grande o Luca Rastello, giusto per nominarne solo alcuni. Ma scrivono anche gli stessi immigrati che sono rimasti a vivere in Italia, come Elvira Mujcic, originaria della Bosnia, o come Igiabe Scego, i cui genitori sono somali. Sembra che in Italia la consapevolezza sociale, e soprattutto artistica, sia molto più profonda di quella della politica conservatrice che si impegna per chiudere le frontiere.
Sono molti gli italiani che ancora ricordano l’esodo che ha svuotato grandi parti del loro Paese, soprattutto all’inizio del ventesimo secolo. Gli italiani sanno che poche le persone lasciano la propria terra, la cultura e la lingua per andare nell’ignoto alla ricerca di una semplice avventura. Emigrano per necessità impellente, di solito scappando dalla guerra o dalla miseria, pronti a rischiare anche la vita sulla strada verso l’ignoto, proprio come oggi coloro che arrivano dal Nord Africa. Negli ultimi 150 anni dall’Italia sono emigrati 18 milioni di persone, praticamente il numero di abitanti che ha un Paese europeo di media grandezza. Sono emigrati soprattutto in America, più di cinque milioni di persone, molte più di quanti siano gli abitanti dell’Irlanda.
Al Museo Nazionale di Emigrazione (MEI), a Roma, ho potuto constatare quanto sia importante la documentazione dell’emigrazione (e dell’immigrazione) per la storia di una popolazione.
Situato sul lato de Il Vittoriano, in piazza Dell’Ara Coeli, l’entrata del museo si nota malapena e, comunque, non è uno di quei luoghi in cui si riversano frotte di turisti. Ci vengono sopratutto gli italiani, che si muovono piano e guardano il archivio video, la biblioteca, le stanze con le valige usurate e i biglietti ingialliti delle navi, le liste dei viaggiatori e le carte d’identità e passaporti, le foto sbiadite della propria terra e poi le prime foto arrivate dalle nuove e lontane terre e continenti. Forse i visitatori si ricordano dei bisnonni, forse cercano i loro nomi sulle liste… Lettere, diari, associazioni sportive, gruppi folkloristici rivelano storie personali di disperazione e speranza di quei poveri contadini che, dal sud Italia, sono partiti verso un mondo sconosciuto, alcuni di loro non avevano nemmeno 14 anni. Proprio come fanno oggi certi altri disperati… Tutto ciò accadeva solo qualche generazione fa, sono ancora vivi alcuni degli uomini che davanti alla macchina fotografica testimoniano il dramma della partenza, ai parenti o ai genitori che stanno sulla riva e salutano con la mano fino a che non diventano un puntino nell’orizzonte.
Mentre visitavo il MEI, mi sono ricordata del Museo del Muro di Berlino, Museum Haus am Checkpoint Charlie. Lì, il visitatore può vedere in quanti modi i tedeschi dell’Est cercavano di scappare nella Berlino Ovest, circondata da un muro lungo più di 140 km. Alcune modalità sono davvero incredibili, come il volo con i palloncini, lo scavo di un tunnel sotto il muro, il contrabbando di persone nei bagagliai delle macchine e la fuga a nuoto.
In una delle scene iniziali del film Terraferma, dopo il naufragio del barcone fragile e stracolmo, sulla superficie del mare galleggiano le lettere, le fotografie, i documenti, gli spazzolini da denti… Non bisognerebbe raccogliere quegli oggetti, simboli di identità, metterli assieme in un museo dedicato ai profughi dal Nord Africa? Non bisognerebbe raccogliere le testimonianze delle sofferenze di quelli che sono annegati, quelli che hanno bevuto l’urina pur di sopravvivere e quelli che dalle ringhiere buttavano giù persone vive? Si tratterebbe, ovviamente, di un museo dedicato alla sofferenza. Però da qualunque parte arrivino, i profughi lo meritano.
Per questa ragione sono stata felice quando, nemmeno una settimana più tardi, ho trovato in un giornale italiano una piccola notizia: “Pezzi di legno, fotografie di famiglia, pagine del Corano, scarpe, scatole per il cibo, cassette musicali… oggetti trovati in mare o abbandonati sulle navi che hanno trasportato migliaia di migranti che ogni anno attraversano il Mediterraneo, tutto questo si trova in una stanzetta di dieci metri quadrati, il fulcro del museo dei profughi messo in piedi dai volontari dell’associazione Askavusa”. Il museo è stato fondato dall’artista locale Giacomo Sferlazzo, nella speranza di vedere molte altre persone prendere parte all’iniziativa.
