Di nuovo nel ghetto

La sera del 26 Ottobre 2006, moriva mia zia Bluma e, 36 ore dopo, mi trovavo su un volo per Tel Aviv. I funerali ebraici sono una faccenda veloce e avevo solo 18 ore di tempo. La notizia della morte di Zia Bluma era giunta inaspettata e il viaggio per prendere parte ai funerali non era previsto. Mentre mi sistemavo sull’aereo, pensieri e ricordi riaffioravano. Pensieri di storie taciute e di legami recisi. Ricordi di occhi scintillanti, di risate contagiose, una mescolanza disordinata di polacco, yiddish ed ebraico – ricordi di un’incontenibile gioia di vivere sullo sfondo di esperienze indicibili.

Bluma era nata nel 1915 a Chelm, paesino della Polonia orientale, conosciuto nel folklore per i suoi matti (come anche la città svedese in cui sono nato io, Södertälje). Mia zia era di 11 anni più grande della sorella, ed era l’ultima della famiglia Staw a ricordare il luogo in cui era nata anche mia madre. Molti anni fa, le avevo chiesto di registrarmi, su un nastro che ormai non si usa più, i suoi ricordi di Chelm.

Mentre mi raccontava, ridendo di gusto, del Wunderrabbi del posto e delle sue cure e benedizioni miracolose (in caso di parto difficile prescriveva di legare con un filo il libro di preghiere al letto), non riuscivo a capire se quelli erano ricordi o solo storie. Non posso dire di aver la certezza di aver capito tutto quello che mi diceva, ma di una cosa sono sicuro: era tutto ciò che avrei mai potuto sapere del mondo da cui proveniva la famiglia di mia madre.

Mia madre Hala (Chaia) aveva solo 5 anni quando mio nonno Jankiel (Jacob) e mia nonna Rachela (Rachel) lasciarono Chelm con 5 figlie femmine e un maschio per cercare fortuna nella vivace città industriale di Lodz. E aveva solo 13 anni quando i tedeschi occuparono Lodz e chiusero gli ebrei in un ghetto. E solo 17 quando, nel settembre del 1944, i membri della famiglia sopravvissuti furono deportati dal ghetto di Lodz alla Judenrampe di Auschwitz, in cui tutte quelle storie sarebbero sprofondate nel silenzio per sempre. Il nonno Jankiel e la nonna Rachela furono mandati dritti alle camere a gas, e anche mia zia Dorka con il figlio di un anno, Ovadja, mio cugino più grande. Le quattro sorelle più grandi, nubili, furono ritenute capaci di lavorare e, dopo aver passato due giorni sotto il fumo incessante dei crematori, furono trasportate al campo di concentramento di Stutthof sulla costa baltica orientale di Danzica. A Stutthof mia zia Bronka morì. Mia zia Sima morì a Slupsk fuori Danzica, un mese dopo la liberazione. Mio zio Shlomo morì “da qualche parte” nella Polonia sud-orientale, dopo essere fuggito da Lodz prima che il ghetto fosse chiuso.

Dopo la liberazione, i due unici membri sopravvissuti della famiglia Staw, mia zia Bluma, che ormai aveva trent’anni, e quella che sarebbe divenuta mia madre, Hala, che aveva ancora solo 19 anni, si diressero verso Lodz in cerca di qualcuno o di qualcosa per cui vivere. Ma nessuna delle due trovò lì ciò che cercava. Infatti, Hala trovò quello che sarebbe stato mio padre nella lista del campo di smistamento per rifugiati della Croce Rossa ebraica del villaggio di Furudal, nella Svezia nord-occidentale. Nell’agosto del 1946, attraverso il grande campo di profughi di Bergen-Belsen, nella Germania occupata, riuscì a lasciare la Polonia per la Svezia. Ovviamente non fu uno spostamento molto facile da realizzare e lei ci riuscì solo perché non esitò a viaggiare sotto falso nome, inventandosi una storia – ed è forse per questo che trovo normale che chi chiede asilo faccia lo stesso.

Zia Bluma rimase in Polonia per qualche altro anno, avviando un piccolo commercio all’ingrosso di tessuti. Sposò Leon e diede alla luce due figli, i miei cugini Jacob e Isaac. Ma i sentimenti antiebraici restavano vivi. I pochi ebrei polacchi che erano riusciti a tornare a casa scoprirono presto che non avevano una casa in cui tornare. Il pogrom di Kielce del 4 luglio del 19461 confermava che mille anni di storia ebraica in Polonia erano finiti. Dopo qualche anno, gran parte degli ebrei rimasti in Polonia aveva lasciato il paese. Nel 1949, la Polonia apriva le porte agli ebrei per consentirne l’emigrazione verso il nuovo Stato ebraico, e l’ultima rappresentante della mia famiglia su territorio polacco le chiuse dietro di sé senza neanche guardarsi indietro. Mia madre non è mai tornata in Polonia. Mia zia Bluma lo fece una volta, con i suoi figli e nipoti, quando ormai aveva quasi novant’ anni e non aveva più paura di niente al mondo.

Ho cambiato aereo a Vienna. Da alcuni anni non ci sono più voli diretti tra la Svezia, o qualsiasi altro paese scandinavo, e Israele. Israele, ormai, ispira sempre meno curiosità e sempre più costernazione e avversione. Il turismo è diminuito e gli affari sono in stallo. I quarant’anni di occupazione israeliana sono ormai considerati scandalosi da un numero crescente di persone, provocatoria la colonizzazione della Cisgiordania, illegale la costruzione di un muro di sicurezza su gran parte del territorio palestinese e sproporzionato e autolesionistico lo schieramento militare. C’è chi reagisce a tutto questo lasciando fuori dal carrello della spesa le arance e gli avocado israeliani, oppure escludendo dai propri itinerari i voli diretti per Tel Aviv.

La maggior parte dei passeggeri sul volo che parte da Vienna è israeliana. Il carrello con i pasti kosher è ben fornito quanto quello con i pasti normali a base di pollo. Un gruppo di cristiani provenienti dalla Norvegia occupa i posti nella zona posteriore dell’aereo. I gruppi cristiani sembrano insensibili ai cicli della guerra e della violenza nell’area mediorientale o piuttosto hanno una sensibilità al contrario: più la regione è calda, più trovano una buona ragione per andarci. Ho come la sensazione che lo scopo del viaggio di questo gruppo sia, almeno in parte, quello di dimostrare solidarietà verso i confratelli cristiano-palestinesi di Ramallah o di Betlemme. Temo che altri gruppi cristiani viaggino, invece, per dimostrare solidarietà verso gli ebrei che vogliono rimpossessarsi della Terra Santa, accelerando in questo modo l’Armageddon e la seconda venuta di Cristo.

