Religione, identità laiche e integrazione in Europa

Dal Trattato di Roma del 1957 che istituì la CEE e avviò il processo di integrazione europea tuttora in atto, le società dell’Europa occidentale hanno subito un rapido, drastico, e apparentemente irreversibile processo di laicizzazione. Da questo punto di vista, si può parlare della nascita di un’Europa post-cristiana. Allo stesso tempo, il processo di integrazione europea, l’espansione verso est dell’Unione e la stesura della Costituzione hanno sollecitato domande fondamentali riguardanti l’identità europea e, in essa, il ruolo della cristianità. Che cosa fonda l’Europa? Come e dove dovrebbero essere tracciati i confini territoriali e culturali dell’Europa? Le questioni più controverse e preoccupanti, su cui di rado ci si confronta apertamente, sono la potenziale integrazione della Turchia e la potenziale integrazione di immigrati non-Europei, i quali, nella maggior parte dei paesi europei, sembrano essere essenzialmente musulmani. Mi piacerebbe riflettere sulla relazione che intercorre tra questi fenomeni.

La progressiva, anche se affatto uniforme, laicizzazione dell’Europa è un innegabile fatto sociale. Una maggioranza crescente della popolazione europea ha smesso di partecipare, almeno regolarmente, alle pratiche religiose pur mantenendo ancora un livello relativamente alto di credo religioso individuale e privato. Da questo punto di vista, si dovrebbe forse parlare di una “sconsacrazione” della popolazione europea e di un’individualizzazione religiosa, piuttosto che di laicizzazione vera e propria. Grace Davie ha descritto questa situazione ricorrendo all’espressione “credere senza appartenere”. Allo stesso tempo, tuttavia, molti europei, anche nei paesi più laici, si identificano come cristiani, evidenziando un’implicita, diffusa e sommersa identità culturale cristiana. In questo senso, Danièle Hervieu-Léger ha ragione nel proporre una descrizione della situazione europea inversa rispetto a quello fornita da Davie: “appartenere senza credere”. Identità laiche e cristiane si intrecciano in modi complessi, raramente verbalizzati, in molti europei.

Dal punto di vista sociologico, la questione più interessante non è il progressivo indebolimento della religione, ma il fatto che esso venga interpretato ricorrendo al paradigma della laicizzazione e sia quindi accompagnato da un’auto-comprensione laicista che interpreta l’indebolimento come normale e progressivo, ovvero, come una conseguenza quasi inevitabile dell’essere europei “moderni” e “illuminati”. E’ questa identità laica, condivisa dalle élites europee e contemporaneamente dalla gente ordinaria, che paradossalmente trasforma la “religione” e l’identità cristiana appena sommersa in questioni spinose e complesse quando si tratta di delineare i confini geografici e di definire l’identità culturale di un’Unione Europea in via di costituzione.

Vorrei riflettere su come la religione sia diventata una questione spinosa rispetto alla formazione dell’Europa attraverso una rassegna di quattro dispute attualmente in atto: il ruolo della Polonia cattolica; l’annessione della Turchia; l’integrazione degli immigrati non europei e il ruolo da assegnare a Dio o all’eredità cristiana nel testo della nuova Costituzione europea.

La Polonia cattolica nell’Europa post-cristiana:
normalizzazione secolare o grande compito apostolico?

Il fatto che la cattolica Polonia si stia riunendo all’Europa proprio nel momento in cui l’Europa Occidentale sta abbandonando la propria identità civile cristiana ha creato qualche complicazione sia per i polacchi cattolici che per gli europei laici. In un passato numero di Transit, ho esaminato il lungo percorso storico, fatto di convergenze e divergenze, degli sviluppi religiosi della Polonia e dell’Europa Occidentale. In questa sede è sufficiente ricordare che sotto il regime comunista il cattolicesimo polacco ha vissuto uno straordinario momento di rinascita proprio mentre le società dell’Europa occidentale maturavano un drastico processo di laicizzazione. La reintegrazione della Polonia cattolica nell’Europa secolarizzata può essere interpretata perciò come “una sfida difficile” oppure come “un grande compito apostolico”. Anticipando la minaccia della laicizzazione, le frange integraliste del cattolicesimo polacco hanno adottato una linea contraria all’integrazione europea. Incitata dal Papa, la leadership della chiesa polacca, al contrario, ha accolto l’annessione all’Europa come un dovere apostolico.

Le ansie degli eurofobi sembrerebbero pienamente giustificate dal momento che la premessa di base del paradigma della laicizzazione – secondo cui più una società si modernizza più diventa laica – sembra essere un assunto dato ampiamente per scontato anche in Polonia. Dal momento che la modernizzazione, intesa come il raggiungimento dei livelli europei di sviluppo politico, economico, sociale e culturale, è uno degli obiettivi dell’integrazione, molti osservatori tendono ad anticipare che tale modernizzazione porterà alla laicizzazione anche in Polonia, mettendo fine all’ “eccezionalità” religiosa polacca. Che la Polonia diventi infine un paese europeo “normale” è dopo tutto uno degli obiettivi degli euroentusiasti.

