Per un ampliamento del modello di democrazia

Estratto dal volume curato dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos “Democratizar a democracia. Os caminhos da democracia participativa”, Civilizacao Brasileira (RJ 2002). Il volume è il primo di 7 volumi su “globalizzazione alternativa” (Reinventare l’emancipazione sociale. Verso nuovi manifesti), con il contributo di 69 ricercatori da tutto il mondo. Ogni volume prende in esame esperienze e studi di caso da Brasile, Colombia, Mozambico, Sudafrica, India, Portogallo.

Interrogato di recente su quale fosse l’avvenimento più importante del XX secolo, Amartya Sen non esitò a rispondere: l’affermarsi della democrazia (1999:3). Dotato di una visione pessimista del XX secolo, Immanuel Wallerstein si è invece recentemente domandato come la democrazia, da aspirazione rivoluzionaria nel XIX secolo, abbia potuto trasformarsi nel XX in uno slogan universalmente adottato, ma privo di contenuto (2001:1). Queste due posizioni, anche se assai distanti tra loro, concordano nel constatare che la democrazia ha assunto un ruolo centrale in campo politico nel XX secolo. Se lo manterrà anche in questo secolo, è una questione ancora aperta.


Nel XX secolo si è effettivamente sviluppato un intenso confronto intorno alla questione della democrazia. Tale confronto, ingaggiato al termine di ciascuna delle due guerre mondiali e durante il periodo della guerra fredda, diede luogo a due dibattiti principali. Nella prima metà del secolo il dibattito si incentrò sulla desiderabilità della democrazia (Weber, 1919; Schmitt, 1926; Kelsen, 1929; Michels, 1949; Schumpeter, 1942)1 . Se, da un lato, tale dibattito si risolse a favore della desiderabilità della democrazia come forma di governo, dall’altro, la proposta che si affermò in maniera egemonica al termine delle due guerre mondiali, prevedeva una limitazione delle forme partecipative e della sovranità allargate privilegiando la formazione dei governi attraverso procedure di tipo elettorale (Schumpeter, 1942). Questa fu la forma egemonica della prassi democratica, in particolare nei paesi che abbracciarono la democrazia a seguito della seconda ondata democratizzatrice.

Un secondo dibattito permeò la discussione sulla democrazia nel secondo dopoguerra: quello sulle condizioni strutturali della democrazia (Moore, 1966; O’Donnell, 1973; Przeworski, 1985), che fu anche un dibattito sulla compatibilità o meno tra democrazia e capitalismo (Wood, 1996)2. Barrington Moore inaugurò il dibattito negli anni ’60 elaborando una tipologia in base alla quale si sarebbero potuti distinguere i paesi che avevano una propensione democratica da quelli che non l’avevano. Per Moore, un insieme di caratteristiche strutturali spiegherebbe la bassa intensità democratica della seconda metà del XX secolo: il ruolo dello Stato nel processo di modernizzazione e i suoi rapporti con le classi agrarie; il rapporto tra classi agrarie e classi urbane e il livello di rottura provocato dalle masse contadine nel corso del processo di modernizzazione (Moore, 1966). L’obiettivo di Moore era spiegare perché la maggioranza dei paesi non era democratica né poteva divenirlo senza un cambiamento delle condizioni in essi prevalenti. Nel frattempo, un secondo dibattito si veniva articolando intorno ai due requisiti strutturali della democrazia, quello sulle possibilità redistributive della democrazia. Questo dibattito partiva dal presupposto che nei diversi paesi una volta vinta la battaglia per la democrazia, assieme alla forma di governo si sarebbe affermata progressivamente una tendenza alla redistribuzione determinata dall’arrivo al potere della socialdemocrazia (Przeworski, 1985). Esisterebbe pertanto una tensione tra capitalismo e democrazia, tensione che, una volta risolta in senso democratico, limiterebbe la proprietà e comporterebbe guadagni in termini redistributivi per i settori sociali meno favoriti. Dal canto loro, i marxisti ritenevano che da tale soluzione discendesse l’assoluta impossibilità di considerare democratiche le società capitaliste nelle quali non era possibile democratizzare il rapporto fondamentale su cui si basava la produzione materiale: il rapporto tra capitale e lavoro. Fu così che nell’ambito del dibattito si prese a discutere di modelli di democrazia alternativi a quello liberale: la democrazia partecipativa, la democrazia popolare dei paesi dell’Europa dell’est, la democrazia desarrollista dei paesi di nuova indipendenza.

Nell’ultimo decennio del secolo XX la discussione sulla democrazia trasformò i termini del dibattito del dopoguerra. L’estensione del modello egemonico, liberale, all’Europa meridionale negli anni’70 e successivamente all’America latina e all’Europa dell’est (O’Donnell e Schmitter, 1986) rese superate le analisi di Moore e Przeworski. Le prospettive sulla democrazia formulate nella seconda metà del XX secolo, con le annesse discussioni sugli ostacoli strutturali alla democrazia appaiono poco attuali in un momento in cui vi sono molte decine di paesi in via di democratizzazione che presentano una enorme varietà in quanto al ruolo delle classi contadine e ai processi di urbanizzazione. Amartya Sen è tra coloro che sostengono la perdita di credibilità della tesi delle condizioni strutturali quando afferma che la questione non è sapere se un determinato paese sia preparato per la democrazia, quanto partire dall’idea che qualsiasi paese si prepara attraverso la democrazia (1999:4). Tuttavia, con lo smantellamento dello Stato sociale e il taglio delle politiche sociali verificatisi a partire dagli anni ’80, cominciarono ad apparire fallaci anche le tesi sulla irreversibilità degli effetti distributivi di autori come Przeworski e Lipset.

Si riapre così la discussione sul significato strutturale della democrazia, in particolare per i paesi cosiddetti in via di sviluppo o del sud del mondo.

Col mutare dei termini del dibattito sul significato strutturale della democrazia, affiora una seconda questione: il problema della forma della democrazia e dei suoi mutamenti. La risposta alla questione che esercitò maggiore influenza fu quella elitista formulata da Joseph Schumpeter, secondo cui il problema della costruzione della democrazia in generale era da ricondursi ai problemi incontrati nella costruzione della democrazia in Europa nel periodo tra le due guerre. Su tale risposta si fonda quella che potremmo chiamare la concezione egemonica della democrazia. Elementi principali di tale concezione sarebbero la tanto dibattuta contraddizione tra mobilitazione e istituzionalizzazione (Huntington, 1968; Germani, 1971); la valutazione positiva della apatia politica (Downs, 1956), un’idea sottolineata con vigore da Schumpeter secondo il quale il cittadino comune non possedeva altra capacità o interesse politico se non quello di scegliere i leader destinati a prendere le decisioni (1942:269); l’incentrare il dibattito sulla democrazia sulla questione dei sistemi elettorali (Lijphart, 1984); l’interpretazione del pluralismo come incorporazione di partiti e lotta tra élites (Dahl, 1956; 1971) e la soluzione minimalista del problema della partecipazione attraverso la discussione sulle scale di grandezza e sulla complessità (Bobbio, 1986; Dahl, 1991). Tutti questi elementi, che potrebbero essere indicati come costituenti di una concezione egemonica della democrazia, non riescono ad affrontare adeguatamente il problema della qualità della democrazia, riportato a galla dalla cosiddetta “terza ondata di democratizzazione”. Quanto più si insiste sulla formula classica di democrazia a bassa intensità, meno si riesce a spiegare il paradosso che ha visto l’estensione della democrazia accompagnarsi all’enorme degrado della prassi democratica. Ossia, l’espansione globale della democrazia liberale è venuta a coincidere con l’entrata in crisi di quest’ultima nei paesi centrali dove era maggiormente consolidata; una crisi che come è noto presenta due patologie: quella della partecipazione, vista la crescita preoccupante dell’astensionismo, e quella della rappresentanza, visto che i cittadini si sentono sempre meno rappresentati da coloro che eleggono. Al tempo stesso, la fine della guerra fredda e l’intensificarsi dei processi di globalizzazione hanno portato a riesaminare il problema dell’omogeneità della prassi democratica.

Nel dibattito attuale si guarda con maggiore interesse alle variazioni nella prassi democratica, abbandonando la contrapposizione tipica dell’epoca della guerra fredda tra democrazie popolari e democrazie liberali. Al tempo stesso e paradossalmente, il processo di globalizzazione3dà nuova enfasi alla democrazia locale e alle variazioni della forma democratica all’interno dello Stato nazionale, consentendo il recupero delle tradizioni partecipative in paesi come Brasile, India, Mozambico e Sudafrica, per limitarci ai paesi oggetto di studio nell’ambito del presente progetto. Possiamo dunque segnalare una triplice crisi della spiegazione tradizionale della democrazia: in primo luogo è in crisi il quadro strutturale di spiegazione della possibilità della democrazia (Moore, 1966); in secondo luogo, è in crisi la spiegazione omogeneizzante della forma democratica scaturita dai dibattiti del periodo fra le due guerre (Schumpeter, 1942) e, in terzo luogo, vi è una nuova propensione a prendere in considerazione la democrazia locale e la possibilità di variazioni all’interno degli Stati nazionali a partire dalle tradizioni partecipative messe in ombra dal processo di costruzione di identità nazionali omogenee (Anderson, 1991).

Con la presente introduzione si intende fare un ulteriore passo in avanti, dimostrando che il dibattito sulla democrazia durante il XX secolo si è limitato a due forme complementari di egemonia4: la prima, si basa sull’ipotesi che vede la soluzione del dibattito europeo del periodo tra le due guerre nell’abbandono della mobilitazione sociale e dell’azione collettiva nella costruzione della democrazia (Huntington, 1969); la seconda, è quella secondo cui la soluzione elitista del dibattito sulla democrazia, con la conseguente sopravvalutazione del ruolo dei meccanismi rappresentativi, potrebbe risultare egemonica senza dover combinare questi ultimi con meccanismi societari di partecipazione (Manin, 1997).In entrambi i casi, la forma egemonica di democrazia, la democrazia rappresentativa elitista, propone di estendere al resto del mondo il modello di democrazia liberal-rappresentativo vigente nelle società dell’emisfero nord, ignorando nel dibattito sulla democrazia le esperienze e le discussioni dei paesi del sud. A partire da una ricostruzione del dibattito sulla democrazia della seconda metà del XX secolo, qui si intende proporre un percorso antiegemonico, recuperando ciò che nelle discussioni di tale periodo è rimasto tra le righe.

La concezione egemonica della democrazia nella seconda metà del xx secolo

Il dibattito sulla democrazia nella seconda metà del XX secolo è stato caratterizzato dallo scontro tra due concezioni del mondo e del rapporto con la modernizzazione dell’Occidente. Da un lato, la concezione che C.B. MacPherson battezzò come liberaldemocratica (MacPherson 1966) e dall’altro una concezione marxista della democrazia che vedeva nell’autodeterminazione del mondo del lavoro l’elemento centrale del processo di esercizio della sovranità da parte dei cittadini intesi come individui-produttori (Pateman, 1970). Da questo scontro scaturirono all’interno della teoria della democrazia le concezioni egemoniche che dominarono nella seconda metà del XX secolo. Tali concezioni si caratterizzano per le risposte date a tre questioni: quella del rapporto tra procedura e forma; quella del ruolo della burocrazia nella vita democratica; e quella della inevitabilità della rappresentazione nelle democrazie su grande scala. Lasciatemi esaminare in dettaglio ognuna di queste risposte.