Il nuovo terminal dell’aeroporto Ben Gurion è spazioso e luminoso. Tra percorsi in leggera pendenza ed enormi vetrate, si colmano grandi distanze. Chi arriva ha un’impressione di apertura e di normalità, almeno finché non arriva al controllo passaporti e sicurezza, anche se i controlli non sono più severi di quelli di un qualsiasi altro paese. Oggigiorno, chiunque è ovunque un potenziale terrorista. In questo senso, Israele è diventato il mondo e il mondo è diventato Israele.

È solo all’uscita della zona aeroportuale che Israele diventa di nuovo Israele. O meglio: è all’uscita dall’aeroporto che mi accorgo quanto la zona aeroportuale simboleggi quello che la nazione di Israele è diventata. È una zona estesa, delle dimensioni di una piccola città. Devi camminare per un po’ lungo ampi viali fiancheggiati da palme lussureggianti e segnali stradali confusi, prima di raggiungere il confine della zona aeroportuale, che è recintato e controllato pesantemente neanche fosse il confine fra due stati. All’interno di questa area non ci sono soltanto piste, air-terminal, centri commerciali, hangar, alberghi, parcheggi, edifici amministrativi e tutto ciò che ci si aspetta di trovare all’interno di un grande aeroporto, ma anche campi coltivati, frutteti e altre cose che immagineresti di trovare fuori.

Un Israele ben fornito in miniatura – rifletto.

Una piccola fortezza all’interno di una più grande. L’ultimo rifugio in un assedio finale.

Non è la prima volta che mi trovo a pensare a Masada,2 quando vengo in Israele. Non solo perché sono stato cresciuto nella convinzione che lo Stato di Israele sia la fine di una parentesi aperta duemila anni fa con la caduta di Masada, ma anche perché per molto tempo mi ha spaventato il collegamento tra il suicidio di massa in una fortezza di montagna assediata nel deserto di Giudea nel 73 d.C. e la percezione ideologica che ha Israele di sé oggi. Cioè mi spaventava l’idea che Israele sia un bastione eternamente sotto assedio, e anche il giuramento rituale dei soldati israeliani che “Masada mai più cadrà”. Mi spaventava il motto nazionale ein brira: nessuna scelta. Nessuna scelta tra fortezza e sconfitta. Tra sopravvivenza e suicidio.3

Nel documentario del 2005, “Per uno solo dei miei occhi” (Nekam achat mishtei einai), il regista israeliano Avi Mograbi si sofferma sulla persistenza dell’imponente culto del suicidio alla base ideologica e mitologica dello Stato Ebraico. Nel film ci vengono mostrati, una scena dopo l’altra, gruppi di giovanotti ebrei riuniti in cima a Masada, che si stringono l’uno all’altro nel vento forte, che si riparano dal sole accecante, storditi dalla vista mozzafiato del paesaggio, che ascoltano versioni e versioni del come e del perché novecento membri assediati di una setta fanatica, gli zeloti, decisero di suicidarsi collettivamente pur di non cadere nelle mani dei romani. E perché era stata la cosa giusta da fare.

“Che cosa sentite?” chiede con impazienza una giovane guida con la kippah, mentre i giovani ebrei del suo gruppo chiudono gli occhi nel vento. E continua a ripetere la domanda, finché loro non sentono quello che devono sentire. Quel che devono sentire è il suono di una minaccia esterna e di una risoluzione interna. Quel che devono pensare è quello che pensavano gli zeloti. Devono comprendere che gli zeloti fecero l’unica cosa concepibile.

“Vedete le rovine di un muro, laggiù?”, chiede un’altra guida a un altro gruppo di giovanotti in un’altra inquadratura, indicando la scarpata. “È stato costruito dai romani per tagliare fuori gli ebrei assediati. Una volta era alto due metri e cingeva l’intera fortezza. Riuscite poi a vedere quei mucchi di pietre a intervalli di circa 200 metri? Quelle erano le torri di guardia”.

I giovani guardano e annuiscono. Se potessero guardare oltre, fino a Betlemme o a Gerusalemme, vedrebbero un altro muro, molto più lungo, molto più alto, e molto difficile da penetrare – non costruito duemila anni fa dai romani per confinare gli ebrei, ma oggi dallo Stato Ebraico per confinare i palestinesi. In alcuni tratti, il muro non è solo un muro, ma una recinzione di metallo monitorata elettronicamente, fortificata con ampie zone di sicurezza, con trincee profonde, filo spinato e pattuglie militari. Nonostante ciò, la parola muro è effettivamente e simbolicamente giustificata: anche dove il muro è “solo” una recinzione, il suo scopo è comunque quello di contenere i palestinesi in un territorio che ricorda sempre meno uno Stato e sempre più una prigione.

Nel corso del film c’è, a saldare il cerchio, una serie di conversazioni telefoniche tra il regista israeliano, in primo piano, e un invisibile amico palestinese da qualche parte al di là del muro, a volte sotto il coprifuoco. “Mi sto esercitando a essere morto”, dice l’amico del regista. “Qui, quando la gente non ha più niente per cui vivere, vorrebbe morire”.

Vicino a un checkpoint chiuso, la gente aspetta di passare, ma nessuno apre. La telecamera osserva tutti attraverso il filo spinato. Le ore passano, il sole cambia posizione, le auto di pattuglia israeliane si muovono avanti e indietro, la gente gesticola, supplica, si rassegna. “Questa è la fine”, dice un uomo di una quarantina d’anni. “Non abbiamo nulla per cui vivere”.

“Qui non potete attraversare. Andatevene”. I soldati, invisibili, dietro a feritoie buie in enormi torri di guardia o in veicoli blindati, urlano rabbiosamente avvertimenti e ordini a un flusso ininterrotto di persone che, giorno e notte, vengono umiliate dagli sghiribizzi della forza. In un’altra scena, una donna malata viene portata verso un ambulanza che aspetta dietro a un blindato e a un carro armato.

“Sta perdendo sangue”, spiega un uomo che porta in una busta di plastica verde le cose della donna. “Non me ne importa niente. State alla larga!”, gracchia una voce metallica dall’oscurità del parabrezza blindato.

L’uomo lo implora.

“Andatevene e basta!”, graffia la voce in un arabo stentato.

L’ambulanza sta aspettando con le luci lampeggianti accese. “Solo fino a Beit Furik”, supplica l’autista dell’ambulanza.