L’Episcopato polacco, intanto, ha accettato entusiasticamente il compito apostolico assegnatogli dal Papa e ha ripetutamente evidenziato che uno dei suoi obiettivi, una volta che la Polonia si sia riunita all’Europa, è quello di “riportare la cristianità” nel vecchio continente. Se questo può suonare assurdo a orecchie europee, un messaggio del genere ha trovato risonanza nella tradizione del messianismo polacco. Tuttavia, salvo un cambiamento radicale nello zeitgeist secolarizzato dell’Europa, tale sforzo evangelico ha poche possibilità di successo. Dato il calo di domanda religiosa nell’Europa occidentale, l’offerta di un surplus di risorse pastorali polacche difficilmente si dimostrerà efficace. La reazione europea, indifferente se non apertamente ostile, alle ripetute chiamate di Giovanni Paolo II per una rinascita dell’Europa cristiana evidenzia le difficoltà del compito. Suggerirei un “compito apostolico” meno ambizioso, anche se non meno arduo, che forse potrebbe avere ugualmente effetti considerevoli. Lasciamo che la Polonia dimostri che la tesi sulla laicizzazione è sbagliata. Lasciamo che la Polonia simper fidelis mantenga fede alla propria identità e alla tradizione cattolica pur riuscendo a integrarsi in Europa e diventando quindi un paese europeo “normale”. Un tale risultato, se realizzabile, potrebbe suggerire che l’indebolimento della religione in Europa può non essere un processo teleologico necessariamente legato alla modernizzazione, ma una scelta storica. Una Polonia moderna e religiosa potrebbe forse costringere gli Europei secolarizzati a ripensare i propri assunti laici e a capire che non è la Polonia a non essere in sintonia con le tendenze moderne quanto piuttosto l’Europa secolarizzata a non esserlo con il resto del mondo. Dato per certo, un tale stimolante scenario è semplicemente inteso per rompere l’incantesimo grazie al quale il laicismo avvolge le menti europee e le scienze sociali.

Potrebbe mai una Turchia, musulmana e moderna, unirsi al club cristiano dell’Europa. Ovvero qual è il paese diviso?

Se la minaccia di una crociata polacca preoccupa poco gli europei laici convinti della propria capacità di assimilare la Polonia cattolica alle proprie condizioni, la prospettiva dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea suscita ansie molto maggiori tra gli europei, cristiani e post-cristiani, ansie che però non possono essere facilmente verbalizzate, almeno non pubblicamente. La Turchia è stata pazientemente a bussare alla porta del club europeo fin dal 1959, ed è stata educatamente lasciata in attesa mentre altri, arrivati dopo, venivano invitati a entrare.

La formazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 ad opera dei 6 membri fondatori (Benelux, Francia, Italia, e Germania dell’Ovest) e quella successiva della Comunità Economica Europea, o “mercato comune” nel 1957, si erano fondate su due storiche riconciliazioni: la riconciliazione tra Francia e Germania – due nazioni che erano state in guerra o in procinto di guerra dal 1870 al 1945 – e la riconciliazione tra protestanti e cattolici nella Democrazia Cristiana. In effetti i democratici cristiani, al governo o nella maggioranza in tutti e sei i paesi, svolgevano un ruolo guida in quel primo processo di integrazione europea. La guerra fredda, il piano Marshall, la Nato, e l’asse Washington-Roma, appena stabilito, rappresentavano il contesto geo-politico nel quale si inserivano entrambe le riconciliazioni. La Grecia, nel giugno 1959, e la Turchia, nel luglio dello stesso anno, ostili tra loro eppure membri della Nato, sono stati i primi due paesi a fare domanda per essere ammessi nella Comunità Economica Europea. Lo stesso luglio, gli altri paesi dell’Europa occidentale formavano l’associazione economica alternativa dell’EFTA. Solo la Spagna di Franco era stata tenuta fuori da queste iniziali alleanze.

