Un'altra democrazia per un'altra Europa

Cianciare di riforme istituzionali per l’Europa senza mettere in discussione il modello liberal-democratico dei paesi europei è del tutto inutile. O la costruzione dell’Unione politica europea diventa occasione per un autentico progetto di sovranità popolare che ribalti i dogmi liberisti oggi dominanti, e distrugga il monopolio dei politici di mestiere sulla cosa pubblica, oppure il ‘sogno europeo’ è destinato a infrangersi.

L’Europa non scalda i cuori, è il meno che si possa dire. L’idea di Europa come futura istituzione politica (gli “Stati Uniti d’Europa”) dice ormai poco o nulla ai suoi potenziali cittadini, mentre l’Europa realmente esistente provoca sentimenti di ostilità. Viene vissuta come l’Europa dei poteri finanziari e dei governi succubi, non certo della sovranità popolare. Se l’Europa politica resta questa Europa la disaffezione è destinata a crescere, le tentazioni nazionaliste a moltiplicarsi (fino allo sciovinismo e al passo logico successivo, il razzismo), le suggestioni autoritarie e il populismo reazionario a fare sempre più breccia.

In search of the tools with which to save Europe. Photo: holbox. Source:Shutterstock

In questo quadro, predicare “più Europa”, come fa Habermas per esorcizzare i fantasmi delle chiusure localistiche e identitarie che ormai infestano anche la sinistra, equivale a recitare una giaculatoria. A meno che non si faccia della “questione Europa” l’occasione di un progetto di autentica sovranità popolare europea, che trasformi radicalmente il paradigma delle democrazie realmente esistenti. Che rimetta in discussione la liberaldemocrazia, la concezione procedurale e non-sostantiva della democrazia. Proprio quanto, fin qui, nessuno, neppure a “sinistra”, assume come il problema.

Scrive Habermas in una recente omelia sul tema europeo:

“Senza la spinta di una vitale formazione della volontà da parte di una società di cittadini mobilitabile al di là dei confini nazionali, all’esecutivo di Bruxelles resosi ormai autoreferenziale (verselbständigt) manca la forza e l’interesse a regolare in forme socialmente sostenibili mercati ormai abbandonati ai loro spiriti animali”.1

Sacrosanto. Ma come suscitare questa “spinta vitale” di protagonismo civico repubblicano? E in che senso sarebbe “autoreferenziale (verselbständigt)” l’esecutivo di Bruxelles, visto che ha l’appoggio di quasi tutti i governi nazionali?

Habermas propone “due innovazioni”:

“In primo luogo un comune progetto politico di fondo, con relativi trasferimenti economici e responsabilità in solido tra gli Stati membri. […] Secondo, una partecipazione paritaria di parlamento e Consiglio alla legislazione e una Commissione che risponde a entrambe le istituzioni”.

Spiace dirlo, ma si tratta di aria fritta. Quella che viene avanzata come panacea è solo un modesto e progressivo avvicinamento delle istituzioni europee a quelle liberal-democratiche vigenti nei singoli Stati. Ma se il prossimo parlamento avesse i poteri che ha oggi il Bundestag o l’Assemblée Nationale o la House of Commons, e il governo di Bruxelles dovesse ottenerne la fiducia, la questione della “spinta vitale” di una cittadinanza attiva per “regolare in forme socialmente sostenibili mercati ormai abbandonati ai loro spiriti animali” non avrebbe fatto nessun passo avanti. Lo strapotere dei mercati finanziari e dei loro padroni, rispetto ai cittadini “sovrani”, potrebbe perfino trovarsi accresciuto.

Se l’esecutivo di Bruxelles è oggi prono ai diktat dei poteri finanziari, infatti, altrettanto subordinati alla finanza-canaglia, che ha trasformato il sistema delle Borse in una gigantesca Las Vegas dell’azzardo, sono i singoli governi nazionali, cioè le maggioranze parlamentari elette dai cittadini “sovrani”. È anzi assai probabile che il parlamento di Strasburgo, che voteremo tra qualche settimana, vedrà ridursi ulteriormente le resistenze di “sinistra” (pallide e inconcludenti, perché di un keynesismo in dosi omeopatiche) rispetto ai trionfanti adepti del liberismo selvaggio e della favola della “austerità espansiva”, sbrilluccicante packaging ideologico dell’omertà politico-affaristico-corruttiva (con crescenti “generosità” mafiose) e dei suoi croupier finanziari. È anzi facile profezia che l’unica opposizione cool ai pasdaran della diseguaglianza liberista sarà costituita dagli spurghi sciovinisti e razzisti dei lepenismi nelle diverse salse nazionali. Talmente cool che nei sondaggi sono, in un numero crescente di paesi, la prima o la seconda forza.