La democrazia formale e non sostanziale costituisce la risposta data dalla teoria democratica egemonica alle critiche contro la democrazia sollevate dai marxisti (Marx, 1871; Lenin, 1917). Hans Kelsen formulò la questione in termini neo-kantiani già nella prima metà del XX secolo. Per Kelsen il punto centrale era criticare l’idea che la democrazia corrispondesse ad un insieme determinato di valori e ad una unica forma di organizzazione politica:

coloro che ritengono che la verità assoluta e i valori assoluti siano inaccessibili alla conoscenza umana, devono ritenere ammissibile non solo la propria opinione, ma anche quella altrui. Perciò il relativismo è la concezione del mondo che l’idea di democrazia presuppone…La democrazia dà ad ogni convinzione politica la stessa possibilità di esprimersi e di giungere al cuore degli uomini attraverso la libera concorrenza. Perciò il procedimento dialettico adottato dall’assemblea popolare o dal parlamento nell’elaborazione delle norme, procedimento che si sviluppa attraverso discussioni e repliche, è stato giustamente definito democratico (Kelsen, 1929:105-6) (trad.provvisoria).

In una sua prima formulazione, il proceduralismo kelseniano cercò di articolare il relativismo morale con dei metodi per la risoluzione delle controversie, attraverso sia il parlamento sia altre forme più dirette di espressione (Kelsen, 1929:142). Questo relativismo morale prefigurava la riduzione del problema dalla questione della legittimità a quella della legalità, riduzione che fu ispirata a Kelsen da una lettura errata di Weber. Toccò a due autori, Joseph Schumpeter e Norberto Bobbio, trasformare nel periodo tra le due guerre e nell’immediato dopoguerra l’elemento proceduralista della dottrina kelseniana della democrazia in una forma di elitismo democratico.

Il punto di partenza di Schumpeter è lo stesso elemento da cui sarebbe partita la riflessione politica di Bobbio: la discussione dell’idea di una sovranità popolare forte associata ad un contenuto sociale proposto dalla dottrina marxista. Schumpeter critica tale elemento formulando nel suo testo classico, Capitalismo, socialismo e democrazia, la seguente domanda: è possibile che il popolo governi? La risposta di Schumpeter è chiara e comporta uno sviluppo dell’argomento proceduralista. Secondo tale autore, non si può intendere la sovranità popolare come una presa di posizione razionale da parte della popolazione o di ciascun individuo riguardo ad una determinata questione. Pertanto, l’elemento procedurale della democrazia non è più la forma con cui il processo decisionale rimanda alla sovranità popolare. Per Schumpeter il processo democratico è esattamente l’opposto: “un metodo politico, ossia, un certo tipo di accordo istituzionale che consente di pervenire alle decisioni politiche e amministrative” (Schumpeter, 1942: 242). In tal modo Schumpeter prende una questione procedurale, con le regole decisionali, e la trasforma in un metodo per la formazione dei governi. Il motivo per cui la partecipazione è esclusa da tale processo non appartiene all’argomento procedurale, ma piuttosto ad una teoria della società di massa che Schumpeter immette di contrabbando nella discussione sulla questione procedurale5 .

Norberto Bobbio fa un ulteriore passo e trasforma il proceduralismo in regole per la formazione di un governo rappresentativo. Per tale autore, la democrazia consta di un insieme di regole per la formazione di maggioranze, tra le quali va sottolineato il peso uguale dei voti e l’assenza di distinzioni economiche, sociali, religiose ed etniche nella costituzione dell’elettorato (Bobbio, 1979). Va quindi osservato che la prima via che conduce all’affermazione della concezione egemonica della democrazia nel dopoguerra è quella che dal pluralismo delle valutazioni giunge alla riduzione della sovranità e, successivamente, al passaggio da una discussione ampia sulle regole del gioco democratico all’identificazione della democrazia con le regole del processo elettorale. In nessun momento dell’itinerario che va da Kelsen a Schumpeter e Bobbio appare chiaro perché il proceduralismo non contempli forme allargate di democrazia6 . Al contrario, la riduzione del proceduralismo ad un processo di elezione delle élites sembra essere un postulato ad hoc della teoria egemonica della democrazia, un postulato incapace di offrire una soluzione convincente a due questioni fondamentali, ovvero se le elezioni esauriscano o meno la procedura di autorizzazione da parte dei cittadini e se le procedure rappresentative diano una risposta esauriente alla questione della rappresentanza della differenza . Torneremo su tali punti in seguito quando discuteremo delle nuove forme procedurali partecipative emerse nei paesi del sud.

Una seconda discussione fondamentale per il consolidamento della concezione egemonica della democrazia, fu quella attraverso la quale la questione della burocrazia e della sua indispensabilità venne messa al centro della teoria della democrazia. L’origine di questo dibattito rimonta anch’essa al periodo tra le due guerre e al dibattito tra liberalismo e teoria marxista. Max Weber inaugurò questa corrente di critica della teoria classica mettendo al centro del dibattito di inizio secolo l’inevitabile perdita di controllo sul processo decisionale politico ed economico da parte dei cittadini e il crescente controllo su di esso da parte di diverse forme di organizzazione burocratica. Il motivo principale per cui non prevalse l’idea di Rousseau di una gestione partecipativa fu l’emergere di forme complesse di amministrazione statale che portarono al consolidarsi di burocrazie specializzate nella maggior parte dei settori gestiti dallo Stato moderno. Per Weber, “la separazione del lavoratore dai mezzi materiali di produzione, distruzione, amministrazione, ricerca accademica e da quelli finanziari costituisce in generale la base comune dello Stato moderno nelle sue sfere politica, culturale e militare”(Weber, 1978, II:1394) (trad.provvisoria). La posizione di Weber, che si confronta direttamente con le tesi formulate da Marx ne La guerra civile in Francia, è un tentativo di dimostrare che la nascita della burocrazia non va ricondotta all’organizzazione di classe della società capitalista e che non è un fenomeno limitato alla sfera della produzione materiale. Per Weber, la burocrazia è legata alla nascita e allo sviluppo dello Stato moderno e la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione costituisce un fenomeno generale ed esteso, che non riguarda solo i lavoratori, ma anche i militari, i ricercatori scientifici e tutti gli individui impegnati in attività complesse nel campo dell’economia e dello Stato. Weber, tuttavia, non intendeva associare il realismo sociologico alle aspirazioni politiche. Al contrario, per Weber, il fenomeno della complessità creava problemi al funzionamento della democrazia in quanto creava una tensione tra sovranità crescente, ovvero il controllo del governo da parte dei governati, e sovranità decrescente, ovvero il controllo dei governati da parte della burocrazia. Di qui il pessimismo di Weber di fronte al duplice manifestarsi della “gabbia di ferro” del “mondo amministrativo” e del pericolo di azioni emotive e passionali a favore di nuovi poteri carismatici.

Durante la seconda metà del XX secolo, la discussione sulla complessità e l’inevitabilità della burocrazia acquistò spessore di pari passo con l’ampliarsi delle funzioni dello Stato a seguito dell’istituzione del welfare state nei paesi europei (Esping-Anderson, 1990; Shonfield, 1984). Con l’ampliamento delle funzioni dello Stato legate al benessere sociale, la discussione sull’importanza della crescita della burocrazia cambiò tono e acquistò una connotazione positiva (fatta eccezione per l’opera di Michel Foucault). Nel campo della teoria democratica Norberto Bobbio è ancora una volta l’autore che ha sintetizzato il cambiamento di prospettiva rispetto alla sfiducia weberiana verso l’aumento della capacità di controllo della burocrazia sull’individuo moderno. Per Bobbio,

via via che le società sono passate da un’economia familiare ad un’economia di mercato, da un’economia di mercato ad un’economia protetta, regolata, pianificata, sono aumentati i problemi politici che richiedono competenze tecniche. I problemi tecnici richiedono esperti, uno stuolo sempre più ampio di personale specializzato…Tecnocrazia e democrazia sono antitetiche: se il protagonista della società industriale è l’esperto non può essere il cittadino qualunque.
(Bobbio, 1986: 23).

Ossia , Bobbio radicalizza l’argomento weberiano lì dove afferma che il cittadino, nel momento in cui fa la sua scelta a favore del consumo di massa e dello Stato del benessere sociale, sa che sta cedendo il controllo che esercitava sulle attività politiche ed economiche a favore delle burocrazie pubbliche e private. Tuttavia, una questione non sembra essere stata risolta dai teorici che sostengono la sostituzione dei meccanismi di esercizio della sovranità da parte dei cittadini con un maggior controllo della burocrazia sulla politica. Si tratta dello scetticismo sulla capacità delle forme burocratiche di gestione di confrontarsi con la creatività e di assorbire l’insieme delle informazioni relative alla gestione pubblica (Domingues, 1997; Fung, 2002). Le forme burocratiche descritte da Weber e Bobbio sono monocratiche per il modo in cui gestiscono il personale amministrativo e promuovono soluzioni omogeneizzanti per qualsiasi problema si presenti in ciascuna giurisdizione. Ossia, la concezione tradizionale della gestione burocratica auspica una soluzione omogenea per ogni problema, ad ogni livello di gestione, nell’ambito di una giurisdizione amministrativa. Tuttavia, i problemi amministrativi esigono sempre più soluzioni plurali che prevedono il coordinamento di gruppi diversi e soluzioni diverse all’interno di una stessa giurisdizione (Sabel, 1997). La conoscenza detenuta dagli attori sociali diviene così un elemento centrale non appropriabile dalle burocrazie al fine di risolvere problemi di gestione. Al tempo stesso, diventa sempre più chiaro che le burocrazie centralizzate non sono in grado di aggregare o di tener testa all’insieme delle informazioni necessarie all’attuazione di politiche complesse nei campi sociale, ambientale o culturale (Sabel et al., 1999). In ciò risiederebbe il motivo della reintroduzione nel dibattito sulla democrazia dei cosiddetti “meccanismi partecipativi”.

Vi è poi un terzo elemento che fa parte della concezione egemonica della democrazia, ovvero la convinzione che la rappresentazione costituisca l’unica soluzione possibile nelle democrazie su grande scala al problema dell’autorizzazione. Robert Dahl è stato nel dopoguerra uno dei più accesi sostenitori di questa tesi. A suo giudizio

Quanto più una unità democratica ha dimensioni ridotte, tanto maggiore è il potenziale di partecipazione dei cittadini e tanto minore per essi la necessità di delegare le decisioni di governo ai propri rappresentanti. Quanto più ampia è l’unità, tanto minore è la capacità di affrontare i problemi rilevanti per i cittadini e tanto maggiore la necessità per essi di delegare decisioni ai propri rappresentanti (Dahl, 1998:110) (trad.provvisoria).

La giustificazione del meccanismo rappresentativo da parte della teoria egemonica della democrazia si fonda sulla questione dell’autorizzazione. Due sono i pilastri principali su cui riposa l’argomento dell’autorizzazione: il primo riguarda il problema del consenso dei rappresentanti ed è sorto all’interno della teoria classica in opposizione al processo decisionale basato sulla rotazione proprio delle forme di democrazia diretta (Manin, 1997). D’accordo con tale concezione, l’esercizio diretto della gestione, tipico delle antiche città-stato o delle repubbliche italiane, comportava una mancanza di autorizzazione, sostituita dall’idea del pari diritto a ricoprire incarichi politici a livello decisionale. Man mano che l’idea del consenso emerge dai dibattiti su una teoria razionale della politica, il sorteggio, proprio delle forme repubblicane di decisione, cessa di avere senso ed è sostituito dall’idea del consenso7 , ossia da un qualche meccanismo razionale di autorizzazione.

La seconda forma di giustificazione della questione della rappresentanza rimanda a Stuart Mill e alla questione della capacità delle forme rappresentative di esprimere la varietà delle opinioni in seno alla società. Per Mill, l’assemblea costituisce una miniatura dell’elettorato ed ogni assemblea rappresentativa è in grado di esprimerne le tendenze dominanti. Questo approccio ha portato la teoria egemonica della democrazia a concentrarsi sul ruolo dei sistemi elettorali nella rappresentanza dell’elettorato (Lijphart, 1984). La concezione egemonica della democrazia, legando il problema della rappresentazione unicamente a quello delle scale di grandezza, ignora che la rappresentazione riguarda almeno tre dimensioni: quella dell’autorizzazione, quella dell’identità e quella della rendicontazione (introdotta solo molto recentemente nel dibattito sulla democrazia). Se è vero che l’autorizzazione attraverso la rappresentazione facilita l’esercizio della democrazia su vasta scala, come sostiene Dahl, è anche vero che la rappresentazione non facilita la soluzione delle altre due questioni: la rendicontazione e la rappresentazione delle identità molteplici. Poiché le decisioni sono prese a maggioranza, il sistema rappresentativo non offre alle identità minoritarie garanzie di adeguata espressione in parlamento; la rappresentazione, diluendo la rendicontazione in un processo di ri-presentazione del rappresentante all’interno di un pacchetto di questioni ostacola a sua volta la disaggregazione del processo di rendicontazione (Arato, 2000; Przeworski et al., 1999:32). Arriviamo così ad un terzo limite della teoria egemonica: la difficoltà di rappresentare agende e identità specifiche. Torneremo su questo punto nella parte finale della presente introduzione.