Ovviamente la Comunità Europea ha sempre precisato che i candidati all’ammissione dovevano soddisfare rigidi parametri economici e politici. L’Irlanda, il Regno Unito e la Danimarca fecero formale domanda di ammissione nel 1961 ma si associarono solo nel 1973. Le richieste di Spagna e Portogallo sono state seccamente respinte, senza alcuna ambiguità, fino a che i due stati hanno mantenuto regimi autoritari, ma, quando le loro democrazie sono apparse in via di consolidamento, sono state chiarite condizioni e scadenze. Spagna e Portogallo sono entrate a far parte della Comunità nel 1986. Nel 1981 la Grecia aveva ottenuto l’ammissione e, con essa, il potere di veto sull’ingresso della Turchia. Ma anche quando, successivamente, la Grecia ha espresso la propria disponibilità a sostenere l’ammissione della Turchia in cambio di quella dell’intera isola di Cipro, la Turchia non ha ricevuto una risposta chiara, ed è stata lasciata di nuovo in attesa. La caduta del muro di Berlino ha spostato le priorità e la direzione dell’integrazione europea verso est. Nel 2004 dieci nuovi membri – 8 paesi ex-comunisti più Malta e Cipro – sono stati ammessi nell’Unione Europea. In pratica tutti i territori della cristianità medievale, ovvero tutti i territori dell’Europa cattolica e protestante, sono ora riuniti nell’Unione. Solo la Croazia cattolica e la Svizzera “neutrale” sono rimaste fuori, mentre la Grecia “ortodossa”, come anche Cipro, metà greca e metà turca, sono gli unici “diversi” dal punto di vista religioso. La Romania e la Bulgaria “ortodosse” dovrebbero essere le prossime, ma le scadenze non sono chiare. Ancora meno chiaro è se e quando verranno avviate le negoziazioni per l’ammissione della Turchia.

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Durante il summit di Copenaghen del 2002, la prima discussione aperta, anche se non ancora formale, sulla candidatura della Turchia ha toccato i nervi scoperti del pubblico europeo.

L’ampio dibattito che ne è nato ha mostrato quanto il vero problema sia l'”Islam” e tutte le distorte rappresentazioni che lo vogliono “altro” dalla civilizzazione occidentale, e non l’ eventuale incapacità della Turchia di soddisfare gli stessi rigidi parametri economici e politici raggiunti dai nuovi membri. Riguardo alla voglia e al desiderio della Turchia di partecipare all’Unione, non ci dovrebbero essere dubbi adesso che il nuovo governo, ufficialmente non più islamico, ha ribadito senza ambiguità la posizione di tutte le precedenti amministrazioni turche. Il pubblico turco, laico o musulmano, si è espresso all’unisono. Il nuovo governo è stato certamente il governo democratico più rappresentativo nella storia della Turchia moderna. La popolazione turca ha raggiunto almeno apparentemente un ampio consenso dimostrando così che la Turchia, sulla questione dell’annessione all’Europa e quindi all’ “Occidente”, non è più un “paese diviso”. Due dei tre requisiti indicati da Samuel Huntington affinché un paese diviso ridefinisca con successo la propria identità civile sono stati evidentemente raggiunti: “Primo: l’élite politica ed economica del paese deve generalmente sostenere con entusiasmo questo passo. Secondo: il pubblico deve essere almeno disponibile ad accettare la ridefinizione della propria identità”. Quello che sembra mancare è il terzo requisito: “gli elementi dominanti nella civiltà ospite – nella maggior parte dei casi l’Occidente – devono essere disposti ad abbracciare chi si è “convertito””.

Il sogno di Kemal Ataturk, “padre dei turchi”, di creare uno stato-nazione turco, moderno, occidentale, laico e repubblicano sul modello della laicità repubblicana francese si è dimostrato difficile da realizzare, almeno nei termini secolarizzati di Kemal. Tuttavia oggi la possibilità di uno stato turco democratico, rappresentativo della propria popolazione musulmana e in grado di unirsi all’Unione Europea, è per la prima volta reale. Le “sei frecce” del kemalismo (repubblicanesimo, nazionalismo, laicismo, statalismo, populismo e riformismo) non potevano realizzare una democrazia rappresentativa. Il progetto era destinato a fallire perché era troppo laico per gli islamici, troppo sunnita per gli alevi (corrente religiosa islamica che combina elementi sciiti e subiti, ndt), e troppo turco per i curdi. Uno stato turco in cui le identità e gli interessi collettivi di questi gruppi, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, non riescano a trovare una rappresentazione pubblica non potrà mai essere una democrazia realmente rappresentativa, anche se fondato su principi moderni, repubblicani e laici. La democrazia musulmana è possibile e realizzabile oggi in Turchia tanto quanto una democrazia cristiana lo era mezzo secolo fa nell’Europa occidentale. Il partito musulmano, anche se ufficialmente non più islamico, attualmente al potere, è stato ripetutamente accusato di essere “fondamentalista” e di minare i sacri principi laici della Costituzione di Kemal che vieta la formazione di partiti “religiosi” come anche di quelli “etnici”, essendo religione e appartenenza etnica forme di identità a cui non è concessa rappresentazione pubblica nella Turchia laica.

Ci si può chiedere se la democrazia non diventi un “gioco” impossibile quando alle potenziali maggioranze non è permesso vincere le elezioni, e quando i politici laici si rivolgono alle forze militari affinché soccorrano la democrazia bandendo queste potenziali maggioranze che minacciano la loro identità laica e il loro potere. In realtà ogni paese dell’Europa continentale ha avuto partiti religiosi in un dato momento della propria storia. Molti di essi, in particolare quelli cattolici, avevano dubbie credenziali democratiche fino a che quanto appreso dalla negativa esperienza del fascismo non li ha trasformati in partiti cristiano-democratici.