“Tornate indietro, Tornate indietro!”, il blindato gira su se stesso e avanza minacciosamente. L’ambulanza si allontana riluttante. Al checkpoint rimangono la donna e i suoi parenti, un anziano in una kefiah a scacchi bianca e rossa, una giovane donna con un velo grigio che porta un bambino in braccio, un’adolescente e un ragazzino.

“Possa Dio umiliarli quanto loro umiliano noi”, dice la giovane donna alla telecamera. La ragazza piange a dirotto. Il blindato e il carro armato restano immobili sullo sfondo.

“Non aver paura, bambino mio”, dice la giovane donna. “Dio ci vede. Dio ci aiuterà. Dio ci libererà da loro”. Poi scoppia a piangere anche lei.

“Provate a immaginare cosa hanno provato”, dice la guida a uno dei gruppi in cima a Masada. “Provate a comprendere perché hanno fatto quello che hanno fatto”.

“Romani, noi non ci arrendiamo”, un gruppo di scolari israeliani urla verso l’abisso. “Romani, noi non ci arrendiamo”, l’eco rimbalza dalle montagne di fronte.

“Venite a stare da noi per due giorni e capirete come viviamo”, dice la voce palestinese dall’altra parte del muro. “Capirete perché non abbiamo più paura della morte. Perché a me non importa più se sono vivo o se sono morto”.

Come si fa a fare di un assassino suicida un eroe? Lo insegna la tradizione biblica. “Lasciami morire con i filistei”, chiede Sansone a Dio quando, perduta la forza e la vista, viene mandato dinanzi alla folla per essere umiliato. “Dammi forza, ti prego, un’ultima volta, o tu, il vero Dio, e lascia che mi vendichi per uno dei miei due occhi”.

La storia di Sansone, che in quel momento riacquista la propria forza, abbatte le colonne della casa e porta con sé nella morte tremila filistei, viene raccontata a generazioni e generazioni di scolari israeliani come una storia di vero eroismo. Secondo la mitologia nazionale d’Israele, Sansone è Sansone l’Eroe, Shimson Ha’- gibor.

“Chi di voi riesce a immaginare che cosa pensava Sansone in quel momento?”, chiede l’insegnante nel film di Avi Mograbi. “Pensava che è meglio suicidarsi – risponde un bambino – perché così può decidere da solo quando morire e può anche uccidere i filistei”.

In una scena successiva, un gruppo di uomini palestinesi viene fermato a un checkpoint e gli viene ordinato di mettersi uno accanto all’altro rivolgendo lo sguardo da un’altra parte. Uno degli uomini non obbedisce all’ordine e gli viene subito ordinato di salire su una pietra. “Guarda quello che ci stanno facendo”, dice l’uomo alla telecamera mentre si tiene in equilibrio sul sasso.

Un altro uomo trasgredisce all’ordine e anche lui riceve l’ordine di salire su un’altra pietra.

Dieci uomini in fila, due in equilibrio sui sassi. Un vento freddo si insinua nelle loro giacche e nei loro maglioni. Nessuno si muove. A nessuno è consentito oltrepassare il checkpoint.

Le sole cose che possono passare liberamente sono i semi avvelenati dell’umiliazione.

Imiei primi ricordi di Zia Bluma risalgono all’estate del 1956. Nasser aveva nazionalizzato il Canale di Suez e la tensione, lungo il confine tracciato dall’armistizio del 1949, era più alta del solito. Una guerra tra Egitto e Israele sembrava possibile, quindi Bluma pensava fosse giunto il momento di portare i bambini da sua sorella in Svezia. Non mi chiedete come riuscissero, tre adulti e quattro ragazzi, a condividere due stanzette a Hertig Carls väg a Södertälje Södra. Solo con il senno del poi sono riuscito a capire il vero motivo della loro venuta. Questo avveniva prima dell’era dei voli charter e la decisione di imbarcarsi in un viaggio così lungo e dispendioso doveva essere stata difficile.

Per nove settimane, durante l’estate, due ragazzacci dai capelli rossi che venivano dalla cacofonia culturale di una strada del centro di Tel Aviv cercavano senza grande successo di sentirsi a loro agio nell’omogeneizzato folkhemmet.4 Mi imbarazzava il fatto che parlassero una lingua diversa, che non capissero i nostri giochi, che “prendessero in prestito” le biciclette senza lucchetto, che mi chiamassero dalla strada quando andavo a trovare il mio amico poliomielitico Berra dove, tra i libri e le riviste, mi nascondevo da loro. Eppure verso la fine della loro permanenza, Jacob, il più grande dei miei cugini, iniziò a imparare lo svedese e così cominciammo lentamente a conoscerci.

Quell’autunno, ricordo l’espressione preoccupata di mio padre che si chinava sulla radio gracchiante, in un angolo del soggiorno, ad ascoltare i notiziari che raccontavano della guerra che alla fine era scoppiata e che aveva portato Israele a erigere temporaneamente le sue barricate lungo le coste occidentali del Canale di Suez. Ma a quell’epoca zia Bluma e i miei cugini erano già tornati in Israele. Non potevano rimanere con noi in eterno. Avevano nostalgia di casa. E casa per loro era Israele, dopo tutto.

Sei anni dopo, in seguito alla morte di mio padre, nella primavera del 1962, il piccolo ramo “svedese” della famiglia decise di fare ciò che avevano fatto Zia Bluma e i miei cugini, e quindi anche noi facemmo la nostra aliya, l’ascesa verso Israele. L’appartamento di zia Bluma, a Shenkin Street, divenne la mia seconda casa. Un’infinità di letti e materassi spuntavano magicamente da stipi di legno massiccio, e un numero imprecisato di persone poteva sistemarsi, in men che non si dica, in due stanzette dalle pareti spoglie al secondo piano, sopra un fornaio da cui saliva un profumo di pane fresco e di torta di cioccolata.

Nelle mattine d’inizio estate, prima che il caldo filtrasse tra le persiane di legno, Zia Bluma metteva sul tavolo di cucina una coppa di panna acida, shamenet, del pane fresco preso del fornaio, un piatto di verdure finemente tritate, poi si precipitava nel suo vestito a fiori e nelle sue scarpe con la zeppa al negozio di tessuti, nel labirinto di stradine sul lato opposto del vivace mercato del Carmelo. Quando tornava a casa, era quasi buio e il suo abito a fiori era madido di sudore, ma in quattro e quattr’otto, miracolosamente, metteva in tavola una cena di tre portate. Poi si sistemavano le quattro sedie intorno al tavolo del balcone e si componeva il quartetto dei giocatori di carte: era allora che scattavano le scommesse, le risate e le storie, tra il fumo continuo delle sigarette, i suoni e i profumi di una notte con le finestre e le ferite aperte.