È evidente, pertanto, che nel momento in cui al termine della guerra fredda il dibattito sulla democrazia si riapre e il processo di globalizzazione si intensifica, la teoria egemonica della democrazia deve affrontare un insieme di questioni irrisolte che rimandano al dibattito tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. Tali questioni si presentano in forma più acuta in quei paesi dove esiste una maggiore diversità etnica, tra i gruppi che hanno maggiori difficoltà a vedere riconosciuti i propri diritti (Benhabib, 1996; Young, 2000) e nei paesi in cui la diversità di interessi si scontra col particolarismo delle élites economiche (Bóron, 1994). Nel capitolo seguente cercheremo di recuperare ciò che definiremo come una “concezione non egemonica della democrazia”, tentando di mostrare come sia possibile articolare in un’ottica differente i problemi segnalati nel presente capitolo.

Le concezioni non egemoniche della democrazia nella seconda metà del xx secolo

Il periodo del dopoguerra non ha visto solo la nascita e il consolidamento dell’elitarismo democratico. Accanto ad una concezione egemonica della democrazia intesa come prassi ristretta alla legittimazione dei governi, nel dopoguerra sorse anche un insieme di concezioni alternative che potremmo definire antiegemoniche. La maggioranza di tali teorie non ruppe col proceduralismo kelseniano. Esse mantennero la risposta proceduralista al problema della democrazia, vincolando la procedura al modo di vita e interpretando la democrazia come una forma di perfezionamento della convivenza umana. Secondo questa concezione, che si può ritrovare nell’opera di autori come Lefort, Castoriadis e Habermas, nei paesi del nord (Lefort, 1986; Castoriadis, 1986; Habermas, 1984; Habermas, 1995) e Lechner, Nun e Bóron nei paesi del sud (Lechner,1988; Bóron, 1994; Nun, 2000), la democrazia è una grammatica dell’organizzazione della società e del rapporto tra lo Stato e la società:

la democrazia si rivela così come la società storica, per eccellenza, la società che proprio per la sua forma accoglie e conserva l’indeterminatezza, in notevole contrasto col totalitarismo che, edificandosi sotto il segno della creazione dell’uomo nuovo, nella pratica si adopera contro tale indeterminatezza (Lefort, 1986:31) (trad.provvisoria).

Si può pertanto osservare che la preoccupazione che sta all’origine delle concezioni non egemoniche della democrazia è la stessa che sta all’origine della concezione egemonica, solo che ad essa viene data una risposta diversa. Si tratta di rifiutare le concezioni basate sulla razionalità e le forme omogeneizzatrici di organizzazione della società, riconoscendo la pluralità umana. Tuttavia, il riconoscimento della pluralità umana non è possibile solo a partire dalla rinuncia all’idea di bene comune, come suggeriscono Schumpeter, Downs e Bobbio, ma anche a partire da due criteri diversi: dare rilievo alla creazione di una nuova grammatica sociale e culturale e conciliare l’innovazione sociale articolata con l’innovazione istituzionale, ossia con la ricerca di nuove istituzioni democratiche. In seguito svilupperemo entrambi gli aspetti.

Il problema della democrazia nelle concezioni non egemoniche è strettamente legato al riconoscimento del fatto che la democrazia non costituisce un mero incidente o una semplice opera di ingegneria istituzionale. La democrazia è una nuova grammatica storica. Non si tratta in questo caso, come per Barrington Moore, di individuare le caratteristiche strutturali per la costruzione di questa nuova grammatica. Si tratta piuttosto di comprendere che la democrazia è una forma socio-storica e che tali forme non sono determinate da nessun tipo di legge naturale. Esplorando questo filone, Castoriadis ci fornisce alcuni elementi per elaborare una critica della concezione egemonica della democrazia: “oggi alcuni danno per scontate la democrazia e l’investigazione razionale, proiettando così ingenuamente la situazione eccezionale della loro società sulla storia nel suo complesso” (Castoriadis, 1986:274) (trad.provvisoria). La democrazia in questo senso implica sempre una rottura con le tradizioni vigenti e, pertanto, un tentativo di dar luogo a nuove determinazioni, nuove norme e nuove leggi. È questa l’indeterminatezza prodotta dalla grammatica democratica, e non solo quella relativa a chi sarà il prossimo ad occupare una posizione di potere8 .

Pensare la democrazia come rottura positiva della traiettoria di una società, implica che si affrontino gli elementi culturali della società stessa. Ci si offre così ancora una volta l’occasione per discutere del proceduralismo e delle sue dimensioni societarie. Nel campo delle teorie antiegemoniche, Jürgen Habermas è stato l’autore che ha preparato il terreno perché il proceduralismo fosse pensato come prassi sociale e non come metodo per la formazione dei governi. Habermas ampliò il proceduralismo, reintroducendo la dimensione sociale originariamente messa in risalto da Kelsen, offrendo al dibattito contemporaneo sulla democrazia due elementi; in primo luogo, una dimensione pubblica capace di dar vita ad una grammatica societaria. Per Habermas, la sfera pubblica è uno spazio in cui gli individui, donne neri lavoratori minoranze razziali, possono mettere in questione pubblicamente9 una situazione di disuguaglianza che attiene alla sfera privata. Agire in pubblico permette agli individui di mettere in questione la loro esclusione dagli accordi politici attraverso un processo societario di deliberazione che Habermas chiama il principio D: “sono valide solo quelle norme-azioni che godono del consenso di tutti gli individui capaci di raziocinio” (Habermas, 1995) (trad.provvisoria). Postulando un principio deliberativo ampio, Habermas reintroduce nella discussione sulla democrazia un proceduralismo sociale e partecipativo e indica una svolta nel cammino che aveva condotto da Kelsen a Schumpeter e a Bobbio. Secondo tale concezione, il proceduralismo trae origine dalla pluralità dei modi di vita esistenti nelle società contemporanee. Per essere plurale, la politica deve contare sul consenso di tali attori nei processi razionali di discussione e deliberazione. Pertanto il proceduralismo democratico non può essere, come ipotizza Bobbio, un metodo di autorizzazione dei governi. Esso deve essere, come ci indica Joshua Cohen, una forma di esercizio collettivo del potere politico che si basi sulla libera esposizione di argomenti tra eguali (Cohen, 1997:412). In tal modo il recupero di un discorso sull’argomentazione (Santos, 2000) associato all’elemento fondamentale del pluralismo e alla diversità di esperienze, è un elemento della riconciliazione tra proceduralismo e partecipazione. In questo caso le procedure di aggregazione proprie della democrazia rappresentiva appaiono manifestamente insufficienti, mentre emergono le esperienze di proceduralismo partecipativo dei paesi del sud, come il bilancio partecipativo in Brasile o l’esperienza dei Panchayats in India.

Vi è poi un secondo elemento di estrema importanza da discutere, il ruolo dei movimenti sociali nella istituzionalizzazione della diversità culturale. Tale questione, già sollevata nella critica della teoria egemonica da parte di Lefort e Castoriadis, emergerà più chiaramente nel dibattito sulla democrazia a partire dalla teoria dei movimenti sociali. A partire da Williams (1981), per il quale la cultura costituisce una delle dimensioni di ogni istituzione economica, sociale e politica, diversi autori hanno sostenuto nell’ambito della teoria dei movimenti sociali che la politica comporta una disputa su un insieme di significati culturali. Ciò ha portato ad un ampliamento della sfera politica nella quale si svolgerebbe una disputa per la ri-significazione delle prassi (Alvarez, Dagnino e Escobar, 1998). I movimenti sociali sarebbero parte di un movimento finalizzato all’ampliamento della sfera politica, alla trasformazione delle prassi dominanti, all’allargamento della cittadinanza e all’inserimento nella politica di attori sociali esclusi. La letteratura sulla ri-significazione delle prassi democratiche ha avuto un impatto di particolare rilievo nella discussione sulla democrazia in America Latina, dove è stata associata al problema della trasformazione della grammatica sociale. Lechner, in relazione ai processi di democratizzazione in corso afferma che

in America Latina, l’attuale rivalutazione delle procedure e delle istituzioni formali della democrazia non può far conto su abitudini consolidate e norme riconosciute da tutti. Non si tratta di restaurare delle norme procedurali, ma di creare quelle costitutive dell’attività politica: la transizione esige l’elaborazione di una nuova grammatica (Lechner, 1988:32).

In tal modo, per diversi paesi del sud, il ritorno alla democrazia non passò attraverso la sfida dei limiti strutturali, come ipotizzava la discussione sulla democrazia degli anni ’60. La democratizzazione, attraverso l’inserimento di nuovi attori nella scena politica, aprì un confronto sul significato della democrazia e sulla costruzione di una nuova grammatica sociale. Sollevando una disputa di questo tipo, l’ampliamento della democrazia che iniziò nell’Europa del sud negli anni ’70 e raggiunse l’America Latina negli anni ’80, rimise all’ordine del giorno della discussione sulla democrazia le tre questioni sopra ricordate.

In primo luogo riportò al centro del dibattito sulla democrazia la questione del rapporto tra procedura e partecipazione sociale. Grazie alla grande partecipazione ai movimenti sociali nei paesi del sud, soprattutto in America Latina (Escobar e Alvarez, 1992; Alvarez, Dagnino e Escobar, 1998; Doimo, 1995; Jelin e Herschberg, 1996; Avritzer, 2002), il problema della costruzione di una grammatica sociale capace di trasformare le relazioni di genere, di razza, di etnia e l’appropriazione privata delle risorse pubbliche, mise all’ordine del giorno il problema della necessità di una nuova grammatica sociale e di un nuovo tipo di rapporto tra Stato e società. Tale grammatica comportò l’introduzione di sperimentazioni nella sfera stessa dello Stato, trasformando quest’ultimo in un nuovissimo movimento sociale (Santos, 1998:59-74).

In secondo luogo, l’aumento della partecipazione sociale portò anche a un ripensamento sull’adeguatezza della soluzione non partecipativa e burocratica a livello locale, riportando il problema della scala di grandezza all’interno del dibattito sulla democrazia. Nella maggior parte dei paesi del sud di recente democratizzazione, il successo delle esperienze partecipative è legato alla capacità degli attori sociali di trasferire prassi e informazioni dal livello sociale a quello amministrativo. Al tempo stesso, le innovazioni istituzionali che sembrano aver avuto successo nei paesi del sud, sono legate a ciò che Castoriadis definisce l’instaurazione di un nuovo eidos, ovvero di una nuova forma politica basata sulla creatività degli attori sociali.

In terzo luogo, vi è il problema del rapporto tra rappresentazione e diversità culturale e sociale. All’aumentare del numero degli attori coinvolti nella politica, la diversità etnica e culturale degli attori sociali e degli interessi oggetto di accordi politici, l’argomento di Stuart Mill sulla rappresentatività perde di credibilità. I gruppi più vulnerabili socialmente, i settori sociali meno favoriti e le etnie minoritarie non riescono a far sì che i loro interessi siano rappresentati nel sistema politico con la stessa facilità dei settori maggioritari o economicamente più prosperi. Ugualmente, forme di relativizzazione della rappresentanza (Young, 2000) o di articolazone tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa (Santos, 1998) appaiono più promettenti in quanto alla tutela di interessi ed identità subalterni.