Se alla gente non viene permesso di giocare correttamente, può essere difficile farle apprezzare le regole e farle acquisire l’habitus democratico. Ci si può chiedere: chi sono i veri “fondamentalisti”? I “musulmani” che vogliono ottenere il pubblico riconoscimento della propria identità e chiedono il diritto di mobilitarsi per sostenere i propri interessi ideali e materiali rispettando le regole democratiche del gioco, o i “laici” che considerano il velo musulmano indossato da un rappresentante democratico regolarmente eletto una minaccia per la democrazia turca e un affronto blasfemo ai sacri principi democratici dello stato kemalista? Potrebbe l’Unione Europea accettare la rappresentazione pubblica dell’Islam all’interno dei propri confini? Potrebbe un’Europa secolarizzata accettare una Turchia musulmana democratica? Finora il rifiuto dell’Europa si è ufficialmente fondato sullo scarso rispetto dei diritti umani da parte della Turchia. Ma ci sono segni abbastanza evidenti che l’Europa, esternamente laica, sia ancora troppo cristiana per immaginare un paese musulmano all’interno della comunità europea. Ci si può chiedere se la Turchia rappresenti una minaccia per la civilizzazione occidentale o piuttosto uno sgradito ricordo di quell’identità “bianca” europea e cristiana appena sommersa eppure inesprimibile e carica di ansia.

L’ampio dibattito pubblico nato in Europa sulla questione dell’annessione della Turchia ha mostrato che, in realtà, è l’Europa il paese diviso, profondamente diviso, riguardo la propria identità culturale: incapace di rispondere alla domanda se l’unità europea, e quindi i propri confini interni ed esterni, dovrebbero essere definiti dalla comune eredità cristiana e dalla civilizzazione occidentale o dai valori moderni e laici del liberalismo, dei diritti umani universali, della democrazia politica, e del multiculturalismo tollerante e inclusivo. Pubblicamente – è ovvio – le élites europee liberali laiche non possono condividere la definizione del Papa di una civiltà europea essenzialmente cristiana. Ma esse non possono neppure esplicitare quei requisiti culturali non detti che rendono l’integrazione della Turchia in Europa una questione così complicata. Lo spettro di milioni di cittadini turchi già in Europa ma non europei, molti di essi immigrati di seconda generazione, a metà tra il vecchio paese che hanno lasciato alle loro spalle e le società europee che li ospitano incapaci o riluttanti ad assimilarli completamente, rende il problema soltanto più visibile. I “lavoratori ospiti” possono essere incorporati con successo dal punto di vista economico. Possono persino ottenere il diritto di votare, almeno a livello locale, e dimostrare di essere cittadini modello o più semplicemente cittadini ordinari. Ma possono superare le regole non scritte dell’appartenenza culturale europea o sono destinati a restare “stranieri”? Può l’Unione Europea stabilire nuove condizioni per quel tipo di multiculturalismo che le sue società nazionali hanno così tanta difficoltà ad accettare?

Può l’Unione Europea accogliere e integrare “l’alterità” degli immigrati? Un confronto con l’esperienza americana.

Durante l’era moderna le società dell’Europa occidentale sono state nazioni di emigranti, le principali nel mondo. Nel periodo coloniale, coloni, missionari, imprenditori e amministratori europei si sono stanziati ovunque. Nell’età dell’industrializzazione, dal diciannovesimo secolo agli anni ’20 del Novecento, è stato calcolato che circa 85 milioni di europei sono emigrati verso le Americhe, il Sud Africa, l’Australia e l’Oceania, e il 60% di essi solo verso gli Stati Uniti. Negli ultimi decenni, tuttavia, i flussi migratori si sono invertiti e molte società dell’Europa occidentale sono diventate centri di immigrazione globale. Un confronto con gli Stati Uniti, paradigmatica società di immigrati (nonostante il fatto che dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’60 sia diventata una società relativamente chiusa all’immigrazione), mostra alcune caratteristiche differenze rispetto all’attuale esperienza dell’immigrazione europea.

Pure se la proporzione di immigrati stranieri in molti paesi europei (Regno Unito, Francia, Olanda, Germania dell’Ovest prima della riunificazione), approssimativamente attestata sul 10%, è simile a quella degli stranieri presenti negli Stati Uniti, molti di questi paesi hanno ancora difficoltà a considerarsi società di immigrazione permanente o a ritenere i nativi di seconda generazione connazionali, a prescindere dal loro status legale. Ma è nel modo in cui tentano di regolare e conformare le religioni degli immigrati, in particolare l’Islam, che le società europee si distinguono non solo dagli Stati Uniti ma anche tra di loro. Le società europee hanno strutture istituzionali e legali profondamente differenti per quanto riguarda le associazioni religiose e politiche, il loro riconoscimento, la loro regolazione e la loro sovvenzione, e hanno anche normative diverse su quando e dove si possano esprimere pubblicamente convinzioni e pratiche religiose.