La leggerezza d’animo può essere un forma di disillusione, e quella leggerezza, che associo immediatamente a loro che se la spassavano per tutta la serata intorno al tavolo sul balcone di Zia Bluma, certo non era banale. Erano stati tutti all’inferno, erano stati tutti costretti a cercare qualcosa per cui continuare a vivere e avevano tutti imparato dall’esperienza che Israele non era il paradiso. Erano, a dir poco, persone traumatizzate, le cui fobie e aspettative permeavano lo Stato appena creato. Loro facevano parte, volenti o nolenti, di una realtà politica e militare traumatizzata. Nelle notti umide di Shenkin Street, potevi immaginare di trovarti in un paese qualsiasi del Mediterraneo. Ma solo se evitavi di vedere quello che Israele era anche: una fortezza blindata costruita tra terre contese da gente fortemente scossa.

E per un po’ la cosa aveva funzionato. Lo sviluppo di Israele sembrava un modo di tenere a bada il passato. E Israele in quegli anni faceva grandi progressi. Persone che si sarebbero potute consumare in incubi di distruzione ora si cullavano in sogni di riparazione. I confini erano certamente ristretti e non sicuri – “i confini di Auschwitz” come li definì, nel 1967, Abba Eban, il Ministro degli Esteri israeliano. Ma gli orizzonti interni erano ancora ampi e promettenti e Israele era ancora il paese dalla parte del diritto e della giustizia. Giusti nel loro ritorno alla storia e giusti nel fare ciò che la storia esigeva da loro. Non c’era ancora traccia di quel sentimento corrosivo fatto di visioni miopi e vicoli ciechi che sarebbe cresciuto sempre più forte man mano che il progresso si impantanava nell’occupazione militare e nell’auto-legittimazione messianica.

Li ricordo come anni belli. Anni in cui l’oscurità umida e calda, fuori dal cono di luce che illuminava i giocatori di carte sul balcone di Zia Bluma, era satura della fragranza del pane e del mormorare di una nuova speranza.

Scende il crepuscolo, quando arriviamo in un’ampia villa a Ramat Ha’sharon, una periferia ricca a nord di Tel Aviv. I cancelli chiusi all’entrata sono inondati da riflettori e sono controllati da telecamere a circuito chiuso. I pavimenti all’interno della villa sono di marmo. Non sono mai stato in questo posto e sono in qualche modo sorpreso, non sapendo dell’esistenza di una casa di questo tipo nella cerchia ristretta della famiglia di zia Bluma. Mio cugino Isaac lavora nel personale di terra dell’aeroporto e sua moglie, Sara, è impiegata al Comune di Tel Aviv e nessuno di loro avrebbe mai immaginato di poter vivere così. Però, questa casa è della sorella di Sara che ha sposato un fabbricante di imballaggi di plastica che ha fatto fortuna e che conduce uno tipo di vita che, solo alcuni decenni fa, sarebbe stato considerato offensivo dalla maggior parte degli israeliani.

Attorno a un’ampia tavola piena di piatti e bicchieri, i membri più stretti della famiglia si sono riuniti in raccoglimento e darsi conforto a vicenda. Mio cugino Isaac è particolarmente addolorato e silenzioso, ma con il passare delle ore aumenta il volume delle voci. Vengono portate pietanze fresche e dopo un po’ anche un vassoio di bicchieri di vodka. Successivamente il proprietario di casa decide di voler dimostrare il funzionamento del tetto scorrevole sopra la tavola su cui siamo seduti. Dice che è stato da poco riparato e pigiando un bottone ci appare il cielo scuro di ottobre accompagnato da un ronzio. Più tardi vuole farci vedere il video del recente matrimonio della figlia più giovane. Non so quante volte questo filmato sia già stato proiettato per gli altri sullo schermo gigante, ma io lo vedo per la prima volta. È chiaramente costato molto, è di fatto un reality show privato, con tutte le fasi del matrimonio, dalla colazione della sposa, dalla sua trasformazione in farfalla nelle mani del parrucchiere e dello stilista più esclusivo della città, ai racconti degli amici, alle confessioni dei protagonisti, alle tavole imbandite per 450 ospiti al Tel Aviv Hilton, all’arrivo delle limousine, ai baci sulle guance, alle chiacchiere durante i drink, alle grida festose degli invitati. Più o meno a metà del film – troppo presto secondo le regole della drammaturgia – ecco la cerimonia nuziale sotto il baldacchino, e da quel momento in poi il film si dissolve in noiose inquadrature sulle tavole imbandite, alternate a brani cantati dalla star nazionale Dana International e a infinite sequenze di gente che balla e chiacchiera. Il video continua ad andare avanti, ma ormai ho smesso di guardarlo.

Cerco di calcolare i costi di un film del genere, di un matrimonio del genere, e qualcuno intorno al tavolo dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che un matrimonio di questo livello costa circa 250.000 dollari.

Meno di 15 chilometri da qui, Israele sta costruendo il suo muro.

Un muro, sembra, tra un Inferno di Disperati e un Paradiso di Imbecilli.

La mattina dopo, siamo in viaggio su un pulmino verso il grande cimitero di Holon, a sud di Tel Aviv. Il cimitero si estende su una vasta area che una volta era coperta da dune di sabbia e che ora è lastricata di tombe. Le tombe ebraiche non vengono mai rimosse. Tombe su tombe vengono aggiunte finché il cimitero non è pieno. I cimiteri ebraici affollati di tombe, più o meno in rovina, sono spesso ciò che rimane di visibile di quel mondo ebraico che una volta faceva parte dell’Europa.

La cerimonia ebraica di tumulazione è lineare e molto bella. Zia Bluma riposa in un sacco di velluto nero ricamato, su una lettiga con le ruote, in una cappella all’aperto. Attraverso la stoffa, si intuiscono le fattezze del suo corpo minuto. Un giovane rabbino con cappello e soprabito neri sale su un piccolo podio dietro la lettiga per pronunciare il kaddish, la preghiera per i morti. Sapevo che la famiglia si era data molto da fare affinché fosse proprio quel rabbino a celebrare il funerale – ma la cosa mi sorprende perché non avrei mai pensato che un rabbino ultra-ortodosso potesse essere la guida spirituale prescelta dalla famiglia laica, se non addirittura anti-religiosa, di zia Bluma.