Per queste ragioni, la democrazia partecipativa è considerata nell’ambito della presente indagine uno dei cinque campi sociali e politici in cui, all’inizio del nuovo secolo, si sta reinventando l’emancipazione sociale. Nel capitolo successivo illustreremo una sintesi dei casi studiati nel presente progetto.

La democrazia partecipativa nel sud nel xxi secolo

La reinvenzione della democrazia partecipativa nei paesi del sud è intimamente legata ai recenti processi di democratizzazione in essi in atto. Stiamo pertanto parlando di paesi che nella logica egemonica del periodo successivo alla seconda guerra mondiale non appartenevano al cosiddetto campo democratico. Nonostante la seconda guerra mondiale si fosse conclusa con la sconfitta del fascismo, tale sistema di governo continuò a predominare nei paesi dell’Europa del sud fino agli anni ’70, specialmente in Portogallo dove restò in vigore per quarantotto anni. Fino al 1975 il Mozambico è vissuto sotto il giogo coloniale e il Sudafrica è rimasto fino alla fine degli anni’80 sotto il regime dell’apartheid. Brasile e Colombia hanno fatto parte per qualche tempo, anche se in maniera molto ambigua, del campo democratico: il Brasile alternando periodi autoritari e periodi democratici fino al 1985 e la Colombia vivendo, a partire dagli anni ’60, una democrazia interrotta ripetutamente dallo stato di emergenza e dalla guerra civile. Fa eccezione l’India, l’unico dei paesi studiati che è rimasto democratico durante tutto il periodo, interrotto solo dalla dichiarazione dello stato di emergenza nel 1977. Ciononostante è solo con la cosiddetta “terza ondata di democratizzazione” che esperienze come quelle del Kerala sono divenute possibili.

Tutti i paesi inseriti nel presente progetto hanno attraversato periodi di trasizione o di ampliamento della democrazia a partire dagli anni ’70. Il Portogallo è uno dei paesi in cui la cosiddetta terza ondata di democratizzazione è iniziata già negli anni ’70. Brasile e Sudafrica sono stati raggiunti da tale ondata negli anni’80 e ’90, come anche il Mozambico, passato per l’esperienza rivoluzionaria e socialista nel primo decennio successivo all’indipendenza. La Colombia ha seguito un cammino diverso: pur non avendo avuto un regime autoritario militare, al contrario della maggioranza degli altri paesi dell’America Latina, questo paese si è impegnato all’inizio degli anni ’90 in un ampio negoziato sociale da cui sono scaturite una nuove costituzione e una legge sulla partecipazione dei cittadini. L’India può essere considerata tra i paesi del sud, quello con la maggiore continuità democratica; anche se alcuni degli importanti processi di democrazia partecipativa in atto nel paese sono legati al decentramento e a tradizioni di partecipazione localmente differenziate riscattate di recente.

In ogni caso, assieme all’ampliamento della democrazia o alla sua restaurazione, si è verificato un processo di ridefinizione del suo significato culturale o della grammatica sociale vigente. Così tutti i casi di democrazia partecipativa studiati cominciano col tentativo di discutere il significato di determinate prassi politiche, di ampliare la grammatica sociale e di incorporare nuovi attori o nuovi temi nella politica. Nel caso del Portogallo, Arriscado e Serra mostrano come durante la crisi rivoluzionaria attraversata dal paese dopo la caduta del regime autoritario, il Saal abbia ridefinito l’idea dei diritti e delle condizioni di alloggio, creando il cosiddetto “diritto alla casa”. Durante il processo brasiliano di democratizzazione e costituzione di attori comunitari è nata in modo simile l’idea del “diritto ad avere diritti” (Sader, 1988; Dagnino, 1994) come parte della ridefinizione dei nuovi attori sociali. La stessa ridefinizione è rintracciabile in molti dei casi citati nel presente volume: nel caso della marcia dei cocaleros (contadini coltivatori e raccoglitori di coca) in Colombia, Ramirez osserva come la lotta contro la fumigazione delle piantagioni esprima un tentativo da parte dei contadini della regione amazzonica di ottenere, in un contesto caratterizzato dalla violenza esterna, il riconoscimento di una identità alternativa a quella cucita loro addosso dallo Stato. Considerati dallo Stato come narcotrafficanti e simpatizzanti della guerriglia, i contadini chiedono di essere riconosciuti come attori sociali indipendenti e come cittadini della nazione e di Putumayo, identificando la propria condizione di cittadini con una politica di sradicamento volontario della coca da negoziare col governo colombiano. Clêmencia Ramirez mostra come tale movimento abbia comportato l’associazione della cittadinanza ad una definizione di vincolo. Chiedendo tale riconoscimento “si cerca di ottenere nei confronti dello Stato una rappresentazione in quanto gruppo differenziato che ha diritto di decidere assieme ad esso le politiche relative al benessere degli abitanti di Putumayo”. Sempre in Colombia, Uribe mostra come San Jose de Apartadó, con la creazione dello status di “comunità di pace”, rivendichi la legittimità di una autorappresentazione alternativa a quella attribuitagli sia dallo Stato che dagli attori violenti (guerriglia e paramilitari). Osorio, a sua volta, segnala le diverse strategie di negoziazione delle donne mozambicane al fine di inserirsi in un gioco politico dominato dagli uomini. Secondo tale autrice, nel contesto di uno Stato postcoloniale che tenta di definire dal di fuori una identità di donna “moderna”, si afferma la costruzione sociale di un’identità femminile che porta a “una appropriazione differenziata delle finalità dell’azione politica” anche quando uomini e donne fanno parte della stessa organizzazione politica. La stessa concezione dell’identità si può ritrovare nei casi dell’India e del Sudafrica. D.L.Sheth mostra come l’egemonia del modello di democrazia liberale in India non abbia impedito l’emergere di movimenti sociali animati da idee partecipative e da principi di solidarietà sociale interpretati alla luce di una concezione gandhiana di autogoverno (swaraj). Buhlungu sottolinea la potenza delle nuove forme di solidarietà e identità sorte durante il decennio tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 a partire dalla lotta contro l’apartheid in Sudafrica di cui sono stati protagonisti due forti attori collettivi: il movimento civico e il movimento sindacale.

È così possibile dimostrare che nonostante le molte differenze esistenti, vi è qualcosa che unisce i processi politici analizzati, un tratto comune che rimanda alla teoria antiegemonica della democrazia: gli attori che hanno realizzato l’esperienza della democrazia partecipativa hanno messo in discussione l’identità loro attribuita dall’esterno da uno Stato coloniale o da uno Stato autoritario e discriminatore. Rivendicare il diritto all’alloggio (Portogallo), il diritto alla distribuzione locale di beni pubblici (Brasile), diritti di partecipazione e di rivendicazione del riconoscimento della differenza (Colombia, India, Mozambico, Sudafrica) comporta mettere in discussione una grammatica sociale e statale di esclusione e proporne in alternativa un più inclusiva.

Ciò che è in gioco in tali processi è la costituzione di un ideale partecipativo e inclusivo come parte dei progetti di liberazione dal colonialismo (India, Mozambico e Sudafrica) o di democratizzazione (Portogallo, Brasile e Colombia). In India si è avuto un movimento per l’indipendenza molto influenzato dalla filosofia e dalla pratica di Gandhi, che conteneva in embrione l’affermazione di un progetto autonomo di paese. Come afferma Sheth, questo movimento di liberazione nelle sue versioni gandhiana, ma anche socialista e comunista, comportava un vasto progetto di inclusione delle masse indiane, un movimento che portò ad una nuova costituzione che venne intesa non solo come un documento di organizzazione politica bensì anche come “un’agenda per la trasformazione sociale e politica di un’India indipendente”. In tale agenda era fortemente presente l’idea della partecipazione e dell’inclusione politica delle caste tribali povere ed emarginate. Buhlungu ci presenta un’agenda simile nel caso del Sudafrica, dato che la lotta contro l’apartheid era ispirata da un ideale partecipativo che rivendicava simultaneamente la pari cittadinanza e il riconoscimento della differenza. Per Buhlungu, ogni movimento emancipatorio “ispira una visione di libertà o di liberazione che a sua volta contiene la promessa di una forma di democrazia partecipativa e inclusiva”. Nel caso del Mozambico l’istituzionalizzazione della democrazia liberale era avvenuta sulle macerie di una esperienza rivoluzionaria dominata da ideali di partecipazione, che nella pratica furono però spesso schiacciati dall’autoritarismo rivoluzionario e dalla dominazione sessista. I movimenti postcoloniali trovano pertanto un tratto comune nella importanza della democrazia partecipativa. Essa è importante perché, come ci dice Castoriadis, crea una normatività postcoloniale immaginaria in cui la democrazia, come progetto di inclusione sociale e di innovazione culturale, è il tentativo di istituire una nuova sovranità democratica.

A loro volta i recenti processi di democratizzazione comprendono anche questo elemento di istituzionalizzazione della partecipazione. Nel caso del Brasile, durante il processo di democratizzazione alcuni movimenti comunitari hanno rivendicato in alcune regioni del paese, in particolare nella città di Porto Alegre, il diritto di partecipare alle decisioni a livello locale:

partecipare significa influire direttamente sulle decisioni ed esercitare il controllo su di esse (…) Se il paese è entrato in una nuova fase, allora è possibile e necessario che il movimento comunitario avanzi e influisca direttamente, presentando proposte discusse e definite dal movimento sul bilancio [pubblico].(Uampa, 1986; Silva, 20001:122).

Questa pulsione partecipativa ha dato i suoi frutti, tra l’altro, nelle esperienze di bilancio partecipativo analizzate da Santos e Avritzer. Nel caso del Portogallo, la crisi rivoluzionaria creò una situazione politica sui generis che Santos, prendendo a riferimento la situazione della Russia nel periodo immediatamente precedente la Rivoluzione d’ottobre, ha definito come una “dualità di impotenze”, una situazione di paralisi dello Stato provocata dall’assenza sia del potere borghese che di quello operaio. Fu in quel momento che fiorirono le esperienze di partecipazione popolare indipendenti, alle volte perfino ostili nei confronti dello Stato, oppure, altre volte, impegnate a negoziare con lo Stato poteri complementari, come nel caso del Saal analizzato da Arriscado e Serra. Nel caso della Colombia, il negoziato che portò alla costituzione del 1991 favorì un’ampia partecipazione che diede luogo ad un maggiore protagonismo e a una maggiore visibilità degli attori sociali. Tra questi va sottolineato il movimento indigeno, da tempo in lotta per essere riconosciuto. Uprimny e Villegas analizzano le modalità con cui tale riconoscimento è avvenuto in seno alla Corte costituzionale. Il tema dei popoli indigeni viene trattato con maggior dettaglio nel terzo volume della presente raccolta.

Punti deboli e ambiguità della partecipazione

Nel capitolo precedente abbiamo cercato di evidenziare come i processi di liberazione e quelli di democratizzazione sembrino condividere un elemento comune: la percezione della possibilità dell’innovazione, intesa come partecipazione allargata degli attori sociali di diverso tipo al processo decisionale. In generale, tali processi comportano l’inserimento all’ordine del giorno di tematiche fino a quel momento ignorate dal sistema politico, la ridefinizione delle identità e dei vincoli e un aumento della partecipazione, soprattutto a livello locale.