Si dirà: se la maggioranza dei cittadini vota la destra liberista, e come opposizione trendy una destra esplicitamente antidemocratica, è inutile ogni geremiade, sono i rischi della sovranità popolare. Ma è proprio questa la Gorgone Medusa che non si vuole affrontare, la sovranità espropriata: quanto hanno ormai a che fare con la sovranità dei cittadini le tradizionali forme della legittimazione democratica attraverso il voto a suffragio universale?

Strana reticenza, o per essere più esatti angosciante hybris di rimozione, quella di identificare l’esercizio della sovranità democratica con il potere delle maggioranze uscite dalle urne. Possibile che ad appena ottant’anni dalla Tragedia d’Europa per antonomasia, ci si sia già dimenticati che Hitler andò al potere per via elettorale, nel rispetto delle forme costituzionali? E che dunque il voto, anche il più corretto formalmente, non costituisce l’essenza della democrazia, il sancta sanctorum della sovranità, ma solo un suo strumento? Ineludibile, certamente, ma solo uno strumento, anzi uno degli strumenti.

Possibile che si metta la sordina a quello che perfino la presunta “scienza” della politica, troppo spesso al servizio dell’esistente, ha messo in chiaro infinite volte, che le condizioni della democrazia, i suoi presupposti giuridici, socio-economici, culturali, vengono prima, logicamente e storicamente, del funzionamento della democrazia, e la pre-giudicano? E che senza il radicamento di tali condizioni, e infine di un ethos repubblicano diffuso, il voto a maggioranza può essere strumento di cittadinanza sottratta, di dispotismo, di tirannia, anziché di sovranità popolare, cioè sovranità di-tutti-e-di-ciascuno?

Partiamo pure dal voto, come fonte ultima di legittimità per l’esercizio del potere. Deve essere un voto libero ed eguale. Ora, il principio minimo della democrazia liberale “una testa, un voto” viene onorato solo dal voto dato con la propria testa, secondo convinzione. Un voto autonomo, non già asservito e sottomesso. I conservatori inglesi che a un secolo dalla Bastiglia ancora teorizzavano il voto censitario, argomentavano che non può essere autonoma la scelta di chi non goda degli agi e della cultura che lo rendano effettivamente libero da sudditanze materiali e psicologiche. Avevano perfettamente ragione. Solo che ne derivavano il voto censitario, conseguenza di classe, mentre la conseguenza logica vuole piuttosto una trasformazione sociale così profonda da assicurare a tutti (uomini e donne!) il benessere individuale e gli strumenti critici per un voto libero.
Un voto libero ed eguale implica perciò una società che combatta costantemente e riduca asintoticamente le diseguaglianze materiali e spirituali vecchie e nuove, incistate nella tradizione o liberate dagli spiriti animali del mercato. Insomma, la pre-condizione di una democrazia liberale è un welfare radicale e in espansione, sempre più pronunciato. Precondizione della democrazia, e vaccino contro la sua crisi, è dunque una costante redistribuzione di reddito e ricchezza. Un paese nel cuore dell’Europa ma estraneo alle istituzioni europee come la Confederazione elvetica, ha sottoposto a referendum una forbice massima delle retribuzioni 1:12. Benché la proposta sia stata sconfitta (grazie anche a una campagna intimidatoria satura di disinformazione e manipolazione), proprio questo è l’orizzonte di eguaglianza già oggi possibile, perché maturo in larghi settori dell’opinione pubblica, che dovrebbe costituire il brodo di coltura di una democrazia europea funzionante.

