Chernobyl, trent'anni dopo

Remembering Chernobyl: 30 years after

Gainka, Vesnyane, Stechanka, Zamozhnia, Buda, Bovizhe e tanti altri. Un’ottantina di centri abitati abbandonati. Tanti ve ne sono nella cosiddetta “zona di esclusione” o “zona di alienazione” di Chernobyl.

The National Chernobyl Museum in Kyiv documents the Chernobyl disaster and its legacy, including how one of the world’s worst nuclear catastrophes became pivotal to the cause of Ukrainian independence. During his visit to the museum, Italian journalist Matteo Tacconi learns too of how the events of 1986 triggered a new anti-nuclear movement and a battle to access information suppressed by the Soviet regime.

 

Qualcuno è letteralmente sprofondato nei boschi. Ed è questo contrasto tra le cose un tempo possedute dall’uomo e l’avanzare lento e inesorabile della natura la strana cifra di questa vasta superficie, estesa oltre 2000 chilometri quadrati, che si sviluppa nel raggio di trenta chilometri dalla centrale atomica di Chernobyl.

Trent’anni fa, il reattore numero 4 esplose nel corso di un esperimento volto a testare la capacità di produrre energia elettrica tramite la forza residuale della turbina, nel caso in cui ci fosse stato un blackout. In questa eventualità, infatti, il processo di raffreddamento del reattore sarebbe stato sì garantito dall’avvio di generatori alternativi, ma sarebbe passato un minuto prima della loro entrata a regime e il nocciolo, in questo breve lasso di tempo, si sarebbe potuto surriscaldare oltre misura. Un imperdonabile difetto di progettazione, benché Anatoli Alexandrov, capo del programma nucleare sovietico, avesse detto che i reattori Rbmk, gli stessi di Chernobyl, erano talmente sicuri che le autorità avrebbero dovuto costruire impianti il più vicino possibile alle città, per garantire nel modo migliore acqua calda d’inverno.

Pripyat. Photo: thedacotakid. Source: Flickr.com

Il test, a Chernobyl, fu gestito pessimamente. Si creò una reazione incontrollabile, che portò all’esplosione e al collasso del reattore, che rilasciarono nell’ambiente 5300 petabecquerel. A Fukushima, nel 2011, se ne sono registrati 520. Il becquerel misura l’attività di un radionucleotide.

Dopo l’incidente, le autorità evacuarono le aree situate nel raggio dei trenta chilometri dalla centrale. Oltre 100mila persone lasciarono le proprie abitazioni. Nessuno, salvo qualche samosely, residenti di ritorno, abusivi ma tollerati, vi si è più ristabilito. Nella zona di alienazione vige del resto il divieto di insediamento. Alcune delle sue aree, soprattutto quelle a ridosso della centrale, hanno ancora oggi tassi di contaminazione superiori alla media.

È il caso di Pripyat, la città da 50mila abitanti che sorgeva intorno alla centrale. Oggi è ossario urbano in lento ma inesorabile disfacimento. È possibile visitarla, ma non si può restare per più di un’ora.

A Chernobyl, il centro abitato più antico di questa parte di Ucraina, che dà il nome alla centrale, il tasso di contaminazione sta nella media. E durante la settimana la città, anch’essa evacuata nel 1986, è animata – se così si può dire visto il coprifuoco tra le dieci di sera e la mattina presto – da circa duemila pendolari. Gente che lavora per l’agenzia di stato che gestisce la zona di esclusione, militari che ne controllano gli accessi, ricercatori, qualche operaio e dipendenti delle mense e dei negozi.

Alla centrale, lavori in corso. Si sta costruendo il nuovo “sarcofago”. Il vecchio, con cui fu ingabbiato il reattore allo scopo di contenere la radioattività, sta cedendo. Tutto intorno ecco la riscossa della natura, che sfida la violenza distruttrice dell’atomo. Il ripopolamento da parte di flora e fauna non è mitologia, ma un fatto scientificamente provato. Al piano terra del Museo nazionale Chernobyl, che sorge nella vecchia Kiev, c’è una mostra fotografica che svela proprio questo: la riconquista di spazi da parte della natura.