Tali processi tendono ad animare intensi scontri politici. Come abbiamo visto in precedenza, le società capitaliste, soprattutto nei paesi centrali, hanno consolidato una concezione egemonica della democrazia, la concezione della democrazia liberale, con la quale hanno cercato di stabilizzare la tensione tra democrazia e capitalismo. Tale stabilizzazione è avvenuta attraverso due vie: la priorità data all’accumulazione di capitale rispetto alla redistribuzione sociale10 e la limitazione della partecipazione dei cittadini, sia a livello individuale che collettivo, al fine di non “sovraccaricare” eccessivamentre il regime democratico con domande sociali che mettessero in pericolo la priorità dell’accumulazione rispetto alla redistribuzione. Il timore verso l’ “eccesso di democrazia” ha governato le trasformazioni intervenute a partire dagli anni ’80 nella teoria e nella prassi egemoniche nei paesi centrali e successivamente esportate alla semiperiferia e alla periferia del sistema mondiale. L’idea dell’ “eccesso di democrazia” era stata formulata nel 1975 in un rapporto delle Commissione trilaterale preparato da Croizier, Huntington e Watanuki (1975). Secondo gli autori l’eccesso era causato dall’inclusione politica di gruppi in precedenza esclusi e dalle domande “eccessive” che essi rivolgevano alla democrazia. Si può pertanto osservare che nel momento in cui attraverso la decolonizzazione o la democratizzazione il problema dell’estensione della democrazia ai paesi del sud si poneva per la prima volta, la teoria egemonica della democrazia teorizzò la questione di una nuova grammatica di inclusione sociale come eccesso di domanda. Alla luce di ciò è facile concludere che i processi di intensificazione democratica che abbiamo analizzato tendono ad essere fortemente contrastati dalle élites escludenti, o “élites metropolitane”, come le chiama Sheth. Poiché si oppongono agli interessi e alle concezioni egemoniche, questi processi vengono spesso attaccati frontalmente o neutralizzati attraverso la cooptazione e l’integrazione. In ciò risiedono la debolezza e l’ambiguità della partecipazione, presenti in diversi dei casi qui in esame.

La fragile istituzionalizzazione della partecipazione è evidente nel caso portoghese, dove il movimento partecipativo sorto intorno al diritto all’alloggio è stato rimesso in discussione una volta terminato il breve periodo di crisi rivoluzionaria. Secondo Arriscado e Serra “nel corso degli anni la memoria ufficiale della Rivoluzione ha cercato attivamente di cancellare tutti gli episodi che in qualche modo indicassero la possibilità di una organizzazione alternativa della società o di un coinvolgimento dei cittadini nel processo politico”.

Nel caso del Sudafrica, Buhlungu rileva che di pari passo con l’istituzionalizzazione del regime democratico post-apartheid, lo Stato, il sistema politico e lo stesso ANC che aveva alimentato tutto il movimento sociale negli anni ’80, hanno cominciato a scoraggiare e perfino a smantellare la partecipazione popolare, che tanta importanza aveva avuto nel rovesciamento dell’apartheid, col pretesto che la democrazia rappresentativa allora instaurata garantiva un’adeguata rappresentanza ai diversi interessi sociali esistenti.

La vulnerabilità della partecipazione di fronte allo snaturamento, attraverso la cooptazione da parte di gruppi sociali perfettamente inseriti o attraverso l’integrazione in contesti istituzionali che la privano del potenziale democratico e di trasformazione dei rapporti di potere, è ben illustrata in diversi dei casi analizzati. In Portogallo le forme di partecipazione dei cittadini ai processi di pianificazione urbana o territoriale analizzate da Isabel Guerra rivelano in quale misura le partecipazione può venire trasformata in un processo di controllo sociale organizzato verticalmente dall’alto verso il basso (top-down), nel quale interessi ed attori egemoni trovano un nuovo modo per prevalere su quelli subalterni, dotati di minore capitale politico o organizzativo. Per evitare tale pericolo, Guerra propone di inserire queste forme di partecipazione in processi più ampi di negoziazione sociale nei quali i diversi interessi siano adeguatamente rappresentati, una proposta che definisce come “democrazia di gestione per una democrazia di progetto”.

I casi colombiani analizzati illustrano a loro volta la fragilità e l’ambiguità della partecipazione. Uprimny e Villegas rilevano come la costituzione del 1991 abbia incorporato forze escluse ed oppresse, come i rappresentanti di gruppi di guerriglieri che avevano smobilitato, indigeni e minoranze religiose, relativizzando così l’influenza dei due partiti politici che fino ad allora avevano dominato la scena politica colombiana, il partito liberale e il partito conservatore:

In tale quadro, l’analisi dei delegati [all’assemblea costituente] era la seguente: l’esclusione, la mancanza di partecipazione e la scarsa protezione dei diritti umani sarebbero i fattori fondamentali della crisi colombiana. Questa analisi spiegherebbe alcuni orientamenti ideologici della Carta del 1991: l’ampliamento dei meccanismi di partecipazione, l’imposizione allo Stato di obblighi in materia di giustizia sociale ed uguaglianza, l’inserimento di una serie di diritti e di meccanismi di tutela.

Tuttavia, gli autori rilevano una contraddizione che ha caratterizzato fin dall’inizio il tentativo di creare un nuovo ordine istituzionale, in quanto gli attori sociali, tanto governativi quanto di opposizione, hanno adottato un atteggiamento contrario alla pacificazione dello spazio politico e all’ampliamento della partecipazione e dei diritti. Lo studio di Uprimny e Villegas riguarda specificamente la Corte costituzionale creata nel 1992. Secondo gli autori il caso colombiano della Corte costituzionale mostra come in una situazione di smobilitazione dei cittadini la domanda di giustizia e uguaglianza possa trasferirsi dal campo politico a quello giuridico:

La sfiducia dei colombiani nella politica fece sì che certi settori esigessero dal potere giudiziario risposte a problemi che in linea di principio avrebbero dovuto essere discussi e risolti, grazie alla mobilitazione dei cittadini, a livello politico. Il fenomeno non è esclusivo del nostro paese (Santos, 1995), ma nel caso colombiano la debolezza dei meccanismi della rappresentanza politica è più profonda, il che ha permesso un maggiore protagonismo della Corte. Abbiamo così nel caso colombiano una doppia dimensione: da un lato, come segnalano gli stessi autori, in Colombia i movimenti sociali non hanno una grande tradizione; dall’altro, molti degli attori che dominavano l’Assemblea costituente si sono indeboliti negli anni successivi. Il caso colombiano si presenta dunque come un caso di vulnerabilità della partecipazione in cui uno scenario di protagonismo giudiziario rivela l’impatto ambiguo dell’azione giudiziaria sui movimenti sociali.

La vulnerabilità della partecipazione in uno scenario di conflitto tra grammatiche sociali è segnalata da Maria Tereza Uribe in un testo drammatico in cui l’autrice fa emergere la contraddizione tra partecipazione, pacificazione dello spazio politico e guerra civile: si tratta del caso della comunità di pace di San José de Apartadó. Tale comunità “decise di adottare una strategia comune di resistenza civile e disarmata contro la guerra e per il diritto a restare sulla propria terra, impegnandosi, con un patto sottoscritto pubblicamente a non farsi coinvolgere da attori armati, Stato compreso”. Ubicato nell’area di coltivazione delle banane, un santuario della guerriglia colombiana, San José de Apartadó occupa una posizione geografica strategica centrale nel conflitto colombiano. Il patto denominato Comunità di pace è stato annunciato nel maggio del 1997 con l’aiuto della diocesi locale, della Commissione intercongregazionale di giustizia e pace e di diverse ONG. Il forte appoggio internazionale alla dichiarazione della Comunità di pace obbligò i paramilitari a rispettarne la neutralità11. Tuttavia, due anni dopo, il fragile equilibrio tra le forze viene a cadere: a una prima incursione dei paramilitari nell’aprile del 1999 fanno seguito diverse incursioni delle forze guerrigliere. Nel 2000 erano già 83 le persone assassinate a San José de Apartadó. Si può quindi osservare nel caso colombiano la dipendenza esistente tra approfondimento della democrazia e necessità di una nuova grammatica sociale basata sulla pacificazione, che comporta negoziati politici non solo a livello locale.

Anche se in maniera meno evidente, la stessa complessità della partecipazione può essere riscontrata in Mozambico nello studio del caso analizzato da Osorio. Secondo tale autrice, l’occupazione dello spazio politico da parte delle donne può contribuire sia a contrastare il dominio maschile che a consolidarlo. Il caso del Mozambico dimostra che nelle situazioni in cui la democrazia non implica la rinegoziazione di una grammatica più pluralista, espressa da una maggiore partecipazione femminile, la grammatica sociale vigente entra in conflitto con i meccanismi di funzionamento del modello politico. L’autrice distingue tre strategie adottate dalle donne rispetto alla partecipazione politica: adattamento alle gerarchie esistenti e, pertanto, alla superiorità maschile; adozione del modello maschile come modello universale, usando l’arma dell’uguaglianza formale per far avanzare il potere delle donne; rivendicazione di un modello alternativo capace di sovvertire le dicotomie su cui si basa il potere maschile. L’analisi di Osorio porta a una riflessione sulla vulnerabilità della democrazia. Per l’autrice,

l’esercizio della democrazia, nel contesto dei sistemi globalmente legittimati, non soddisfa le domande di gruppi nuovi, come nel caso delle donne…[caso che implica] la necessità di un’azione più plurale e trasversale nei diversi spazi di produzione politica.

L’autrice mostra in tal modo che, anche nelle situazioni in cui esiste un aumento della partecipazione, tale aumento per essere emancipatorio deve adeguarsi al tentativo di ricreare le forme della politica.

La complessa questione dell’ambiguità della partecipazione è trattata in modo esemplare da Paoli nel caso del Brasile, paese in cui esistono elementi che permettono di individuare esperienze di partecipazione sia positive che negative. Paoli sottolinea la continuità delle pratiche partecipative dalla fase della democratizzazione ad oggi. Secondo l’autrice,

le pratiche di deliberazione partecipativa in Brasile sono state legate fin dall’inizio alla visibilità politica dei nuovi movimenti sociali e alla ridefinizione delle pratiche del movimento operaio negli anni ’70 e ’80. Esse sono state comprese grazie ad una rinnovata teoria del conflitto sociale che puntava l’attenzione sulle forme di partecipazione popolare e sulle lotte plurali che rivendicavano una rappresentazione autonoma nel processo di distribuzione dei beni pubblici e di formulazione delle politiche pubbliche.

Ciononostante, il caso dell’attivismo sociale degli imprenditori contro l’esclusione sociale analizzato da questa autrice, mostra come l’ideale della partecipazione della società civile possa essere cooptato da settori egemonici per cavalcare lo smantellamento delle politiche pubbliche, senza criticarlo, ma piuttosto approfittandone per realizzare un’operazione di “marketing sociale”. Come l’autrice afferma,

da un lato si può osservare il potenziale innovatore che la mobilitazione responsabile del mondo imprenditoriale dispiega per contrastare il diffondersi della povertà e migliorare le condizioni di vita della popolazione bisognosa. Dall’altro, è chiaro che questa mobilitazione passa sotto silenzio le politiche che aggravano l’esclusione sociale e disorientano politicamente la società brasiliana, mentre al tempo stesso permette di occupare vantaggiosamente, in termini di interesse privato, lo stesso spazio che come azione civica apre al pubblico.

Paoli mostra specificamente, nel caso delle fondazioni filantropiche imprenditoriali in Brasile, il tentativo di appropriazione di un discorso sulla nozione di pubblico. Tali fondazioni, esaltano gli effetti sociali della loro azione e al tempo stesso tendono a ridurre l’idea di pubblico a due categorie: i consumatori e i dipendenti dell’impresa stessa. L’autrice mostra così i pericoli dell’appropriazione del discorso della democrazia partecipativa da parte di proposte che non significano altro che una sua riduzione alle categorie della commercializzazione12 .