Nel museo del MEI ci sono anche i dati sull’immigrazione: in Italia ci sono poco meno di 4 milioni di immigrati, il 6,5% della popolazione italiana. I dati della Caritas Migrantes sono diversi: circa 5 milioni di immigrati o il 7% della popolazione. È interessante – e mi è stato confermato da diversi conoscenti – che qui non regni l’islamofobia, ossia la paura dei musulmani non è un mezzo di propaganda, come accade nel nord Europa. Tuttavia, attivisti come Don Angelo e alcuni giornalisti, mi mettono in guardia da un altro tipo di generalizzazione, ossia è in atto una criminalizzazione degli immigrati nel loro insieme sia a livello legislativo, sia mediatico. Il governo si rivolge a loro come se si rivolgesse a dei semplici criminali, anche se non lo meritano. È proprio questa la ragione per la quale protestano. Ma questo è anche il problema, perché l’Europa non è abituata a che i profughi protestino. Gli europei vogliono solo la gratitudine.
È particolarmente interessante il ruolo che ha la televisione pubblica nella politica della paura. Come scrive La Repubblica, secondo le ricerche di Demos&Pi, le notizie sugli immigrati nei primi quattro mesi del 2011 in Italia (TG1) occupavano il 13,9% del programma informativo. Al contrario, nella televisione francese France 2 la percentuale è 1,6 e sull’ARD 0,6. Però bisogna comunque segnalare che in quei mesi si stava verificando la cosiddetta “invasione” degli immigrati in Italia. Tuttavia, questa quantità di notizie non ha avuto un’influenza decisiva sui cittadini: secondo la stessa fonte, solo il 6% degli italiani considera gli immigrati il problema principale, mentre per il 55% il problema principale è il costo della vita. “Si tratta di una conferma delle costruzioni mediatiche e politiche dell’insicurezza, che induce a enfatizzare la paura dell’altro e a ridimensionare l’incertezza per motivi economici e (dis)occupazionali”, sentenzia l’autore Ilvo Diamanti.
Sono numerose le organizzazioni umanitarie e civili, come Fortress Europe, che si impegnano per i diritti degli immigrati e danno loro un aiuto concreto. Queste organizzazioni sostengono che i migranti continueranno ad arrivare nonostante tutte le restrizioni e le leggi immorali, nonostante i muri innalzati e altri ostacoli che troveranno sulla strada. Perché là, da dove arrivano, è ancora peggio. Per questo la politica sull’immigrazione dovrebbe essere razionale e non basata sulla paura, dalla quale traggono profitto solo quei politici e quei partiti che promettono l’impossibile. Per loro la paura degli immigrati è il lievito grazie al quale crescono.
A Roma gli immigrati vivono nella zona chiamata Esquilino, vicino alla stazione ferroviaria Termini. Ho capito la differenza tra Esquilino e gli altri quartieri del centro di Roma, mentre camminavo su via Carlo Alberto, in direzione di piazza Vittorio Emanuele. Ho visto una di quelle scena che in Jugoslavia ho visto l’ultima volta forse cinquant’anni fa: affilacoltelli in strada. Un giovane dalla carnagione scura stava chino sul grande acciarino in pietra e affilava il coltello a una signora che fumava appoggiata al portone, aspettando che finisse. Parlavano rumeno.
La mia amica Alessandra abita proprio qui. In realtà dal suo grande terrazzo al quinto piano non si vede nulla della vitalità di Piazza Vittorio. Intorno alla piazza ci sono negozi che vendono qualsiasi cosa. A quanto pare, pochi comprano e comunque è tutto di proprietà cinese. Ma, appena esce dal palazzo, si ritrova in mezzo a persone provenienti da altri continenti, che parlano lingue sconosciute e hanno vari colori della pelle. Lei stessa ha avuto in affidamento un ragazzino del Camerun che, qualche anno dopo, è ritornato in custodia della madre. Mentre guardo la foto di David sulla sua scrivania, penso alla differenza tra l’Europa e l’America: se questo stesso ragazzino vivesse in America e non in Italia, diverrebbe americano. In Italia non diventerà mai italiano, ma soltanto un abitante dell’Italia. Sia lui, sia i suoi figli. Un suo coetaneo bianco, i cui genitori sono originari dell’Albania o della Bosnia, diventerà italiano, proprio come la sua progenie.