Rapportandosi con le religioni degli immigrati, i paesi europei, come gli Stati Uniti, tendono a riprodurre il proprio particolare modello di separazione tra stato e chiesa e gli schemi di regolazione delle proprie minoranze religiose. Il modello secolarizzato dell’etatist francese e la cultura politica della laicità richiedono la severa privatizzazione della religione e l’eliminazione della religione da qualsiasi foro pubblico, allo stesso tempo preme sui gruppi religiosi per farli organizzare in una singola struttura istituzionale centralizzata come quella della Chiesa che può essere regolata e svolgere il ruolo di interlocutore dello stato secondo lo schema tradizionale del concordato. La Gran Bretagna, invece, pur mantenendo la Chiesa d’Inghilterra, garantisce maggiori libertà alle associazioni religiose le quali si rivolgono direttamente alle autorità locali e alle scuole per sollecitare cambiamenti nell’educazione religiosa, nell’alimentazione, ecc.. La Germania, seguendo il modello multi-istituzionale, ha cercato di formare un organismo islamico ufficiale, in concomitanza con gli sforzi dello stato turco di regolare la propria diaspora. Ma le divisioni interne agli immigranti provenienti dalla Turchia e l’espressione e la mobilitazione pubbliche di identità in competizione tra loro (laici e musulmani, alevi e curdi) nel contesto democratico tedesco hanno minato qualsiasi progetto di istituzionalizzazione dall’alto. L’Olanda, seguendo il suo tradizionale modello di divisione in gruppi sociali è sembrata, almeno fino a pochissimo tempo fa, incline a formare un gruppo musulmano separato e auto-organizzato ma regolato comunque dallo stato. Ultimamente tuttavia persino l’Olanda liberale e tollerante sta ritornando sui suoi passi e sembra pronta ad adottare una legislazione più restrittiva stabilendo chiari limiti al tipo di norme e usi non-europei e non-moderni che è disposta a tollerare.

Se si guarda all’Unione Europea nel suo insieme ci sono comunque due fondamentali differenze rispetto alla situazione statunitense. In primo luogo, in Europa, immigrazione e Islam sono quasi sinonimi. La stragrande maggioranza degli immigrati in quasi tutti i paesi Europei – restando il Regno Unito la principale eccezione – è musulmana e la stragrande maggioranza dei musulmani dell’Europa occidentale è immigrata. Questa identità appare ancora più pronunciata in quei casi dove la maggioranza degli immigrati musulmani tende a provenire essenzialmente da un’unica regione, per esempio la Turchia nel caso della Germania o il Maghreb nel caso della Francia. Ciò impone una sovrapposizione di “alterità” diverse che esaspera la questione dei confini, dell’adattamento e dell’integrazione. L’immigrato, coincide con “l’altro” dal punto di vista religioso, razziale, e socio-economico.

Negli Stati Uniti, al contrario, i musulmani rappresentano al più il 10% di tutti i nuovi immigrati, una cifra che probabilmente è destinata a diminuire date le rigide restrizioni imposte all’immigrazione araba e musulmana dopo l’11 Settembre da una sicurezza americana sempre più repressiva. Dal momento che l’Ufficio Censimento, il Servizio Immigrazione e Naturalizzazione, e altre agenzie governative statunitensi non hanno il permesso di raccogliere informazioni sulla religione, non esistono stime affidabili sul numero di musulmani presenti negli Stati Uniti. Quelle disponibili variano dai 2,8 agli 8 milioni. Inoltre è stato valutato che dal 30 al 42% dei musulmani presenti negli Stati Uniti siano afro-americani convertiti, cosa che rende più difficile definire l’Islam una religione straniera, non-americana. Inoltre, le comunità di immigrati musulmani negli Stati Uniti sono estremamente diverse in termini di regioni di provenienza e di caratteristiche socio-economiche. Come risultato, le dinamiche dell’interazione con altri immigrati musulmani, con i musulmani afro-americani, con gli immigrati non-musulmani provenienti dalla stessa regione d’origine e con gli americani ospitanti, dipendendo da caratteristiche socio-economiche e da modelli residenziali, sono molto più complesse che in Europa.

La seconda differenza ha a che fare con il ruolo della religione e delle identità dei gruppi religiosi nella vita pubblica e nell’organizzazione della società civile. Nonostante le differenze interne, le società dell’Europa occidentale sono società profondamente secolarizzate, modellate sul regime di conoscenza egemonico del secolarismo. Come società democratiche liberali tollerano e rispettano la libertà religiosa individuale. Ma a causa delle spinte alla privatizzazione della religione, che tra le società europee è divenuta una caratteristica scontata della definizione di una moderna società laica, queste società hanno una maggiore difficoltà a riconoscere un ruolo legittimo alla religione nella vita pubblica e nell’organizzazione e mobilitazione delle identità collettive. “L’alterità” religiosa e le rappresentazioni pubbliche organizzate dei musulmani diventano un motivo di ansia non solo perché si tratta di una religione non-cristiana, non-europea, ma – cosa ancora più importante- perché quella religiosità è “altra” rispetto alla laicità europea. L’Islam, per definizione, diventa “l’altro” rispetto alla modernità dell’Occidente laico. Quindi, i problemi posti dall’annessione degli immigrati musulmani viene consciamente o inconsciamente associato alle spinose questioni riguardanti il ruolo della religione nella sfera pubblica che le società europee ritengono di aver già risolto secondo la norma liberale laica della privatizzazione della religione.