Possiamo quindi sistematizzare alcune caratterisitiche dei casi in cui la partecipazione non riesce a consolidarsi al termine di un processo di decolonizzazione o democratizzazione. Vi sono almeno quattro casi diversi: in primo luogo, il caso portoghese, nel quale le forme partecipative vengono squalificate al termine di una lotta intorno all’egemonia della forma democratica in cui le forze conservatrici riescono a imporre il loro modello. Un secondo caso può essere quello della Colombia, dove le forme partecipative non vengono delegittimate ma non riescono neppure ad imporsi come modello alternativo a causa della reazione dei settori conservatori. Diverso sembra il caso del Mozambico. Per un verso, neanche in Mozambico le pratiche partecipative vengono delegittimate. Ciò che appare nel caso mozambicano è la necessità di una pluralizzazione della grammatica politica stessa affinché la pluralità della società possa essere assimilata dalla democrazia. Infine abbiamo il caso del Brasile, dove le forme partecipative possono anche rientrare in un processo di cooptazione, come sembra avvenire con la nozione di pubblico utilizzata dalle associazioni filantropiche imprenditoriali, ma rappresentano fondamentalmente un’innovazione capace di generare modelli antiegemonici di democrazia, come illustreremo nel prossimo capitolo.

Le potenzialità della partecipazione

Alla luce dei casi studiati, il Brasile e l’India sono i paesi in cui le potenzialità della democrazia partecipativa si manifestano più chiaramente. Leonardo Avritzer nel suo testo sul bilancio partecipativo mostra come l’Assemblea costituente in Brasile abbia aumentato l’influenza di diversi attori sociali sulle istituzioni politiche grazie a nuovi meccanismi partecipativi.

L’articolo 14 della costituzione del 1988 garantisce la possibilità di processi legislativi basati sull’iniziativa popolare. L’articolo 29 sull’organizzazione delle città prevede la partecipazione dei rappresentanti delle organizzazioni popolari a tale processo. Altri articoli prevedono la partecipazione delle associazioni civili all’attuazione delle politiche sanitarie e di assistenza sociale.

La costituzione è stata quindi capace di incorporare nuovi elementi culturali scaturiti dalla società nelle istituzioni emergenti, dando spazio alla pratica della democrazia partecipativa.

Santos e Avritzer mostrano come tra le diverse forme di partecipazione emerse nel Brasile postautoritario, il bilancio partecipativo abbia acquisito una particolare preminenza. Gli autori osservanao che nel caso Brasiliano la motivazione alla partecipazione fa parte di una eredità comune del processo di democratizzazione che ha portato attori sociali democratci, soprattutto quelli provenienti dal movimento comunitario, a discutere il significato del termine partecipazione. Nel caso della città di Porto Alegre il confronto si articola attraverso l’apertura di spazi reali di partecipazione da parte del mondo politico, in particolare del Partido dos Trabalhadores. Sorgono quindi forme in cui si combinano effettivamente elementi di democrazia partecipativa e rappresentativa, grazie alla volontà degli amministratori del Partido dos Trabalhadores di combinare il mandato rappresentativo con forme effettive di deliberazione a livello locale. Il bilancio partecipativo nasce da questa volontà che, secondo Santos, si manifesta attraverso tre caratteristiche principali:

1) partecipazione aperta a tutti i cittadini senza attribuire alcunostatus speciale a nessuna organizzazione, neanche a quelle comunitarie; 2) combinazione di democrazia diretta e rappresentativa, la cui dinamica istituzionale attribuisce agli stessi partecipanti la definizione delle regole interne; e 3) allocazione di risorse per investimenti in base ad una combinazione di criteri generali e tecnici, rendendo cioè compatibili le decisioni e le regole stabilite dai partecipanti con le esigenze tecniche e di legge proprie dell’azione di governo, nel rispetto anche dei limiti finanziari13 .

Secondo Avritzer, questi principi generali si traducono in tre tipi di istituzioni partecipative. In primo luogo, vi sono le assemblee regionali dove la partecipazione è individuale, aperta a tutti i membri della comunità e in cui si delibera e decide in base a regole definite dai partecipanti stessi. In secondo luogo, vi è un principio distributivo capace di contrastare le disuguaglianze preesistenti in materia distribuzione dei beni pubblici. Nel caso del bilancio partecipativo di Porto Alegre, e anche in quello di Belo Horizonte, esistono principi distributivi che precedono lo stesso processo di deliberazione, le cosiddette tabelle delle necessità. In terzo luogo, vi è un meccanismo per rendere compatibili il processo partecipativo e deliberativo e il potere pubblico, processo che nel caso di Porto Alegre comporta il funzionamento di un consiglio capace di deliberare sul bilancio e di negoziare le priorità con il comune.

Nel caso brasiliano abbiamo pertanto una prima forma ben riuscita di combinazione tra elementi di democrazia partecipativa e di democrazia rappresentativa. Tale combinazione avviene a tre livelli: a livello locale i cittadini partecipano a un processo di negoziazione e deliberazione sulle priorità nella distribuzione dei beni pubblici. Tale processo esprime un elemento già messo in luce nel nostro testo, ovvero la necessità di articolare la democrazia attraverso una nuova grammatica sociale. Nel caso del bilancio partecipativo, tale grammatica comprende due elementi: una equa distribuzione dei beni pubblici e la negoziazione democratica dell’accesso ai beni tra gli stessi attori sociali. Le assemblee regionali, le liste di accesso prioritario ai beni pubblici e il consiglio del bilancio partecipativo esprimono una dimensione che abbiamo in precedenza definito proceduralismo partecipativo, un processo di partecipazione allargata che comporta un ampio dibattito pubblico sulle regole di partecipazione, deliberazione e distribuzione.

Dal bilancio partecipativo emergono alcune potenzialità di allargamento della democrazia partecipativa. Nel caso di Porto Alegre, la partecipazione della popolazione è aumentata praticamente ogni anno. Anche nel caso di Belo Horizonte, nonostante una maggiore variabilità, essa è in aumento. È inoltre importante sottolineare che il bilancio partecipativo si è diffuso significativamente in Brasile. Nel periodo 1997-2000 erano 140 i municipi che adottavano il bilancio partecipativo, e in gran parte (127) si trattava di città con non più di 500.000 abitanti. Nella metà dei casi, 71, tali amministrazioni erano legate al PT, nell’altra metà invece no (Grazia, 20001). La diffusione del bilancio partecipativo in tutte le regioni del Brasile, oltre ad altre proposte politiche, sta a indicare le potenzialità di diffusione degli esperimenti ben riusciti di democrazia partecipativa.

Anche nel caso dell’India sono evidenti tali potenzialità. Sheth osserva che, nel caso dell’India, le azioni politiche e di partecipazione che si riarticolano a partire dalla fine degli anni ’60

costituivano frammenti di movimenti politici e sociali che avevano le loro origini nel movimento di liberazione…Essi attuavano entro spazi limitati e stagnanti alla periferia della politica elettorale e partitica…Ma tre decenni dopo l’indipendenza si sono loro aperti nuovi spazi politici e sociali.

Tuttavia, Sheth sottolinea ugualmente come tali forme partecipative, non adattandosi al modello di democrazia liberale, siano considerate dalle élites metropolitane e dalle classi medie sospette e portatrici di valori negativi, contrarie allo sviluppo economico e agli interessi nazionali. L’articolazione delle iniziativa di democrazia partecipativa con la democrazia rappresentativa si verifica pertanto solo in contesti politici specifici, ad esempio in Kerala, il caso studiato da Heller e Isaac.

La sfida democratica in India è molto complessa poiché, oltre alle differenze di classe, di sesso, di etnia, di religione e regionali occorre tener conto anche di quelle di casta. Si tratta quindi di una sfida che si colloca nel campo della cosiddetta democratizzazione della democrazia. Il sistema delle caste è stato riprodotto all’interno del sistema politico indiano, inserendovi rapporti gerarchici e profonde diseguaglianze materiali (Heller, 2000). Sheth mostra poi come lo stesso progetto di costruire una democrazia condivisa da tutte le caste e da tutti i gruppi sociali, creando un riferimento simbolico comune per l’insieme della popolazione nazionale, sia stato poco a poco subordinato agli interessi particolari del mondo politico.

Attualmente si possono distinguere due forme principali di democratizzazione del sistema politico indiano. La prima è una forma di democrazia locale che si basa sull’abbandono da parte della società stessa della grammatica di esclusione. Questa è la forma che la democratizzazione ha assunto nella provincia di Kerala, dove, diversamente da altre parti dell’India, l’infrastruttura associativa non riproduce il modello dominante delle organizzazioni religiose e di casta che ripropongono una cultura della disuguaglianza.

Kerala presenta il livello di sindacalizzazione più elevato del paese e, a differenza del modello nazionale, i sindacati raggiungono anche i lavoratori informali…Kerala dispone anche di un ampio ventaglio di organizzazioni femminili, studentesche e giovanili, patrocinate da tutti i partiti… Solo le organizzazioni di massa legate al CPM, affiliato al Partito Comunista Indiano, contano più di 4,7 milioni di membri (Heller, 2000).

Si tratta pertanto di un primo caso di rottura con le forme ristrette di democrazia a livello locale. Tale rottura, che nel caso del Kerala si produce in primo luogo nella società civile attraverso la costruzione di una grammatica associativa, viene ampliata dal mondo politico attraverso il sistema dei Panchayats. Questo sistema è stato introdotto dal Fronte democratico di sinistra nel 1996 con il lancio della cosiddetta campagna popolare per la pianificazione decentrata. Tale campagna, attualmente al suo quinto anno, ha trasferito ai Panchayats poteri deliberativi ad un livello enorme. “Tutti i 1.214 enti locali del Kerala, urbani e dei tre diversi livelli rurali, hanno assunto nuove funzioni e nuovi poteri decisionali ed hanno acquisito potere deliberativo su circa il 40% del bilancio statale per lo sviluppo” (Heller e Isaac, 2002). Il trasferimento della deliberazione a livello locale ha comportato un mutamento qualitativo della partecipazione e della deliberazione, arrivando a comprendere convenzioni nelle aree rurali (grama sabba), cui hanno partecipato più di due milioni di persone, e seminari per la raccolta di informazioni e la pianificazione, cui hanno partecipato più di 300 mila delegati, oltre ai gruppi specifici di volontari, cui hanno partecipato più di 100 mila persone (Heller e Isaac, 2002). Si può quindi osservare un enorme processo di partecipazione innescato dal trasferimento a livello locale del processo deliberativo relativo al bilancio.

Vi è poi una seconda forma di approfondimento della democrazia indiana che ci viene presentata da Sheth a sua volta legata alla mobilitazione della popolazione locale. Si tratta di movimenti locali il cui obiettivo è costringere il governo ad agire con più onestà ed efficienza. L’azione di questi movimenti si basa sulle udienze pubbliche e i tribunali popolari, che hanno come obiettivo stabilire vincoli politici e sociali per i governi locali. Sheth descrive come uno dei momenti più significativi di tali movimenti il periodo tra il dicembre 1994 e il 1995, quando in diversi stati si tengono varie udienze pubbliche (Jan sunvai) alla presenza della stampa. Tali udienze sfociano in una manifestazione locale durata più di 40 giorni (dharna) che convince il governo a rendere pubblici i conti attraverso il Panchayat Raj.

Tanto in India quanto in Brasile le esperienze più significative di cambiamento della forma di democrazia hanno la loro origine nei movimenti sociali che mettono in discussione le pratiche sociali di esclusione attraverso azioni che generano nuove norme e nuove forme di controllo del governo da parte dei cittadini.

È possibile individuare alcune somiglianze e alcune differenze tra le due esperienze: in primo luogo, le due esperienze scaturiscono da un processo di rinnovamento della società. Nel caso di Porto Alegre, come rileva Avritzer, da una proposta di partecipazione al bilancio formulata negli anni’80 dall’Uampa (Unione delle associazioni dei residenti di Porto Alegre) e, nel caso di Kerala, come rilevano Heller e Isaac, attraverso esperienze di partecipazione locali condotte da organizzazioni della società civile, in particolare dalla Kerala Sastra Sahitya Parishad (Heller e Isaac, 2002). In secondo luogo, in entrambi casi è stato necessario che un partito facesse la scelta politica di rinunciare ad alcune competenze a favore della partecipazione. Questo ruolo lo hanno avuto il Partido dos Trabalhadores a Porto Alegre e il Partito Comunista Indiano a Kerala. In terzo luogo, in entrambi i casi la proposta partecipativa ha avviato anche un processo di elaborazione di regole complesse di partecipazione, come rilevano Santos per il caso di Porto Alegre e Heller e Isaac per quello di Kerala. È importante sottolineare che tali regole, che nel caso di Porto Alegre prestabiliscono il carattere distributivo del bilancio partecipativo (BP) e prevedono incentivi alla partecipazione della popolazione a basso reddito14 e, nel caso di Kerala, rendono pubblici i criteri di assegnazione e di attribuzione delle priorità15 , sono fondamentali per il successo della forma partecipativa. Le due esperienze che possiamo indicare come positive presentano due caratteristiche estremamente importanti: scaturiscono da mutamenti delle pratiche societarie introdotte dagli stessi attorisociali e, in secondo luogo, riscattano tradizioni democratiche locali in principio ignorate dalle forme di democrazia rappresentativa egemoniche in quei paesi. Porto Alegre in Brasile e Kerala in India sono espressione di tentativi di ampliare la democrazia che si basano sulle potenzialità delle rispettive culture locali.