A un certo punto, il giovane rabbino dice qualcosa che colpisce anche me. Lo dice secondo la tradizionale modalità di preghiera, salmodiando, e all’inizio la sua intonazione oscura le parole. Poi, intona una parabola su Abramo, il patriarca, e mia zia Bluma. “Come Abramo lasciò il suo paese e la sua famiglia e la casa del padre per iniziare una nuova vita nella terra che Dio aveva promesso a lui e ai suoi figli – canta il rabbino Dan Lau – così Bluma Genislaw, benedetto sia il suo ricordo, lasciò la sua terra e la sua famiglia e la casa del padre per iniziare una nuova vita nello Stato di Israele”.

Sì, indubbiamente Bluma aveva lasciato tutto dietro di sé senza guardarsi indietro, ma guardando sempre avanti. Verso la fine, quando la sua vista peggiorava, io avevo spesso la sensazione che quello che vedeva non fosse ciò che un tempo aveva sperato di vedere.

La lettiga con il corpo viene portata fuori in un dedalo di sentieri stretti che corrono lungo il perimetro delle tombe. Molte tombe sono modeste come vuole la tradizione, lastre orizzontali di pietra bianca, ma lungo il percorso della processione funebre sorgono edifici enormi di marmo rosso o nero, costruiti recentemente, con iscrizioni dorate e ritratti dei defunti incastonati nella pietra. Le iscrizioni in russo o in georgiano testimoniano dell’arrivo di una nuova cultura della sepoltura. La dimensione, la sfrontatezza e l’enorme contrasto che questi edifici formano rispetto alla distesa uniforme di pietre bianche che li circondano sono la testimonianza, come il matrimonio all’Hilton, dell’esistenza di una nuova classe sociale.

Ci riuniamo attorno alla fossa aperta, stretta tra due pietre bianche. Qui già riposano Leon e sua sorella Carola: rimane solo un posto. La lettiga viene sollevata dal carrello, portata verso la tomba e inclinata lentamente in avanti in modo che il corpo avvolto nel sudario bianco possa scivolare fuori dal sacco di velluto nero e giù fin nella sabbia color bianco e rosso. Ognuno con la sua pala, noi tutti contribuiamo a coprire l’ultimo luogo di riposo della zia Bluma.

La sua tomba come quella di Leon e di Carola avrà la sua pietra, piatta e bianca.

Dall’altro lato del muro, o della barriera, o della recinzione, o comunque vogliate chiamare quella struttura in espansione che si suppone debba proteggere Israele dai suoi nemici, l’inferno palestinese è andato di male in peggio. Un po’ alla volta, sono venute meno le condizioni che permettevano a una società di funzionare. L’economia è stata azzerata, la gente è stata umiliata, e ogni speranza di cambiamento è stata frustrata. In questo processo, la volontà di vivere si è indebolita e la volontà di morte ha assunto forme sempre più distruttive.

Il disordine che ne è scaturito non può sorprendere nessuno. L’aggressione è il risultato prevedibile della frustrazione e il caos è la conseguenza della distruzione sociale. In un esperimento classico del 1941 (Barker, Dembo, Lewin), a un gruppo di bambini veniva mostrata una stanza piena di bei giocattoli dietro uno schermo; ai bambini veniva fatto intendere che avrebbero potuto giocare solo dopo una lunga attesa. A un altro gruppo di bambini veniva invece consentito di giocare subito. La differenza di comportamento tra i due gruppi era stupefacente. Quelli che non dovevano aspettare giocavano contenti e senza aggressività. Quelli che erano stati costretti ad aspettare giocavano in modo distruttivo, talvolta scagliando i giocattoli contro il muro.

È facile dividere un gruppo di bambini in due e indurli a odiarsi a vicenda. Basta punire gli uni e gratificare gli altri. Riconoscere gli uni ma non gli altri. Promettere agli uni ciò che si darà agli altri. Il divide et impera è una tecnica ben collaudata per distruggere una società. La distruzione della società palestinese nei territori occupati e la sua dissoluzione nella violenza e nell’anarchia è stata la conseguenza fin troppo prevedibile di una politica israeliana che, almeno a partire dal 2001, ha avuto l’obiettivo di ostacolare la creazione di uno Stato palestinese funzionante accanto a Israele. Questa operazione è stata portata avanti attraverso il discredito sistematico e l’umiliazione di ogni leader palestinese che avesse un mandato popolare per negoziare con Israele. Prima Yasser Arafat, eletto democraticamente, è stato ostracizzato fino alla morte, poi Mahmoud Abbas, democraticamente eletto, è stato ignorato fin al punto da diventare patetico, poi il “governo” di Hamas, democraticamente eletto, è stato boicottato finché non ha smesso di operare, poi Fatah e stato apertamente incoraggiato a combattere Hamas – c’è da meravigliarsi se in queste condizioni si diffonde l’illegalità e i palestinesi si ammazzano tra loro?

No, non c’era nessun bisogno di fare esperimenti per prevedere come alla fine i palestinesi si sarebbero comportati. Il poeta e politico finnicosvedese Claes Andersson ha espresso in modo sintetico quello che noi già sapevamo: Far impazzire un uomo è facile / Spoglialo di tutto / E guarda in che modo strano si comporta.

Achi si chiede perché Israele stia usando la sua superiorità per fare diventare matti i palestinesi, rispondo che anche Israele è una società impazzita. All'”interno” del muro (o barriera, o steccato), protetto e sostenuto dalla maggiore potenza militare della regione e finanziato dalla maggiore potenza economica della regione, c’è gente che vive nella ferma convinzione di poter essere privata di tutto in qualsiasi momento e che la più insignificante dimostrazione di debolezza militare sia il primo passo verso Auschwitz.

Alcuni potrebbero dire che questa convinzione derivi dall’esperienza e non dalla pazzia, che il motivo per cui gli israeliani si sentono perseguitati sia che qualcuno effettivamente li perseguita. Che i palestinesi, aiutati prontamente da arabi, da musulmani e da quanti nel mondo odiano gli ebrei, aspettino solo il momento di distruggere lo Stato d’Israele. Che gli ebrei restino le eterne vittime di eterni nemici e che i palestinesi o gli arabi o i musulmani siano i nazisti del nostro tempo (sospetto corroborato dal negazionismo del Presidente iraniano Ahmadinejad). Che i palestinesi non si riconcilieranno mai con lo Stato d’Israele e che la pace con i palestinesi sia un’illusione.5 Che l’unica lingua che i nemici degli ebrei capiscono sia il lingua della superiorità militare.