Al contrario, gli Americani sono di gran lunga più religiosi degli europei e quindi vi è una certa pressione affinché gli immigrati si conformino all’habitus religioso. In genere negli Stati Uniti gli immigrati tendono a essere più religiosi di quanto non lo fossero nei loro paesi di provenienza. Ma ancora più significativamente, oggi come in passato, religione e identità confessionali pubbliche e religiose giocano un ruolo importante nel processo di integrazione dei nuovi immigrati. La tesi di Will Herberg riguardo il vecchio immigrante europeo, dal quale “non solo ci si aspettava che mantenesse la sua vecchia religione – a differenza della vecchia lingua e nazionalità- ma tale era la forma dell’America che era soprattutto nella religione e attraverso di essa che l’immigrato, o piuttosto i suoi figli e i suoi nipoti, avrebbero trovato uno spazio identificabile nella vita americana” è ancora attuale. Questa affermazione implica che le identità religiose collettive siano state uno dei modi principali per strutturare il pluralismo interno della società nella storia americana. Bisognerebbe aggiungere solo una piccola correzione: non solo la religione, come lo studio di Herberg sembra implicitamente sostenere, e non solo la “razza”, come tendono invece a sostenere altrettanto implicitamente gli studi contemporanei sull’immigrazione, ma religione e “razza” e i loro intricati intrecci sono serviti a strutturare l’esperienza americana dell’integrazione degli immigrati, diventando così centrali nell'”eccezionalità americana”.

Oggi, ancora una volta, siamo testimoni di vari tipi di collisioni e collusioni tra la formazione di un’identità religiosa e la formazione di un’identità razziale, processi che sono probabilmente destinati ad avere ripercussioni significative nell’organizzazione presente e futura del multiculturalismo americano. La religione e la “razza” stanno diventando, una volta ancora, i due marcatori critici che identificano il nuovo immigrato o come assimilabile o come uno “straniero” sospetto. A causa di quella logica corrosiva così diffusa negli Stati Uniti che tende a compartimentare la società americana in gruppi razziali, le dinamiche della formazione dell’identità religiosa assumono una forma doppiamente positiva nel processo dell’integrazione degli immigrati. Data l’accettazione istituzionale del pluralismo religioso, l’affermazione delle identità religiose è aumentata tra i nuovi immigrati. Questa affermazione positiva è rafforzata inoltre da ciò che appare essere una comune reazione di difesa di molti gruppi di immigrati contro la divisione razziale e, in particolare, contro il marchio razziale della pelle scura. Da questo punto di vista, l’auto-identificazione religiosa e razziale rappresentano modi alternativi di organizzare il multiculturalismo americano. Uno degli ovvi vantaggi del pluralismo religioso rispetto al pluralismo razziale è che, sotto un’istituzionalizzazione costituzionale appropriata, esso è più facilmente riconciliabile con i principi dell’uguaglianza e della diversità non gerarchica, e quindi con un multiculturalismo genuino.

La società americana sta entrando in una nuova fase. Il modello tradizionale dell’assimilazione che ha trasformato cittadini europei, in etnicità americane, non può più essere utilizzato come modello di assimilazione adesso che l’immigrazione si è trasformata in un fenomeno mondiale. L’America è costretta a diventare “la prima nuova società globale” composta da tutte le religioni e le culture del mondo, in un tempo in cui le identità civili religiose stanno riacquistando importanza sullo scenario mondiale. Nello stesso momento in cui scienziati politici come Samuel Huntington annunciano l’incombente conflitto di civiltà nella politica globale, un nuovo esperimento negli incontri interculturali e nell’accordo tra tutte le religioni del mondo sta prendendo piede. Il pluralismo religioso americano si sta espandendo e sta incorporando tutte le religioni del mondo nello stesso modo in cui aveva precedentemente incorporato le religioni dei vecchi immigrati. Come il cattolicesimo e il giudaismo prima, le altre religioni del mondo, l’Islam, l’induismo, il buddismo vengono ora “americanizzate” e, nel processo, esse stanno trasformando la religione americana. Contemporaneamente le diaspore religiose statunitensi fanno da catalizzatori per la trasformazione delle vecchie religioni, nello stesso modo in cui il cattolicesimo e il giudaismo americani hanno avuto un impatto sulla trasformazione del cattolicesimo e del giudaismo a livello mondiale.