Possiamo inoltre segnalare alcuni importanti contrasti tra i due casi. In primo luogo, nonostante l’importanza del Partido dos Trabalhadores nell’esperienza del bilancio partecipativo, il PT esercita un controllo limitato sul processo, e il tasso di affiliazione tra i partecipanti al BP resta basso. Maggiore sembra essere il controllo del Partito Comunista Indiano sul processo, che viene così a dipendere da una coalizione politica instabile in uno Stato dove è presente una forte minoranza islamica. In secondo luogo, esiste una differenza formale importante nel trasferimento delle competenze in materia di bilancio: il BP a Porto Alegre e a Belo Horizonte decentra e democratizza solo il processo deliberativo, lasciando nelle mani della giunta locale l’attuazione amministrativa delle decisioni. In questo caso si incentiva il controllo dell’amministrazione pubblica da parte del Consiglio del BP, a Porto Alegre, e del Comforças, a Belo Horizonte (Avritzer, 2002), creando così un meccanismo di controllo dell’amministrazione relativamente invulnerabile alla corruzione, per via dei numerosi meccanismi pubblici e delle forme di controllo. In India, le risorse vengono trasferite ai comitati stessi, dando luogo ad accuse di corruzione, come rilevano Heller e Isaac. Infine, tutto indica che, nel caso del Brasile, il BP rafforza elettoralmente quelli che lo praticano, al punto che altri partiti desiderano metterlo in atto, mentre la continuità dell’esperienza indiana è stata messa in dubbio dalla sconfitta elettorale del fronte di sinistra nell’ultimo anno.

I casi citati rivelano non solo quanto per la prassi democratica sia inconcludente il dibattito tra rappresentazione e partecipazione così come impostato dalle teorie egemoniche della democrazia, ma anche la necessità di una nuova formulazione in riferimento alla combinazione di queste diverse forme di democrazia.

Conclusioni

Gli studi inseriti nel presente volume forniscono più domande che risposte. In ciò restano fedeli all’obiettivo centrale del progetto La reinvenzione dell’emancipazione sociale nell’ambito del quale sono stati realizzati. Tale progetto intendeva delineare nuovi orizzonti di emancipazione sociale, o meglio, di emancipazioni sociali a partire da pratiche che si sviluppano in contesti specifici in risposta a problemi concreti. Pertanto, non è possibile trarne soluzioni universali valide in qualsiasi contesto. Al massimo, queste pratiche sono animate da aspirazioni emancipatorie ampie alle quali tentano di dare risposta in modo parziale e limitato.

Tra la realizzazione e l’aspirazione sta l’immaginazione del possibile al di là della realtà esistente. Tale immaginazione è fatta di domande che delineano orizzonti emancipatori. Non si tratta quindi di domande qualsiasi, ma di domande che derivano da un sovrappiù di aspirazioni rispetto a quanto realizzato attraverso pratiche concrete. Nel caso specifico del tema analizzato nel presente volume, ovvero la democrazia partecipativa, gli orizzonti sono le domande che pongono interrogativi sulla possibilità di ampliare il modello democratico. Attraverso questa possibilità di ampliamento, il modello egemonico della democrazia liberale viene contestato quanto alle sue pretese di universalità ed esclusività, dando così spazio a concezioni e pratiche democratiche antiegemoniche. Indichiamo di seguito le domande e le risposte che è possibile dare ad alcune di esse.

1. La perdita di demodiversità.Il confronto tra gli studi e i dibattiti sulla democrazia degli anni ’60 e dell’ultimo decennio ci porta facilmente a concludere che negli ultimi trent’anni la demodiversità si è andata perdendo a livello globale. Con demodiversità intendiamo la coesistenza pacifica o conflittuale di modelli e pratiche di democrazia differenti. Negli anni’60 se da un lato il modello egemonico di democrazia, la democrazia liberale, sembrava destinato come pratica democratica a restare confinato in un piccolo angolo di mondo, dall’altro, al di fuori dell’Europa occidentale e dell’America del nord esistevano altre pratiche politiche che rivendicavano lo status democratico alla luce di criteri autonomi e distinti da quelli su cui riposava la democrazia liberale. Di pari passo con la perdita di forza e credibilità da parte di tali pratiche politiche, il modello di democrazia liberale si è venuto imponendo come modello unico e universale, consacrato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale che ne hanno fatto una condizione politica per la concessione di prestiti e aiuti finanziari.

La trasformazione del modello liberale in modello unico e universale implica, a nostro parere, una perdita di demodiversità. L’aspetto negativo di tale perdita risiede in due fattori. Il primo riguarda la giustificazione della democrazia. Se, come crediamo, la democrazia ha un valore intrinseco e non solo un’utilità strumentale, tale valore non può essere ritenuto senz’altro universale. Esso si iscrive in una costellazione culturale specifica, quella della modernità occidentale, e tale costellazione per coesistere con altre in un mondo che ancora si riconosce nella multiculturalità, non può rivendicare senz’altro l’universalità dei suoi valori. Oggi sappiamo che se tale rivendicazione fosse avanzata senza esporre le ragioni su cui si fonda e senza dialogare con le altre che eventualmente la contestassero, potrebbe imporsi solo attraverso la forza di circostanze ad essa estranee, trasformandosi in una rivendicazione imperiale. E questa tentazione imperiale è tanto più presente quanto più si fa visibile la forza asservitrice della globalizzazione neoliberale e delle istituzioni che in suo nome impongono a livello globale l’adozione della democrazia liberale. Non ha senso postulare l’universalità dei valori su cui si fonda la democrazia sulla base del fatto che non vi è nelle altre culture nulla che vi si opponga, come fa Amartya Sen (1999). Tale convergenza non può essere postulata come punto di partenza. Può essere, al massimo, il punto di arrivo di un dialogo multiculturale in cui le altre culture possano esporre non solo ciò cui non si oppongono, ma soprattutto ciò che autonomamente propongono.

Siamo sostenitori di un simile dialogo tra le culture e riteniamo che sarebbe di arricchimento per tutti coloro che vi partecipassero. Le convergenze, che quasi sempre si esprimono sotto forma di ibridazioni culturali, vanno raggiunte attraverso la pratica dell’argomentazione e l’argomentazione della pratica. Per quanto riguarda le pratiche analizzate nel presente volume vediamo affiorare tale ibridazione soprattutto negli studi sull’India, essa è tuttavia presente in un modo o nell’altro negli studi relativi al Mozambico, al Brasile, al Sudafrica e alla Colombia.

La perdita di demodiversità è negativa anche per un secondo fattore che, ancorché autonomo, è in relazione con il primo. Si tratta della distinzione tra democrazia come ideale e democrazia come prassi. Tale distinzione è fondamentale per il modello egemonico ed è stata introdotta nel dibattito per giustificare la bassa intensità democratica dei regimi politici istituiti rispetto agli ideali democratici rivoluzionari della fine del XVIII secolo e della metà del XIX secolo. L’imposizione universale del modello liberale porta all’estremo tale distinzione e la democrazia realmente esistente si ritrova ad essere talmente lontana dall’ideale democratico che ci appare piuttosto come una sua caricatura. Inoltre, tale distanza nei paesi centrali a volte non è minore che in quelli periferici, nonostante le apparenze indichino il contrario. È questa distanza che spinge Wallerstein a dare alla questione di cosa pensare della democrazia come realizzazione la risposta data da Gandhi a proposito di cosa pensasse della civiltà occidentale: “sarebbe una buona idea” (2001:10).

Nel presente volume sono descritte e analizzate pratiche ed aspirazioni democratiche che, nei diversi paesi interessati da questo progetto, cercano di realizzare l’aspirazione democratica rifiutando di accettare come democratiche pratiche che sono una caricatura della democrazia e, soprattutto, rifiutando di accettare come una fatalità la bassa intensità democratica alla quale il modello egemonico ha costretto la partecipazione dei cittadini alla vita politica. In modo molto diverso, tali pratiche cercano di intensificare e approfondire la democrazia, sia rivendicando la legittimità della democrazia partecipativa, sia premendo sulle istituzioni della democrazia rappresentativa per farle diventare più inclusive, sia inoltre ricercando forme più intense di complementarità tra democrazia partecipativa e rappresentativa.

2. L’ambito locale e quello globale. Abbiamo segnalato nel testo che il modello egemonico della democrazia è stato ostile alla partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica e, nei casi in cui l’ha accettata, l’ha relegata nell’ambito locale. Si tratta della nota questione delle grandezze di scala. Torneremo sull’argomento più avanti, in queste conclusioni, indicando la risposta antiegemonica a tale questione, grazie alla quale è possibile costruire complementarità intense tra democrazia partecipativa e rappresentativa, e quindi tra scala locale e scala nazionale.

Ora, vogliamo affrontare le possibili articolazioni transnazionali tra diverse esperienze locali di democrazia partecipativa o tra tali esperienze locali e movimenti ed organizzazioni transnazionali interessati alla promozione della democrazia partecipativa. La globalizzazione antiegemonica passa, in questo campo, per tali articolazioni. Sono esse che consentono di creare il locale antiegemonico, che è l’altra faccia del globale antiegemonico. Tali articolazioni danno credibilità e rafforzano le pratiche locali per il semplice fatto di trasformarle in nodi di reti e movimenti più ampi e con maggior capacità di trasformazione. Per altro verso, tali articolazioni rendono possibile un apprendistato reciproco e continuo che, a nostro avviso, è requisito essenziale per il successo delle pratiche democratiche ispirate dalla possibilità di una democrazia ad alta intensità. Dato che con questo progetto abbiamo scelto di analizzare le esperienze locali di approfondimento democratico, l’articolazione tra locale e globale si pone in queste conclusioni come una questione alla quale non possiamo ancora dare una risposta, ma alla quale ci appare fondamentale rispondere in futuro.
Ciononostante, alcuni dei casi analizzati documentano almeno implicitamente tale articolazione. Nel caso della comunità di pace di San José de Apartadò, tale articolazione è esplicita. Uribe segnala l’importanza della rete di solidarietà transnazionale al fine di dare visibilità nazionale e internazionale alla lotta per la pace di questa comunità colombiana. Inoltre, pur non essendoci posti tale obiettivo analitico, sappiamo che le esperienze del bilancio partecipativo sono sorte in varie città del Brasile e di altri paesi dell’America Latina, che le esperienze più recenti si sono avvantaggiate di quelle più antiche e che esistono perfino reti di città, soprattutto nell’ambito del Mercosur, che hanno come obiettivo discutere assieme le diverse esperienze e i diversi modelli di democrazia partecipativa, i loro limiti e le loro potenzialità. La forza della globalizzazione antiegemonica nel campo dell’ampliamento e dell’approfondimento della democrazia dipende in buona misura dall’ampliamento e dal rafforzamento delle reti nazionali, regionali, continentali e globali delle pratiche locali.