E naturalmente, un voto autonomo esclude un voto terrorizzato, comprato, manipolato. Esige dunque tra le precondizioni: una costante politica della legalità che realizzi l’intransigente rispetto della legge eguale per tutti, in primis per i signori delle istituzioni e del denaro. Controllo di legalità affidato a magistrati che, in quanto potere autonomo, limiti quello dei politici e dei padroni, e combatta ogni forma di criminalità organizzata (che sostituisce a “una testa, un voto”, “una pallottola, un voto”) e di corruzione (che sostituisce “una mazzetta, un voto”). Ma altrettanto necessarie, per un “voto dato con la propria testa”, politiche che contrastino, fino ad annullarli, ogni influenza religiosa nella sfera pubblica (che avvelena “una testa, un voto” in “una preghiera, un voto”), ogni monopolio nei media (“uno spot, un voto”) e infine – but not least – ogni tradimento delle verità di fatto (“una menzogna, un voto”): quelle modeste verità di fatto il cui disprezzo era per Hannah Arendt già inequivocabile prodromo e sintomo del totalitarismo.

Precondizione ancora più nota, ma ferocemente rimossa, è la neutralizzazione del denaro nella sfera pubblica. L’eguaglianza giuridico-politica del cittadino, per essere davvero formale e astratta, implica che nella dimensione pubblica risultino cancellate e annientate le differenze di proprietà, reddito, status, sesso, religione, razza eccetera, che caratterizzano invece l’individuo concreto della società civile. Dunque nessuna di queste peculiarità deve giocare alcun ruolo nella competizione elettorale. Il che significa una politica sostantiva agli antipodi, ad esempio, di quanto avviene negli Stati Uniti, dove la capacità di fare fund raising è ormai la dote fondamentale di un candidato alla presidenza. Tutte le forze politiche devono godere di eguali risorse pubbliche in natura (cioè in comunicazione: spazi radiotelevisivi, teatri e piazze eccetera) e di nessun finanziamento privato (tranne le piccole somme individuali dei militanti).

Quelle sommariamente enunciate fin qui sono tutte pre-condizioni della democrazia ineludibili, tassative, la cui violazione anche singola e parziale (e infinitamente più se multipla e in sinergia) smantella il fondamento minimo della democrazia – una testa, un voto – e vanifica la sovranità popolare, quale sia la regolarità con cui si svolgono le elezioni. Ora, il paradosso è di accecante evidenza: le pre-condizioni delle istituzioni (procedure!) della democrazia liberale sono costituite da politiche sostantive che nelle “democrazie” realmente esistenti vengono proposte solo da forze politiche considerate estremiste, di una sinistra ormai quasi ovunque introvabile, mentre tutte le altre forze politiche, di destra come di “sinistra”, si trovano unanimi nel rifiutarle. Negando con ciò le pre-condizioni di una democrazia che realizzi davvero la promessa minima di “una testa, un voto”.

A dirla senza perifrasi, mi sembra che oggi in tutta Europa ci sia una sola forza elettorale che si avvicini col suo programma a tale ineludibile coerenza democratica, l’alleanza greca di Syriza e il suo leader Alexis Tsipras. Si “avvicina”, perché c’è ancora molto, troppo, di vecchio “comunismo”, in quel cartello elettorale, anziché di egualitaria politica “giustizia e libertà” radicalmente critica di tutti i passati totalitarismi dell’Est.

Senza le pre-condizioni che ho rapidamente riassunto, la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno è già sottratta, lobotomizzata, e il parlamento non rappresenta i cittadini ma al massimo una loro disperata e rassegnata marginalità. Non è un caso che i “renitenti alle urne”, che restano a casa o votano scheda bianca e nulla (un autentico “esilio interno”) crescano a vista d’occhio. O votino per partiti esplicitamente antidemocratici. La disaffezione per il ceto politico nel suo insieme, per chi della politica fa una professione e una carriera, destra o “sinistra” che sia, è crescente in modo costante. E se in Germania e in Inghilterra non ha ancora raggiunto il livello di disprezzo e schifo con cui guardano ai “politici” i cittadini di Italia o Spagna o Grecia, sarebbe cecità non capire che l’insoddisfazione per le attuali istituzioni rappresentative è ormai il problema che l’intero Occidente, e in primo luogo l’Europa, deve fronteggiare, se non vuole precipitare in una Weimar di dimensioni continentali o addirittura globali.

Dunque: perché nascano istituzioni europee di tipo effettivamente democratico è necessario che prima si affermino e impongano politiche europee che “implementino” nella vita quotidiana gli antichi ideali di “liberté, égalité, fraternité”, dove ogni valore successivo specifica il senso di quello precedente. L’opposto radicale di un’Europa liberista.