Alessandra è una psicologa, lavora come volontaria ai progetti che aiutano gli immigrati a integrarsi nel nuovo ambiente, imparare la lingua, scolarizzarsi, trovare lavoro ecc. Bisogna ammettere che il Fondo per l’integrazione sociale degli immigrati sostiene una serie di programmi e attività del genere. Mi mostra anche il libro e il DVD La metà di me, risultato di uno di questi progetti a cui ha preso parte e che si occupa della seconda generazione, ossia dei figli dei migranti. Ci sono molte iniziative di questo tipo. Basandosi sulla sua esperienza, lei pensa che molti di loro resteranno comunque in Italia e che bisogna dare loro al più presto la possibilità di diventare cittadini con gli stessi diritti. Sostiene che la politica per gli immigrati è totalmente sbagliata. È stata abrogata la legge per il diritto al ricongiungimento famigliare, il che significa che gli immigrati – sia i profughi sia quelli che vengono per motivi economici – sono per la maggior parte giovani maschi che si scontrano con problemi di vario tipo, dalla depressione all’alcolismo, dalla tossicodipendenza alla criminalità. Sono privati delle motivazioni e delle mete. Il solo sopravvivere non è una motivazione sufficiente. E mi racconta quello che ho già sentito, l’esperienza degli italiani in America: quando alle persone dai la possibilità di integrarsi in una società, di solito la prendono al volo. Sicuramente il melting-pot americano offre un diverso metodo di integrazione, ma allo stesso modo la politica sull’immigrazione dovrebbe fondarsi sia sulla solidarietà e sull’umanità, sia sul vantaggio reciproco, dice Alessandra.
Un esempio di questo tipo di vantaggio è infatti Elvira Mujcic, una giovane donna che arrivò in Italia come profuga da Srebrenica, non ancora tredicenne. Oggi, dopo aver finito la scuola superiore e l’università, è una giovane scrittrice italiana, perché scrive in italiano. Mentre pranziamo con le melanzane alla parmigiana in un ristorantino in via del Boschetto, parliamo di identità. Lei non trova che ci sia un conflitto tra la sua origine bosniaca e il fatto che scrive in italiano e che parla questa lingua persino meglio della sua lingua madre. Nel corso della conversazione, non fa che scusarsi proprio per questa ragione. L’identità non è uno stampo rigido nel quale o entri o non entri. Proprio al contrario, parliamo del fatto che un’identità, diciamo bosniaca, non esclude un’altra, quella italiana. Ama il cibo bosniaco, ma ama la lingua italiana. Non vivrebbe più là dove è nata e non solo perché in Bosnia non c’è lavoro, semplicemente sente di appartenere a questo ambiente, perché qui ha studiato, qui vive, lavora e ama.
In ogni caso, l’integrazione per lei è stata più facile perché è europea. Più difficile invece è per quelli che vivono intorno a Piazza Vittorio, soprattutto se arrivano da altre culture e da altri continenti. Ma anche tra loro ci sono quelli che ci sono riusciti. Una storia avvincente è quella dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Ora è un’orchestra relativamente famosa, ha alle spalle tre album, circa trecento concerti in giro per tutto il mondo e un documentario. I musicisti vengono da Tunisia, Brasile, Cuba, Stati Uniti, Ungheria, Ecuador, Argentina, Senegal, India e, ovviamente, Italia, ma la composizione varia. Nel 2002 il direttore d’orchestra Mario Tronco li ha riuniti come parte del progetto di salvataggio del cinema Apollo.
Se la storia della loro formazione è interessante, lo è ancor di più il genere di musica che fanno. Una sera a Roma sono riuscita ad avere il biglietto per la prima del Flauto magico di Mozart, suonata da loro nel Teatro Olimpia. Quella sera si era riunita la crème del pubblico romano progressivo di sinistra – tra i quali ho riconosciuto alcuni volti famosi della vita pubblica – perché si trattava di un evento semplicemente da non perdere. Uno spettatore casuale, entrato nel teatro quella sera, avrebbe creduto di trovarsi a un miscuglio tra un concerto e un’opera. Hanno suonato un mix di musica classica e ethno, jazz, pop, rap, reggae e mambo. Tra il cantante tunisino e le parti in liuto arabo, intervenivano strumenti africani come kora, djembe, dumdum, sabar – ogni tanto si potevano sentire anche alcuni frammenti del Flauto magico, come “Regina della notte”, “Papageno”, “Sarastro”, “Pamina”.
In questa versione dell’opera si canta in sei lingue: oltre che in arabo, in portoghese, in spagnolo, in tedesco, in inglese e in lingua wolof. Nemmeno la storia segue il libretto e si conclude in modo inaspettato… In realtà non si tratta di un’esecuzione dell’opera. Già il manifesto ci avverte che si tratta di un’interpretazione: Il flauto magico secondo l’orchestra di Piazza Vittorio. Lo stesso Marco Tronco conferma che non è assolutamente una realizzazione dell’intero pezzo di Mozart: “Ci siamo presi una grande libertà rispetto alla partitura, abbiamo scelto le parti adatte alla nostra orchestra… La nostra esecuzione è piena di riferimenti alle altre culture. I nostri musicisti vengono da lontano, non solo in senso geografico. Ognuno di loro in quest’opera porta la sua cultura, la sua lingua”. Infine conclude che mentre l’opera di Mozart racconta “com’era una volta”, l’interpretazione dell’Orchestra dice “come sarà un giorno”.