3. I pericoli dello snaturamento e della cooptazione.

Abbiamo visto come le aspirazioni rivoluzionarie di partecipazione democratica nel secolo XIX si siano venute riducendo nel corso del XX secolo a forme di democrazia di bassa intensità. In questo modo, gli obiettivi di inclusione sociale e di riconoscimento delle differenze sono stati snaturati e trasformati nel loro opposto Dal pericolo di snaturamento non sono in alcun modo immuni le pratiche di democrazia partecipativa. Anche queste, che mirano ad ampliare il modello politico e con questo lo spazio pubblico e i dibattiti e le domande sociali che lo costituiscono, possono essere cooptate da interessi e attori egemonici che appoggiandosi ad esse legittimano l’esclusione sociale e la repressione della differenza. I testi di Paoli e Guerra testimoniano di questo pericolo.

Ma lo snaturamento può avvenire per molte altre vie: la burocratizzazione della partecipazione, la reintroduzione del clientelismo sotto nuove forme, la strumentalizzazione partitica, l’esclusione degli interessi subordinati mettendo a tacere o manipolando le istituzioni partecipative. Tali pericoli possono essere evitati solo con un apprendistato e una riflessione costanti che producano incentivi per nuovi approfondimenti democratici. Nel campo della democrazia partecipativa, più che in qualsiasi altro, la democrazia è un principio senza fine e i compiti della democratizzazione vengono portati a termine solo quando sono essi stessi definiti da processi democratici sempre più esigenti.

Democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa.

Questa è forse la questione cui gli studi raccolti in questo volume danno maggiori risposte e cui perciò dedicheremo più spazio. La soluzione data dalla teoria egemonica della democrazia al problema del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, quella delle scale di grandezza, non è adeguata perché lascia intatto il problema delle grammatiche sociali ed offre una risposta semplicistica, esclusivamente geografica, al problema della combinazione tra partecipazione e rappresentazione.

Le esperienze studiate nell’ambito di questo progetto offrono una risposta alternativa al problema democratico. Esse indicano che la capacità di affrontare la complessità culturale e amministrativa non aumenta all’aumentare delle scale di grandezza. E soprattutto indicano l’esistenza di un processo di pluralizzazione culturale e di riconoscimento di nuove identità16 che ha come conseguenza profonde ridefinizioni della prassi democratica, ridefinizioni che vanno al di là del processo di aggregazione proprio della democrazia rappresentativa.

A nostro parere, esistono due possibili forme di combinazione tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa: la coesistenza e la complementarità. La coesistenza implica una convivenza, a livelli diversi, delle diverse forme di proceduralismo, di organizzazione amministrativa e di variazioni della struttura istituzionale. La democrazia rappresentativa a livello nazionale (caratterizzata dal dominio esclusivo nella formazione dei governi e dall’accettazione della forma verticale burocratica come forma esclusiva della pubblica amministrazione) coesiste con la democrazia partecipativa a livello locale, accentuando determinate caratteristiche partecipative già esistenti in alcune democrazie dei paesi centrali (Mansbridge, 1990).

La seconda forma di combinazione, cui diamo il nome di complementarità, implica un’articolazione più profonda tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. Essa presuppone il riconoscimento da parte del governo della possibilità di sostituire con il proceduralismo partecipativo, con le forme pubbliche di controllo dei governi e con i processi deliberativi pubblici parte del processo di rappresentazione e deliberazione stabilito dal modello egemonico di democrazia. Al contrario di quanto pretende tale modello, l’obiettivo è associare al processo di rafforzamento della democrazia locale forme di rinnovamento culturale legate a nuove istituzioni politiche che reinseriscono nel solco democratico le questioni del pluralismo culturale e della necessità dell’inclusione sociale. Sia nel caso del Brasile che in quello dell’India, i meccanismi partecipativi permettono l’articolazione tra argomentazione e giustizia distributiva e il trasferimento di competenze dal livello nazionale a quello locale e dal mondo politico agli stessi meccanismi partecipativi. La democrazia rappresentativa è chiamata a integrare nel dibattito politico-elettorale proposte di riconoscimento culturale e di inclusione sociale.

Il concetto di complementarità differisce da quello di coesistenza poiché, come abbiamo visto nei casi del Brasile e dell’India, implica la decisione da parte del mondo politico di allargare la partecipazione a livello locale attraverso il trasferimento o la devoluzione a favore delle forme partecipative di deliberazione di competenze decisionali che in principio sono appannaggio dei governanti. In tal modo, sia nel caso del bilancio partecipativo in Brasile che in quello dei Panchayats in India, le assemblee regionali o le decisioni prese dai consiglieri derivano dalla scelta da parte del mondo politico di articolare partecipazione e rappresentazione.

Come appare evidente, la prima forma di articolazione tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa, quella della coesistenza, prevale nei paesi centrali, mentre la seconda, quella della complementarità, comincia ad emergere nei paesi semiperiferici e periferici. In tal caso, si potrebbe concludere che l’approfondimento della democrazia non si verifica necessariamente a partire dalle stesse caratteristiche presenti nei paesi centrali che hanno introdotto e consolidato la democrazia per primi. Le caratteristiche che hanno consentito l’origine della democrazia potrebbero non essere necessariamente le stesse che ne consentono una riproduzione allargata e approfondita. Perciò il problema dell’innovazione culturale e della sperimentazione istituzionale mantiene la sua importanza. Se tale prospettiva è corretta, le nuove democrazie devono trasformarsi in nuovissimi movimenti sociali, nel senso che lo Stato deve trasformarsi in uno spazio di sperimentazione distributiva e culturale. È nell’originalità delle nuove forme istituzionali sperimentali che risiedono le potenzialità di emancipazione ancora presenti nelle società contemporanee. Tali potenzialità per realizzarsi devono essere in rapporto con una società che accetti di rinegoziare le regole della socializzazione, con la convinzione che la grandezza di una società risiede nella capacità di inventare e non in quella di imitare.

Tesi per il rafforzamento della democrazia partecipativa

Concludiamo questa introduzione con tre tesi sul rafforzamento della democrazia partecipativa.

Prima tesi: rafforzare la demodiversità. Questa tesi implica riconoscere che non esiste nessun motivo per cui la democrazia debba assumere un’unica forma. Al contrario, il multiculturalismo e le recenti esperienze partecipative vanno nel senso di una maggiore ampiezza e pubblicità del processo deliberativo e di una più intensa partecipazione. Il primo elemento importante della democrazia partecipativa sarebbe quello di approfondire i casi in cui il potere politico rinuncia a competenze decisionali a favore delle istanze partecipative.

Seconda tesi: rafforzare l’articolazione antiegemonica tra locale e globale. Nuove esperienze democratiche richiedono l’appoggio degli attori democratici transnazionali nei casi in cui la democrazia è fragile, come è emerso chiaramente nel caso colombiano. Al tempo stesso, esperienze alternative positive come quelle di Porto Alegre e dei Panchayats in India devono espandersi per potersi presentare come alternative al modello egemonico. Pertanto il passaggio dell’antiegemonico dal piano locale a quello globale è fondamentale per il rafforzamento della democrazia partecipativa.

Terza tesi: ampliare la sperimentazione democratica.Da quanto si è detto emerge che le nuove esperienze che hanno avuto successo sono scaturite da nuove grammatiche sociali in cui le modalità di partecipazione sono state individuate in via sperimentale. Per una pluralizzazione culturale, razziale e distributiva della democrazia occorre che si moltiplichino gli esperimenti in tutte queste direzioni.
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Questo dibattito, come del resto quasi tutti gli altri sulla democrazia, era stato anticipato da Rousseau quando affermava nel contratto sociale che solo una società in cui nessuno fosse tanto povero da doversi vendere e nessuno abbastanza ricco da poter comprare qualcun altro potrebbe dirsi democratica.

Santos, 2002.

Qui per egemonia si intende la capacità economica, politica, morale e intellettuale di stabilire una direzione dominante nell'approccio ad una determinata questione, in questo caso a quella della democrazia. Si ritiene inoltre che ogni processo egemonico produca un processo antiegemonico all'interno del quale vengono elaborate forme economiche, politiche e morali alternative. Nel caso dell'attuale dibattito sulla democrazia, ciò implica una concezione egemonica ed una antiegemonica della democrazia. Sul concetto di egemonia si veda Gramsci (1973).

La dottrina schumpeteriana della democrazia adotta integralmente l'argomento della manipolazione degli individui nella società di massa. Per Schumpeter, gli individui in politica cedono a impulsi irrazionali ed extra-razionali e agiscono in modo quasi infantile al momento di prendere una decisione (Schumpeter, 1942: 257). Schumpeter non cercò mai di distinguere tra grandi mobilitazioni di massa e forme di azione collettiva, rendendo il suo argomento sulla manipolazione generalizzata delle masse in politica estremamente fragile. Per una critica si vedano: Melucci, 1996; Avritzer,1996. La vulnerabilità dell'argomento schumpeteriano non ne impedì un ampio utilizzo da parte delle concezioni egemoniche della democrazia.

Bobbio analizza diversamente da Schumpeter i motivi per cui la partecipazione degli individui alla politica è divenuta indesiderabile. Per tale autore l'elemento fondamentale che inibirebbe la partecipazione è l'aumento della complessità sociale delle democrazie contemporanee (cfr. Bobbio 1986). L'argomento della complessità e dei suoi limiti sarà discusso più avanti.

Si può tuttavia osservare che la spiegazione della questione del consenso da parte della teoria egemonica della democrazia lascia a desiderare (Manin, 1997). Per la teoria egemonica la questione del consenso assume rilevanza solo all'atto della costituzione del governo. Tuttavia, quest'ultima consiste in un atto di aggregazione di maggioranze e difficilmente produce consenso rispetto alle questioni dell'identità e della rendicontazione da parte dei governanti. Pertanto, se la spiegazione dell'abbandono della rotazione delle cariche amministrative appare corretta, essa non conduce però in nessun modo a riconoscere la superiorità delle forme rappresentative rispetto a quelle partecipative, ma si limita a segnalare la necessità di un diverso fondamento della partecipazione, ossia il consenso sulle regole della partecipazione.

Tra gli autori del campo egemonico, Adam Przeworski è quello che più ha messo in luce il problema della indeterminatezza dei risultati in democrazia. Per Przeworski: "la democratizzazione è un processo con il quale si sottopongono tutti gli interessi alla competizione in un quadro di incertezza istituzionalizzata" (Przeworski, 1984:37). Tuttavia l'incertezza istituzionalizzata per Przeworski è l'incertezza relativa a chi occuperà posizioni di potere in una situazione di democratizzazione e alla eventualità che tale risultato possa essere ribaltato o meno. Il concetto di democrazia che qui adoperiamo implica un livello maggiore di indeterminatezza, poiché implica la possibilità di inventare una nuova grammatica democratica.

La posizione di Habermas, tuttavia, tende a concentrarsi su una proposta di democrazia destinata a certi gruppi sociali e ai paesi del nord. Criticato per la sua limitata concezione della sfera pubblica (Fraser, 1995; Santos, 1995:512; Avritzer, 2002), Habermas sembra aver fatto uno sforzo solo nel senso della integrazione degli attori sociali dei paesi del nord. Cfr. Habermas, 1992.

Per alcuni autori tale priorità era iscritta nella matrice stessa del paradigma della modernità occidentale, con la sua enfasi sull'idea di progresso basato sulla crescita economica all'infinito. Per questa ragione tale elemento è stato presente , anche se con fome distinte, sia nelle società capitaliste che in quelle socialiste dell'Europa dell'est (Marramao, 1995).

Sulla questione si veda anche Sader, nel presente volume di questa raccolta.

Sulla questione si veda anche Sader, 2002.

Sulla questione si veda anche Sader, 2002

Cfr.Santos nel presente volume di questa raccolta.

Cfr. Heller e Isaac nel presente volume di questa raccolta.

Il tema delle identità e del principio del riconoscimento della differenza è trattato in dettaglio nel terzo volume della presente raccolta.

Published 3 November 2003
Original in English
Translated by David Santoro

Contributed by Revista Crítica de Ciências Sociais © Boaventura de Sousa Santos, Leonardo Avritzer Eurozine

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