La follia israeliana è metodica.

Ciò che spesso manca, nelle spiegazioni “razionali” della dottrina israeliana sulla superiorità militare, è la deliberata manipolazione israeliana delle paure e delle fobie degli ebrei. La minaccia dell’antisemitismo sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nella retorica ufficiale israeliana mentre la minaccia di un nuovo olocausto ha assunto un ruolo preminente nella strategia ufficiale di difesa israeliana.6 Nell’estate del 2004, il Primo Ministro dell’epoca, Ariel Sharon, sollecitava gli ebrei di Francia, la comunità ebraica più grande d’Europa, a fare fagotto e a scappare in Israele. Altri politici israeliani hanno paragonato l’Europa di oggi all’Europa degli anni Trenta. La critica crescente nei confronti della politica e dell’ideologia di Israele è sempre più stigmatizzata come espressione di un nuovo antisemitismo.7 Mentre prima della Guerra al Terrore il conflitto tra territori poteva essere visto come politicamente gestibile, ora rifugiati e confini devono essere intesi come parte di un conflitto politicamente irrisolvibile tra il bene e il male, tra civiltà e terrore, tra liberalismo e fascismo, tra democrazia e islam, tra illuminismo e fondamentalismo, tra gli ebrei e i loro nemici. Un conflitto in cui è assolutamente logico e niente affatto folle prepararsi a una guerra infinita e barricarsi in un assedio permanente.

Certo, il conflitto può essere spiegato anche indipendentemente da questi fattori, ma non senza dare la giusta importanza al ruolo di forze ideologiche e politiche ben organizzate che hanno tutto l’interesse che il conflitto venga percepito esattamente in questo modo. Più gli ebrei del mondo sono indotti a percepire il conflitto come politicamente irrisolvibile e foriero di un potenziale olocausto, più saranno pronti a seguire gli attuali comandanti di Masada, e gli attacchi terroristici palestinesi e la propaganda antisemita giocano a favore, senza alcuno scrupolo. I primi perseguendo una politica che produce sistematicamente umiliazione, odio, disperazione e fanatismo, la seconda cancellando sistematicamente la distinzione tra la critica allo Stato d’Israele e l’odio contro gli ebrei.

Strumentalizzare la paura degli ebrei per aumentare il consenso all’estremismo sionista non è una novità – né è difficile da spiegare. È stato già fatto negli anni Trenta e Quaranta dalle organizzazioni terroristiche ebraiche come Irgun e la Stern Gang; e continua a essere fatto oggi dai dirigenti politici israeliani favorevoli all’occupazione e alla colonizzazione. Questo non vuol dire che le paure non siano prive di fondamento (l’olocausto c’è stato realmente, l’estremismo islamico è in crescita e l’antisemitismo non è stato superato), solo che vengono sfruttate e manipolate allo scopo di promuovere un certo Israele a discapito di un altro: un Israele costruito sull’inevitabilità di guerre e barricate infinite a spese di un Israele fondato sulla necessità della pace e della riconciliazione.

E qui sta la follia. Sempre se per follia si intende una politica che sta distruggendo i fondamenti stessi di ciò che dovrebbe contribuire a costruire, cioè una società ebraica in Israele- Palestina. Una politica suicida, come l’ho chiamata altrove:

Probabilmente, la Masada dei nostri tempi sarà più duratura della Masada antica, visto che è molto meglio armata e molto più preparata e, oggigiorno, è difesa dalla potenza militare più forte del mondo. Ma per ogni giorno che passa, lo Stato d’Israele, nelle parole e nei fatti, scardina le condizioni geo-politiche per il raggiungimento di un compromesso a lungo termine con i vicini arabi e di conseguenza anche le condizioni per la propria sopravvivenza come Stato Ebraico, visto che i vicini arabi non possono essere tenuti lontano neanche da un muro alto e imponente e non possono scomparire con una dimostrazione di forza militare e occupazioni territoriali.8

Da allora, i bastioni dell’attuale Masada sono stati ulteriormente indeboliti. Il crollo della società palestinese, indotto deliberatamente, era finalizzato con ogni evidenza a rimuovere definitivamente le condizioni per la costruzione di uno Stato palestinese, costituendo di conseguenza la superiorità israeliana nella regione. Invece, ha contribuito alla nascita di un nemico nuovo e molto più pericoloso. La forma suicida di guerra “asimmetrica”, che in Iraq ha sconfitto l’unica superpotenza esistente nel mondo, sta trovando sempre più terreno fertile nei territori palestinesi. Il radicalismo e l’estremismo islamico sono diventati la reazione fin troppo prevedibile all’umiliazione del nazionalismo secolare palestinese. Un nemico fanatico che rivendica l’intera regione come sua base politica e territoriale ha preso il posto di un nemico pragmatico che ha la sua base in Israele-Palestina. La politica di Israele, che recentemente non ha offerto nulla, ha prodotto un nemico che ormai non si aspetta più niente. Israele sembra convinto che la sua dottrina della superiorità militare sarà sufficiente a sopprimere e a sgominare il nemico, rendendo l’occupazione più efficace, isolando le enclaves, fortificando il muro, consolidando gli insediamenti, incrementando l’effetto deterrente di attacchi militari, di incursioni e di uccisioni mirate. Ma se il nemico è diventato sempre più ideologico e regionale, i limiti della superiorità militare sono diventati sempre più evidenti. Il tentativo di Israele di distruggere la milizia degli Hezbollah sciiti del Libano, distruggendo le infrastrutture dell’intero paese, ha portato a una disfatta militare che non è dovuta solo a valutazioni sbagliate ed errori tattici e militari, ma anche a un insuccesso strategico e politico profondo. Un nemico che non sarà sconfitto da un massiccio dispiegamento di forze, un nemico che sotto questo tipo di attacco si organizzerà per reagire, richiede una strategia diversa rispetto alla strategia della superiorità militare.

L’indebolimento strategico di Israele è stato accelerato dal fatto che gli Stati Uniti in Iraq non sono stati in grado di progettare ed esercitare un potere efficace sull’intera regione mediorientale. La potenziale minaccia di futuri cambi di regime e gli interventi militari hanno perduto gran parte della loro credibilità. Nessuno crede realmente che gli Stati Uniti, attraverso il mero uso della loro superiorità militare, possano fermare il progetto nucleare dell’Iran. È ancora meno probabile che in questo intento abbiano successo gli israeliani, anche se molti sostengono che siano abbastanza pazzi da voler tentare. Le conseguenze geopolitiche di un ritiro americano da un Iraq in rapida frammentazione possono essere molto importanti. Le autocrazie sostenute dall’Occidente possono crollare permettendo ai partiti e ai movimenti islamici la scalata al potere. L’alleanza tra Israele e Stati Uniti può rivelarsi un handicap a livello strategico e le loro superiorità militari combinate insieme rivelarsi una chimera.