In alcuni paesi si sta discutendo l’introduzione di un salario orario minimo. Pre-condizione delle riforme istituzionali proposte da Habermas è una legislazione sociale europea che stabilisca per tutti i paesi lo stesso salario orario minimo, gli stessi diritti sindacali, gli stessi vincoli ecologici, in modo che non sia più possibile il ricatto degli imprenditori di trasferire la produzione dove il costo del lavoro è più basso, cioè dove lo sfruttamento del lavoratore è più forte. Non ci può essere Europa fino a che le differenze di diritti, di welfare, di salari fra i lavoratori fanno di alcuni paesi e/o regioni un serbatoio inesauribile del famoso “esercito proletario di riserva” che consente di abbassare le retribuzioni verso il minimo di sussistenza.
Negli anni Settanta tutte queste categorie marxiane sembravano definitivamente obsolete, grazie a un radicamento di conquiste socialdemocratiche che anche i governi di destra non mettevano in discussione (e che del resto il gollismo aveva in parte nel suo programma), e che consentiva di guardare al modello scandinavo di eguaglianza/efficienza come il futuro prossimo dell’intero continente. La glaciazione tatcheriana e reaganiana e la globalizzazione del liberismo selvaggio hanno prepotentemente riportato di attualità le analisi di Marx sul mercato del lavoro. Senza uno statuto europeo dei lavoratori la condizione salariale tenderà inevitabilmente a convergere con quella cinese (e a differenziarsi sempre di più all’interno del continente, tra la Germania e il resto).

Aggiungiamo politiche europee che combattano frontalmente, con energia e intransigenza inaudita (e l’obiettivo di azzerarlo), l’intreccio canceroso evasione fiscale/corruzione/riciclaggio/speculazione finanziaria, che celebra invece sui mercati londinesi il suo trionfo (con mutazione antropologica di interi quartieri, sul modello degli emiri e degli oligarchi, schiaffo continuo contro ogni ideale democratico). La criminalità organizzata non è più questione italiana, le mafie vecchie e nuove, di Sicilia, Calabria, Campania, o di Cina, Russia, Albania, ex Jugoslavia, stanno colonizzando in caleidoscopiche alleanze l’intero continente, allargando sempre più il lato “legale” delle proprie attività. Imprenditori fra imprenditori nell’Europa dei finanzieri. Porre fine alla libertà della finanza, del resto, costringerla in vincoli ancora più rigorosi di quelli sciaguratamente sciolti da un presidente americano “di sinistra”, forzare le banche a essere l’unica cosa democraticamente e civilmente accettabile, uno strumento al servizio dell’economia produttiva reale, rendendo dunque illegale ogni attività che le apparenti al gioco d’azzardo (questa è la speculazione in ogni sua variante), sono anch’esse tutte pre-condizioni per la nascita di istituzioni europee democratiche.

Infine, oggi l’ostacolo più forte e in apparenza insormontabile per una rappresentanza democratica è costituito dai partiti politici come sono venuti evolvendo e strutturalmente degenerando. Questi partiti, tanto di destra che di “sinistra”, sono oggi macchine di sottrazione e abrogazione della sovranità dei cittadini, di perfetta distorsione e anzi alienazione della volontà popolare. Non sono affatto un sostenitore della democrazia diretta, credo che la decisione democratica approssimi tanto più il suo ideale quanto più è nutrita di discussione, di “azione comunicativa” (diamo a Habermas quel che è di Habermas). Ma proprio perché sono un fautore della democrazia rappresentativa e delegata, trovo necessario sottolineare come oggi la “rappresentanza” sia una finzione, i partiti siano sempre più macchine autoreferenziali, la politica come carriera costringa gli elettori a vivere i “propri” rappresentanti, già all’indomani del voto, come un “loro” contrapposto a un “noi”, una casta o gilda, estranea e spesso “nemica”, arroccata nei propri privilegi.

Per questo diventa oggi improcrastinabile una sorta di “rivoluzione istituzionale” per dare alla democrazia rappresentativa una seconda vita, fondata su parlamentari che non possano fare della politica un mestiere e una carriera ma debbano svolgere il loro compito di delegati solo per un numero limitatissimo di anni, per tornare poi a lavorare nella società civile. Come bricoleur della politica. Un solo mandato parlamentare (al massimo due), incompatibilità tra cariche (ministro, parlamentare nazionale, parlamentare europeo, sindaco eccetera), divieto di passare da una candidatura locale (sindaco) a una nazionale senza un lungo intervallo di tempo, divieto di candidarsi per chi ha avuto incarichi manageriali di nomina politica (e divieto di averli dopo essere stato parlamentare)… Insomma, la politica come servizio civile temporaneo.