Questo processo istituzionale che amplia il pluralismo religioso è facilitato dalla doppia clausola del Primo Emendamento che da un lato garantisce la “non-istituzionalizzazione” della religione a livello statale, e quindi la rigida separazione tra chiesa e stato e la genuina neutralità dello stato laico, mentre dall’altro tutela il libero esercizio della religione nella società civile prevedendo severe limitazioni all’intervento dello stato e alla regolazione amministrativa in campo religioso. E’ questa combinazione di uno stato rigidamente laico e di un libero esercizio della religione – costituzionalmente protetto- che distingue il contesto istituzionale americano da quello europeo. In Europa si trova a un estremo il caso della Francia, in cui uno stato laico non solo limita e regola l’esercizio della religione nella società ma impone alla società la propria ideologia repubblicana della laicità, e all’altro estremo il caso dell’Inghilterra, dove una chiesa di stato è compatibile con un’ampia tolleranza delle minoranze religiose e con un libero esercizio della religione.

Come sistemi democratici liberali, tutte le società europee rispettano il privato esercizio della religione, incluso l’Islam, come diritto umano individuale. E’ il libero esercizio pubblico e collettivo dell’Islam come religione di immigrati che esse trovano difficile da tollerare proprio perché l’Islam è percepito come una religione “non-europea”.
I motivi per cui l’Islam viene considerato “non-europeo” variano significativamente a seconda dei gruppi sociali e politici. Per la destra contraria all’immigrazione, xenofoba e nazionalista, rappresentata da Le Pen in Francia e da Jörg Haider in Austria, il messaggio è esplicito. L’Islam non è il benvenuto e non è assimilabile semplicemente perché è una religione straniera, di immigrati. Un atteggiamento così nazionalista e razzista può essere facilmente distinto dalla posizione conservatrice cattolica, paradigmaticamente espressa dal Cardinale di Bologna quando ha dichiarato che l’Italia dovrebbe dar il benvenuto agli immigrati di tutte le razze e religioni del mondo, ma che dovrebbe preferire gli immigrati cattolici in modo da preservare l’identità cattolica del paese.

Gli europei liberali laici tendono a disapprovare queste sfacciate espressioni di bigotteria razzista e di intolleranza religiosa. Ma quando si tratta di Islam, gli europei laici mostrano i limiti e i pregiudizi della tolleranza moderna secolarizzata. Certo, non è facile sentire tra i politici liberali e gli intellettuali laici esplicite affermazioni xenofobe o anti-religiose. La formula politicamente corretta tende a seguire linee del tipo: “diamo il benvenuto a qualsiasi immigrato indipendentemente dalla razza e dalla religione a patto che egli rispetti e accetti le nostre moderne, liberali, secolarizzate norme europee”. L’articolazione esplicita di queste norme può variare da Paese a Paese. Le controversie sul velo musulmano in così tante società europee e il sostegno schiacciante dato dalla cittadinanza francese – inclusa apparentemente la maggioranza della popolazione musulmana – alla legge che proibisce di indossare il velo islamico o di ostentare altri simboli religiosi nelle scuole pubbliche perché rappresenterebbero una “minaccia alla coesione nazionale”, può essere un estremo esempio di laicismo illiberale. Ma in realtà tendenze simili sono presenti anche nella legislazione restrittiva indirizzata agli immigrati musulmani dall’Olanda liberale per proteggere le sue tradizioni tolleranti liberali dalla minaccia di costumi illiberali, fondamentalisti e patriarcali riprodotti e trasmessi alle generazioni più giovani dagli immigrati musulmani.

Abbastanza significativamente, il Primo Ministro francese Jean-Pierre Raffarin, nel discorso al parlamento in cui difendeva il divieto di ostentare simboli religiosi nelle scuole pubbliche, ha fatto riferimento sia alla Francia, “antica terra della Cristianità”, sia all’inviolabile principio della laicità, esortando l’Islam ad adattarsi al principio della secolarizzazione come tutte le altre religioni francesi hanno fatto precedentemente. “Per coloro che sono arrivati più di recente – sto parlando dell’Islam – la secolarizzazione è un cambiamento, il cambiamento necessario per diventare una religione francese”. Il velo islamico e altri simboli religiosi sono giustamente banditi dalle scuole pubbliche – aggiungeva – perché “stanno acquistando un significato politico”, mentre secondo il principio laico della privatizzazione della religione ” la religione non può essere un progetto politico”. Il tempo dirà se la legislazione restrittiva avrà avuto l’effetto desiderato di fermare il diffondersi dell'”Islam radicale” o se avrà portato al risultato opposto di radicalizzare ulteriormente una comunità di immigrati già alienata e disadattata.