Effettivamente, quella sera sembrava che l’Orchestra avesse aperto una fessura sul futuro dell’Europa. La musica di Mozart è esattamente al centro di quello che consideriamo l’eredità culturale europea. Probabilmente la maggior parte degli europei vorrebbe ascoltare una perfetta realizzazione dell’opera originale di Mozart da parte dell’Orchestra, perchè sarebbe la conferma dell’integrazione. A loro questa interpretazione/adattamento/improvvisazione, per quanto ben eseguita e interessante, suona probabilmente in modo blasfemo. Tuttavia, la cosa più probabile è che saranno gli immigrati non europei a portare in Europa qualcosa di loro e che avremo sempre più a che fare con la mescolanza di culture, anche se si tratta di Mozart o di qualsiasi altro mostro sacro europeo.
Quest’interpretazione dimostra che gli arrivati dalle altre culture non si adegueranno necessariamente, come ci si aspetta da loro, alla nostra cultura dominante, bensì cercheranno di adattare la cultura che incontrano e tutti i suoi elementi alla loro. Nell’arte, come nella vita. E non è da escludere che, con il crescere del numero degli immigrati dall’Africa e dall’Asia, assieme al cibo, alla musica, ai vestiti e alle abitudini, cambieranno, o meglio, si adatteranno ai cambiamenti, anche le leggi europee. Questa probabilmente sarà una questione di statistica: più crescerà il loro numero, più la nostra cultura cambierà e si adatterà – accadrà anche per quanto riguarda le leggi? – ai loro standard. In che misura gli europei non accettano queste trasformazioni lo indica il fatto che, nell’Europa di oggi, raramente qualcuno ammetterà a voce alta: “sì, è vero, e allora?”.
Parlare dell’integrazione e dell’assimilazione quando si tratta di immigrati (e questi sembrano gli unici due modelli di cui si discute) pare abbia senso solo fino a un certo punto, quando si tratta di arrivati dall’Europa, ad esempio dall’est Europa, come gli albanesi o i bosniaci (ma non i Rom, i quali non arrivano forse da culture simili, anche se non da circostanze storiche simili). E invece cosa si fa con gli immigrati non europei, quelli che avanzano da sud, attraverso Lampedusa, la Sicilia, le coste spagnole, ma anche da Est, ad esempio da Afganistan, attraverso i confini turchi, greci e bulgari? E mentre gli europei, quelli pro e quelli contro l’immigrazione, concordano sugli standard minimi di civiltà che devono essere mantenuti – come l’emancipazione delle donne, il rispetto dei diritti umani, la democrazia e così via – che fare dell’arte che per definizione cambia e distrugge qualsiasi standard?
Forse è davvero meglio diventare consapevoli del suono che avranno i grandi come Mozart, Bach e Bethoven in futuro. Ma anche di come cambieranno, ossia di come sono già cambiate anche molte altre tradizioni alle quali teniamo. Prendiamo la produzione del vetro di Murano. L’isoletta Murano, famosa per la sua produzione del vetro sin dalla fine del tredicesimo secolo, oggi offre un’immagine triste. La maggior parte delle fabbriche di vetro sono chiuse. Gli oggetti – gioielli, statuine, ciotole, candele, fermacarte, tappi ecc – che si vendono in massa nelle centinaia di negozi di souvenir a Venezia, sono prodotti in Cina. Sì, assieme alla collana riceverete la certificazione che è in vetro Murano, ma molto probabilmente si tratta di vetro murano made in China. Un comune turista non nota la differenza e non si chiede come sia possibile produrre l’enorme quantità di souvenir in murano su quell’isoletta che ha visitato il giorno prima e sulla quale non esiste una grossa produzione di vetro. E come un meraviglioso anello o un braccialetto in vetro possa costare solo pochi euro? Ma soprattutto, com’è possibile che la maggior parte degli oggetti siano uguali, come se fossero stati fatti con lo stampo? Perché sull’isoletta Murano, con la lavorazione manuale non ci possono essere due oggetti uguali, il che è un tratto distintivo della finezza dei loro prodotti.