Se tutte queste sono pre-condizioni per la democratizzazione delle istituzioni europee, è evidente che le riforme istituzionale di cui parla Habermas sono l’aspirina che pretende di curare il tumore. Ma è anche evidente che il primo passo non può oggi essere istituzionale, ma di lotte (anche elettorali) e di costituzione di una forza politica adeguata. Perché un governo europeo eletto nelle condizioni di sottrazione di sovranità sempre più diffuse in tutto il continente, oggi assomiglierebbe tragicamente a quel “comitato d’affari della borghesia” di leniniano disprezzo. Sembra quasi che gli establishment di tutta Europa facciano a gara per ridare lustro alle tesi del vecchio capo bolscevico. Il problema all’ordine del giorno è dunque quello di una forza politica che avanzi a livello europeo un programma alternativo come quello cui abbiamo accennato.

Questa forza oggi non esiste. Tutti i partiti socialdemocratici sono ormai definitivamente e irreversibilmente parte integrante e costitutiva del kombinat di poteri politici e finanziari. Non sono riformabili dal proprio interno. Deluderanno sempre le speranze che occasionalmente (o per disperazione) ogni tanto alimentano. Quando vincono è solo perché perdono i loro avversari, evidentemente ancora più impresentabili. Hollande non ha vinto, una marea di francesi non ne poteva più di Sarkozy. Tanto è vero che ora rischia di vincere Marine Le Pen.

La risposta a questo harakiri della “sinistra” (che in realtà si svolge da almeno un quarto di secolo) non può essere costituito da un revival comunista, comunque truccato e quali che siano le capriole dialettiche alla Zizek di cui possa nutrirsi e ammantarsi (un handicap pesantissimo di Syriza è proprio quello di non svincolarsi dai patetici vincoli dei groupuscules neocomunisti europei, parodia delle Internazionali d’antan).

È necessario invece inventare una forma organizzativa a tutt’oggi inedita e a geometria variabile. Che non sia un partito, che non abbia funzionari e un apparato stipendiato, che viva solo sul volontariato, che possa dar vita a liste elettorali in diverse occasioni ma non necessariamente sempre, che sappia costantemente rinnovarsi a seconda dei movimenti reali di lotta e di opinione che percorrono la società civile, movimenti che, in un circolo virtuoso di sinergie, cercherà a sua volta di suscitare. Per ora le uniche novità si producono “a destra”, nel crogiuolo di populismi (spesso plutocratici), razzismi e nostalgie di fascismi e teocrazie. Eppure le fiammate di movimenti radicali sono sempre più frequenti. Fin qui non hanno mai trovato catalizzatori che sapessero dare loro continuità organizzativa e proiezione rappresentativo-parlamentare. Anche perché ogni forza politica nasce oggi attorno a una leadership autorevole e riconoscibile, il che per una forza democratico-egualitaria può suonare un ossimoro.

Eppure questa è la sola sperimentazione che può “salvare l’Europa”. Un sempre maggiore contagio, ibridazione, coordinamento, strutturazione organizzativa a geometria variabile (ma niente affatto “liquida”) tra tutte le esperienze di impegno della società civile che percorrono l’Europa (movimenti di lotta e di opinione, anche tramite il web) sotto la bandiera di una radicale “giustizia e libertà”. Esperienze e movimenti fin qui frammentati, dispersi, spesso refrattari a capire che senza misurarsi anche con le scadenze elettorali la piazza e il web sono sfogo esistenziale, non azione politica che cambia davvero le cose. Se questo magma democratico che si esprime oggi come sporadica indignazione non diventa forza politica (in forme non di partito, ma di bricolage politico organizzato), l’Europa potrà scegliere solo tra l’inverno della “democratica” dittatura finanziaria o il buio baratro di nuovi fascismi inzuccherati.

"Habermas: vi spiego perché la sinistra anti-Europa sbaglia", www.reset.it, 3/9/2013.

Published 27 May 2014
Original in Italian
First published by Micromega 3/2014 (Italian version); Esprit 5/2014 (French version)

Contributed by Micromega © Paolo Flores d'Arcais / Micromega / Eurozine

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