La spiegazione razionale che circola tra i liberali a sostegno di queste restrizioni illiberali al libero esercizio della religione è in genere espressa in termini di desiderabile emancipazione delle giovani ragazze – se necessario contro il loro espresso volere – dalla discriminazione di genere e dal controllo patriarcale. Questo era il discorso su cui il politico liberale Pim Fortuyn, assassinato, aveva costruito la piattaforma anti-immigrazione che gli aveva garantito il successo elettorale nell’Olanda liberale, un discorso che sta dando i suoi frutti adesso in una nuova legislazione restrittiva. Mentre ci si aspetta che i conservatori religiosi tollerino comportamenti che possono ritenere moralmente odiosi come l’omosessualità; gli europei liberali laici affermano apertamente che le società europee non devono tollerare enti religiosi o costumi culturali che risultino odiosi in quanto contrari alle norme moderne, liberali e laiche dell’Europa. Ciò che rende giustificabile l’intollerante tirannia della maggioranza liberale laica non è solo il principio democratico della regola della maggioranza, ma piuttosto l’assunzione teleologica e secolarizzata della modernizzazione che stabilisce che una serie di norme è reazionaria, fondamentalista e antimoderna, mentre l’altra è progressista, liberale e moderna.

C’è bisogno di un riferimento a dio o all’eredità cristiana nella nuova Costituzione europea o l’Europa ha bisogno di una “religione civile” secolarizzata basata sui principi dell’Illuminismo?

Diciamo subito chiaramente che le costituzioni moderne non hanno bisogno di riferimenti trascendenti e non c’è neppure una prova empirica per la tesi funzionalista secondo cui l’integrazione nelle moderne società differenziate richieda una qualche “religione civile”. In linea di massima, esistono tre modi per risolvere le dispute provocate dalla scelta delle parole nel Preambolo della nuova Costituzione europea. La prima opzione sarebbe quella di evitare qualunque controversia rinunciando completamente al progetto di tracciare un preambolo che spieghi al mondo il fondamento politico e l’identità dell’Unione Europea. Tuttavia una tale opzione sarebbe perdente in partenza dal momento che lo scopo principale della nuova Costituzione sembra essere proprio quello di contribuire all’integrazione sociale, di rafforzare l’identità comune, e di rimediare al deficit di legittimità democratica.

Una seconda alternativa sarebbe quella di elencare semplicemente i valori comuni che ottengono il consenso del pubblico europeo, affermandoli sia come verità palesi sia come fatti sociali senza entrare nel merito, controverso, di stabilirne il fondamento normativo o di tracciarne la genealogia. Questa è stata la scelta dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza negli Stati Uniti che hanno dichiarato: “Noi riteniamo che queste verità siano palesi”. Ma il forte effetto retorico di questa affermazione memorabile si fondava sul credo – dato per scontato – in un Dio Creatore che aveva donato agli uomini dei diritti inalienabili, un credo condiviso sia dai deisti repubblicani che dai protestanti e dai settari pietisti-radicali. Nel nostro contesto, post-cristiano e post-moderno, non è così semplice richiamarsi a queste verità palesi che non hanno bisogno di un fondamento discorsivo. Nel 2000, con la solenne proclamazione della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea si è tentato qualcosa di simile nel paragrafo d’apertura: “Consapevole della propria eredità spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori universali e indivisibili della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà”. Ma l’affermazione di questi valori come fatto sociale fondamentale, come quadro normativo comune condiviso dalla maggioranza degli europei, poteva difficilmente fare da fondamento a una comune identità politica europea. Essa ripeteva semplicemente dichiarazioni già presenti in quasi tutte le costituzioni nazionali europee, nella Convenzione europea sui Diritti Umani del 1950 e nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite del 1948. Senza affrontare esplicitamente la spinosa questione dell’eredità spirituale e morale dell’Europa e del suo discusso ruolo nella genesi di questi “valori universali”, è improbabile che una proclamazione del genere possa avere l’effetto desiderato di ascrivere questi valori, unicamente o almeno quasi unicamente, all’Europa.

L’ultima opzione, la più razionale, consisterebbe nell’affrontare il compito difficile e polemico di definire attraverso un dibattito pubblico aperto l’identità politica della nuova Unione Europea: chi siamo? Da dove veniamo? Cosa costituisce la nostra eredità spirituale e morale e i confini delle nostre identità collettive? Quanto flessibili all’interno e quanto aperti all’esterno dovrebbero essere questi confini? Questo sarebbe, da ogni punto di vista, un compito enormemente complesso che richiederebbe di affrontare i molti aspetti problematici e contraddittori dell’eredità europea nelle sue dimensioni intra-nazionali, inter-europeee e globali-coloniali. Ma tale compito è reso ancora più difficile dai pregiudizi laici che precludono non solo una valutazione critica onesta e razionale dell’eredità giudaico-cristiana, ma persino qualunque riferimento pubblico ufficiale alla religione che possa produrre divisioni o dimostrarsi controproducente semplicemente perché viola i postulati della secolarizzazione.


La versione integrale di questo articolo è
apparsa sulla rivista austriaca
Transit
Europäische Revue 27 (2004). Maggiori
informazioni sul sito
www.iwm.at/r-reflec.htm

Published 21 September 2004
Original in English
Translated by Martina Toti
First published by Transit 27 (2004) (German version), Caffé Europa (Italian version)

© José Casanova / Caffé Europa / Eurozine

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