Una visita al Museo è un buon modo per capire come l’Ucraina ha “catalogato” la vicenda di Chernobyl. Da un lato è stata uno snodo chiave per l’indipendenza del 1991. L’Urss spese una montagna di soldi per il processo di bonifica e al tempo stesso sostenne un costo politico enorme, visto che il movimento indipendentista ucraino acquisì forza dagli eventi del 1986, facendo sue le pulsioni anti-nucleariste e le battaglie per l’informazione e il diritto di sapere innescate dalla tragedia.

Ma Chernobyl, dall’altro lato, è anche un fardello. Ancora oggi, la salute di quasi due milioni di ucraini è compromessa per via delle conseguenze dell’incidente del 1986. E tra queste persone ci sono all’incirca 200mila liquidatori: coloro che lavorarono per spegnere l’incendio al reattore e mondare l’ambiente. Affrontarono il nemico atomico senza precauzioni. Ne furono mobilitati 600mila. Il Museo Chernobyl ricorda che più della metà erano ucraini e che il 50% è morto, o è rimasto invalido.

L’enfasi riposta sul sacrificio dei liquidatori, sulla negazione da parte sovietica delle conseguenze del disastro, sulle falle nella progettazione della centrale di Chernobyl e sui processi nei confronti dei tecnici, ritenuti gli unici responsabili, lasciano l’impressione, per questo inoppugnabili siano queste cose, che il modo in cui questa storia è stata trattata è un po’ impregnato di “vittimismo”. Come se la catastrofe di Chernobyl e il peso che per l’Ucraina ne discende ancora oggi sia stato il solo frutto di un’imposizione sovietica, e quindi in un certo senso russa: quella di mettere quella centrale, con quei reattori, in quel preciso luogo.

L’Ucraina ha chiuso la centrale di Chernobyl (nel 2000), ma non ha rinunciato al nucleare. In realtà subito dopo l’indipendenza, il Parlamento approvò una moratoria sulla costruzione di nuove centrali, e si affermò l’idea di chiudere progressivamente le vecchie. La moratoria fu però revocata presto e venne portata a termine la costruzione dei reattori che, al momento dell’indipendenza, non erano ancora entrati in funzione nelle altre quattro centrali, oltre a quella di Chernobyl, costruite in epoca sovietica. L’Ucraina, a corto di risorse, non poteva permettersi di comprare da fuori troppa energia.

Nonostante questo, verrebbe da pensare che sia un po’ illogico puntare su questa fonte, tenuto conto di quanto accaduto trent’anni fa. Ma la cosa è solo fino a un certo punto paradossale, secondo i gruppi ecologisti ucraini. Nel senso che è proprio la convinzione che il disastro di Chernobyl fu un fallimento sovietico e non la prova concreta di quanto l’atomo possa nuocere, se non controllato, a dare continuità alla scelta nucleare. Dall’altra parte della barricata si risponde che oggi tutto è sicuro e che il Paese non può fare a meno del nucleare, altrimenti sarebbe ancora più dipendente della Russia (dalla quale però compra non solo gas ma anche il combustibile per le centrali). Ma allora, se le cose così stanno, se le procedure sono sicure, perché la centrale di Chernobyl è stata chiusa? Fu proprio inevitabile cedere alle pressioni internazionali e sacrificare migliaia di posti di lavoro? Sono interrogativi che verranno ancora sollevati a lungo. Nel frattempo, a Chernobyl ricrescono gli alberi.

Published 3 May 2016
Original in Italian
First published by l'Unita.tv, 26. April 2016

© Matteo Tacconi / l'Unita.tv / Eurozine

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