Tutto questo, naturalmente, è in parte la conseguenza delle politiche e delle azioni israeliane. Per troppi anni Israele ha sopravvalutato la propria capacità di essere in guerra con i suoi vicini. Per troppi anni le paure degli ebrei sono state manipolate e sfruttate a favore di una politica basata sull’hybris e sulla superiorità. Per troppi anni Israele ha consentito che ideologie estremistiche politiche e religiose entrassero nell’agenda politica. Per troppi anni Israele si è fatto nemici senza farsi alcun amico.

Rimango in Israele per altri due giorni. La mattina presto vado assieme ai miei due cugini nella piccola sinagoga sefardita vicino casa di Isaac a leggere il kaddish per zia Bluma. Mio cugino di secondo grado Jacob è arrivato con sua moglie e due bambini da Durban, in Sud Africa, dove vive e lavora da molti anni. Tra tutti noi, Jacob è il più osservante. Lui si è strappato la camicia sul lato sinistro del petto, come impone la tradizione ebraica, vicino al cuore, e ha imposto a Isaac di fare lo stesso. Dopo la preghiera, siamo tornati a casa per la shiva. Zia Bluma aveva vissuto i suoi ultimi anni in un appartamentino accanto a Isaac, per cui è in casa di Sara e Isaac che noi sistemiamo le sedie, apparecchiamo la tavola con i rinfreschi e diamo il benvenuto a chiunque voglia onorare la defunta, confortare la famiglia e condividere i suoi ricordi.

La tradizione ebraica dice che la shiva deve durare sette giorni. È una bella tradizione che consente il conforto e la riflessione, e io ci sarei volentieri rimasto fino alla fine.

L’ultimo pomeriggio vado a trovare alcuni amici cari, sempre a Ramat Ha’sharon, il quartiere elegante a nord di Tel Aviv. I miei amici hanno sempre criticato la politica israeliana e hanno sempre sperato in un cambiamento, ma con il passare del tempo sono diventati sempre più pessimisti e scettici. Saliamo in terrazza da dove, guardando a ovest, possiamo scorgere il mare scintillante e, guardando a est, possiamo vedere le dolci colline della Cisgiordania. E da qualche parte, al di là delle colline, c’è il muro. “Siamo di nuovo chiusi dentro”, dicono con un sorriso enigmatico.

Sei mesi dopo, leggo su un giornale un’intervista a un ex portavoce del parlamento israeliano, Avraham Burg. Burg è anche ex presidente dell’Agenzia Ebraica ed ex candidato alla guida del Partito Laburista Israeliano, nel 2001. Il Padre di Avraham, Yosef Burg, era un rappresentante di spicco del primo sionismo religioso e ministro in molti governi israeliani negli anni Cinquanta.

Per farla breve, Avraham Burg è uno che conta, in Israele.

L’intervista è sul nuovo libro in ebraico di Burg, il cui titolo tradotto è Sconfiggendo Hitler,9 in cui Burg scrive che Israele è diventato un “ghetto sionista, imperialistico e brutale che crede solo in se stesso”.

L’intervistatore è chiaramente turbato: “Lei sostiene che il problema non è solo l’occupazione dei territori. Ai suoi occhi, Israele nel suo insieme è una sorta di orribile mutazione”.

“L’occupazione dei territori è solo una piccola parte della questione. Israele è una società spaventata. Per trovare l’origine di quest’ossessione dell’uso della forza e per sradicarla, bisogna affrontare le paure. I sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto sono la paura primaria, la meta-paura”.

“Quindi Lei sostiene che siamo mutilati psichici. Siamo in preda al terrore e alla paura e usiamo la forza perché Hitler ci ha arrecato un danno psichico profondo”.

“Sì. Oggi il vero spartiacque in Israele è tra chi crede e chi ha paura. La grande vittoria della Destra israeliana nella lotta per l’anima politica israeliana sta nel fatto che essa ha imbevuto l’anima politica di paranoia. Capisco che ci siano difficoltà. Ma sono assolute? Ogni nemico è Auschwitz? È Hamas il flagello?”10

La mattina dopo, prendo un taxi per l’aeroporto. A ogni mia visita, noto che il traffico sull’autostrada tra Tel Aviv e Gerusalemme è sempre più fitto e imprevedibile. Il paesaggio cambia continuamente aspetto. Nuovi insediamenti urbani usurpano i terreni agricoli. Gru e bulldozer sono in frenetica attività ovunque. Qui è veramente visibile la crescita economica israeliana e con essa la ricchezza di una borghesia israeliana in espansione. Crescono anche i divari economici, ma in questo Israele non differisce dagli altri paesi saliti sulla giostra del profitto, del turbo-capitalismo globale in espansione. Quello che però rende Israele diverso da ogni altro paese è il fatto che tutto ciò avviene contemporaneamente e congiuntamente a occupazione, colonizzazione e distruzione. A pochi chilometri, a volte a un tiro di schioppo, le stesse persone che qui lavorano duro per costruire una società lavorano duro per distruggerne un’altra. Costruiscono un muro che separi la costruzione dalla distruzione.

Certo è sorprendente come un’attività possa essere condotta sotto gli occhi dell’altro con tanta apparente naturalezza. Quanto sia facile che la follia si travesta da normalità.

Durante l’estate di Oslo la faccenda divenne più complicata. Per un breve periodo i criteri di normalità cambiarono. La normalità di colpo prescriveva l’impossibilità di un’occupazione permanente e la possibilità di una pace con i palestinesi. Nel lungo inverno che seguì, la normalità è tornata a indicare l’impossibilità di una pace con i palestinesi e la possibilità di un’occupazione permanente.

Ecco dov’è la follia. Un’occupazione continua non è una possibilità e la superiorità militare non è una strategia percorribile. E una politica che chiude fuori i palestinesi, alla lunga, chiuderà dentro gli ebrei.

L’auto-distruzione è una capacità tipica dell’uomo. La specie umana possiede l’abilità di costruire le proprie società, ma anche di distruggerle; e forse è lo stesso individuo che fa le due cose. Negli anni Novanta, molti di noi credevano possibile passare, in Israele-Palestina, dalla distruzione alla costruzione. Oggi ho paura che questa opportunità si sia chiusa. Ci vorrà molto tempo per ricostruire, ammesso che sia possibile, quello che è stato distrutto da Oslo in poi. Il sogno di uno Stato palestinese è stato smontato ma lo è stato anche il sogno di uno Stato israeliano in pace e riconciliato con i propri vicini.