Ne ho avuto la dimostrazione in un negozio vicino a casa mia, all’angolo di Calle Fiuber. Andrea, il commesso, mi ha portato nell’atelier dietro il negozio e mi ha mostrato vari oggetti, dal fermacarte ai magnifici gioielli. Dicono che sia difficile distinguere gli originali prodotti a Murano da quelli prodotti in Cina. In internet troverete avvertimenti e indicazioni per riconoscerli, ma troverete anche annunci per il vetro murano prodotto in Cina, il che è un’insensatezza, perché murano non è solo il nome di una certa tecnica della lavorazione del vetro, murano è il nome degli oggetti lavorati a Murano.
Andrea ha preso in mano due braccialetti. Uno era perfetto, con una lavorazione precisa, mentre sull’altro, con un piccolo sforzo, ho potuto notare che si trattava di una grezza e imprecisa imitazione cinese. Evidentemente, il turismo di massa ha causato una grande richiesta che Murano non riuscirebbe a soddisfare nemmeno se lavorasse a piene mani. E come dice Andrea, i cinesi non hanno la stessa idea dell’originale e tanto meno si fanno dilemmi morali nel produrre imitazioni. Ma la cosa che più mi ha colpito è stato il confronto tra la collana millefiori prodotta a Murano e quella fatta in Cina. Con grande dispiacere, ho compreso che la mia collana, comprata il giorno prima in un altro negozio, era solo un falso!
“Il pericolo di invasione”, come dicono i politici europei ai quali piace esagerare, non è solo una questione di numero di immigrati (del resto in Italia ci sono solo 200 000 cinesi, mentre a Venezia circa 2000), ma di investimento di denaro e acquisto di immobili. Il denaro porta il cambiamento molto più velocemente di quanto facciano i soli nuovi arrivati. I cinesi a Venezia hanno prima di tutto comprato piccoli negozi che, poi, hanno trasformato in negozi di souvenir in vetro “murano” e negozi di oggetti di pelle. Poi hanno comprato bar e ristoranti e ora seguono i palazzi, che trasformano in hotel.
Una sera mentre ero sul vaporetto numero 2, dal Ponte dell’Accademia verso il porticciolo di San Marco su Riva degli Schiavoni, ho notato che nella zona del Canale Grande ci sono parti immerse nella totale oscurità. Grandi palazzi al buio, senza un alito di vita, come se fossero stati totalmente svuotati. Si tratta delle residenze estive dei ricchi. Ma tra queste, ci sono anche palazzi di proprietà della città e che la città sta vendendo, mi ha spiegato un’amica che vive qui. Perché la trasformazione, evidentemente, arriva in molti modi, non solo con i poveretti che riescono ad arrivare vivi fino a Lampedusa o a qualsiasi altro pezzettino di terra italiana, non solo attraverso il cibo, la moda, le abitudini, la musica, ma anche attraverso le banche, gli investimenti, il riciclaggio dei soldi sporchi, la corruzione. E così, mentre gli europei riflettono sui futuri cambiamenti, sulla possibilità di erigere un muro intorno all’Europa, che forse farebbero pure se sapessero dove esattamente finisce l’Europa, sulle misure da prendere per mantenere i migranti oltre quell’immaginario confine, sulla cultura europea e sui valori che bisogna salvaguardare (anche se la globalizzazione, o meglio l’americanizzazione, li ha completamente cambiati) i cinesi continuano, indisturbati, a investire, a comprare palazzi a Venezia con l’intenzione di trasformarli in alberghi e guadagnare ancor di più dal patrimonio culturale europeo. In confronto agli investimenti finanziari cinesi, che sono solo all’inizio – si noti bene, qui qualcuno li chiama riciclaggio di danaro sporco – la paura dei poveri migrati musulmani in Francia e in Germania e più al nord , dalla prospettiva veneziana, risulta quasi patetica.
Secondo le parole del mio vicino, Venezia si sta sempre più trasformando non in un museo – come avevo creduto io romanticamente – ma in un parco di divertimento di proprietà cinese, dal quale traggono profitto solo loro. Probabilmente ha ragione. Piano o veloce, legalmente o illegalmente, con i soldi o senza, profughi o no, gli immigrati arrivano. Mentre me ne vado da Venezia con la mia falsa collana, ascoltando l’Orchestra di Piazza Vittorio, provo a immaginare che suono avrà Mozart , non in un’esecuzione, ma in un adattamento di una futura orchestra cinese nel Teatro La Fenice, in un domani forse non tanto lontano…
This article is a part of the international project “Mirrors of Europe”, a series of literary reportages by authors from numerous European countries coordinated by the association Project Forum in Bratislava in cooperation with Eurozine.