Mia Zia Bluma è morta e sepolta, continuo a pensare, e con lei se n’è andato l’ultimo legame con una generazione che è andata in Israele con la speranza di fuggire dal ghetto e superare Auschwitz.

Non avrebbe mai previsto di morire dentro un altro ghetto, con la paura di una nuova Auschwitz.

La nostra macchina si accoda alla fila per passare il controllo di sicurezza dell’aeroporto. Dopo un’occhiata veloce della guardia, passiamo oltre. Altre macchine vengono perquisite minuziosamente. I controlli della sicurezza possono essere lunghi, una cosa che deve essere presa in considerazione quando si vola su Tel Aviv. Per esperienza so che ci vogliono tre ore prima di salire sull’aereo.

Non mi aspettavo invece la procedura al controllo dei passaporti. Non c’entra niente con la sicurezza.

Riguarda il mio rapporto con Israele. “Posso vedere la sua carta d’identità israeliana?”, mi chiede la giovane funzionaria addetta ai passaporti dopo un lungo sguardo allo schermo del computer.

Rispondo che non ho una carta d’identità israeliana, che sono e sono sempre stato un cittadino svedese.

“Lei è un cittadino israeliano!”, ribatte lei come se parlasse a un bambino dispettoso.

“Ho vissuto qui per due anni, quarantacinque anni fa”, rispondo.

“Lei vive ancora qui”, dice lei laconica e lentamente trascrive sul mio passaporto svedese, sul timbro d’uscita israeliano, la parola “cittadino” in ebraico e un numero copiato dal monitor del computer.

Avrebbe anche potuto dire: “Non lascerai mai Israele!”

Ho paura che avesse ragione.

[Questo testo è l’epilogo della terza edizione svedese del libro di Göran Rosenberg Det förlorade landet (“La terra perduta”), Albert Bonnier Förlag, 2007]

Nel pogrom di Kielce, 40 ebrei, sui 200 che tornavano dalla guerra, furono uccisi da una folla antisemita. Furono bastonati, lapidati e presi a calci e furono uccisi. In una successiva ondata di violenza, altri ebrei furono uccisi in tutta la Polonia. Si veda Jan T. Gross, Fear. Anti-Semitism in Poland after Auschwitz, Princeton University Press, 2006.

Masada (o Massada, o in ebraico Metzada) era un'antica fortezza che sorgeva su un altopiano della Giudea sud-orientale, nell'attuale Palestina. Arenderla pressoché inespugnabile, c'erano mura alte cinque metri lungo un perimetro di un chilometro e mezzo, con una quarantina di torri alte più di venti metri. La fortezza divenne nota per l'assedio dell'esercito romano durante la prima guerra giudaica e per la tragica conclusione di quell'assedio. La fortezza dell'antica città di Masada di fatto non fu mai espugnata dai soldati romani che pure vi entrarono nell'anno 73 d.C. Davanti ai loro occhi trovarono solo una orrenda ecatombe: il suicidio collettivo della comunità ebraica zelota. Dopo la sua presa, Masada rimase in mano ai romani fino all'epoca bizantina. Fu riscoperta un secolo e mezzo fa solo per diventare simbolo della causa sionista. Ancora oggi le reclute dell'esercito israeliano vengono condotte sul luogo per pronunciare il giuramento di fedeltà al grido di: "Mai più Masada cadrà".

Già nel 1946, Hannah Arendt segnalava la nascita di un atteggiamento suicida all'interno del nuovo Stato d'Israele: "Alcuni dei leader sionisti sostenevano di credere che gli ebrei potessero stabilirsi in Palestina contro tutto il mondo e che essi stessi potessero continuare a rivendicare tutto o niente contro tutti e tutto. Tuttavia, dietro questo ottimismo spurio si cela la disperazione e una genuina predisposizione al suicidio che può diventare estremamente pericolosa se questa diventerà l'umore e l'atmosfera dominante che accompagnerà la politica in Palestina". "The Jewish State", in The Jewish Writings, Schocken, 2007.

Folkhemmet (la "casa del popolo") è un concetto politico che ha avuto un ruolo importante nella storia del Partito Socialdemocratico e del welfare svedesi. Nato nel 1928 per garantire l'eguaglianza e la comprensione reciproca, il folkhemmet è considerato una via di mezzo tra capitalismo e comunismo [N.d.T.].

Lo storico israeliano Benny Morris, dopo ricerche approfondite sulle aggressioni condotte sulla popolazione araba a seguito della creazione dello Stato d'Israele nel 1948, aveva compreso l'entità dell'ingiustizia perpetrata arrivando a concludere che i palestinesi non saranno mai un "partner per la pace" e di conseguenza gli israeliani in prospettiva non avranno altra scelta se non quella di sottometterli.

Nel novembre del 2006, il nazionalista di destra Avigdor Lieberman è stato nominato vice Primo Ministro d'Israele e Ministro per gli Affari strategici, in riferimento alla minaccia potenziale del nucleare iraniano. Sul pericolo di un nuovo Olocausto si veda Benny Morris: "Der Zweite Holocaust", Die Welt, 6 gennaio 2007: www.welt.de

Si veda a questo riguardo, p. es., l'accusa rivolta allo storico ebreo-inglese Tony Judt da parte di Alvin H Rosenfeld in "Progressive Jewish Thought and the New Anti-Semitism", American Jewish Committee, dicembre 2006. Un argomento forte contro l'emergenza di un nuovo antisemitismo è fornito da Steven Beller "In Zion's hall of mirrors: a comment on 'Neuer Antisemitismus'?", in Patterns of Prejudice, Vol. 41, No. 2, 2007.

"Israels självmordspolitik", Dagens Nyheter, 29 aprile 2004. www.rosenberg.se.

Avraham Burg, Lenatzeah et Hitler, Yedioth Aharonoth, 2007.

Ari Shavit, "Leaving the Zionist Ghetto", Ha'aretz, 7 giugno 2007: www.haaretz.com.

Published 10 April 2008
Original in Swedish
Translated by Mario Coen and Chiara Benzi
First published by "Det förlorade landet", Albert Bonnier Förlag, 2007 (Swedish version)

Contributed by Lettera Internazionale © Göran Rosenberg / Lettera Internazionale / Eurozine

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