La scenografia dei nostri giorni

Bogdan Bogdanovic è uno dei più noti e importanti architetti serbi, dopo essere stato sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986 e aver speso molti anni nella lotta al nazionalismo del suo paese, dal 1993 ha scelto Vienna come città in cui vivere. Nella capitale austriaca Samuel Abrahám e Miroslav Marcelli incontrano Bogdanovic e inizia la conversazione.

Miroslav Marcelli: Bogdanovic, lei ha scritto in molti suoi articoli che Vienna rappresenta un ambiente speciale per lo spirito. Con quali parole descriverebbe questo ambiente che ha scelto come luogo della sua vita personale?

Bogdan Bogdanovic: Cosmopolita. Per farle capire quanto Vienna abbia un carattere cosmopolita o internazionale, le racconterò un aneddoto.

La prima sera trascorsa a Vienna, appena arrivati, ci sentivamo del tutto confusi e andammo da alcuni amici; cercavamo una strada, il che, Dio solo lo sa, non era cosa molto semplice. Eravamo confusi perché venivamo da una vita ed da una situazione politica molto difficili a Belgrado; all’improvviso, senza volerlo, andai a sbattere contro qualcuno per strada e dissi, senza rifletterci, “Izvini burazer” (“Mi scusi, signore!” ndt) – un’espressione tipica dello slang di Belgrado – e questi rispose: “Ma nema veze!” (“Si figuri!” ndt). Forse Vienna è proprio questo. E’ importante, sa. Prima di venire qui vivevamo in spazi nazionali stretti e isolati che ora si sono fatti ancora più piccoli, stretti. Poi, all’improvviso, ci si ritrova in questo contesto privo di frontiere. E’ davvero bello essere in un’atmosfera cosmopolita nella quale non si è afflitti dalla situazione politica o altro, ma dove, piuttosto, appartieni a te stesso, ai tuoi amici e alle tue idee. Questi sono i vantaggi della grande città.

M. M. Quali sono le caratteristiche specifiche delle città mitteleuropee che ha visitato come Vienna, Budapest, Praga e Bratislava?

B. B. Chiaramente sono città danubiane. E’ come se si trovassero tutte lungo una medesima strada. Come ripeto in continuazione: vivere in queste città vuol dire abitare lungo la stessa strada – il Danubio – abbiamo solo cambiato il numero civico di tanto in tanto. Abbiamo risalito un po’ il fiume, oltrepassato la collina. Il ruolo del Danubio non è solo simbolico, ma concreto, è molto importante per me, è un simbolo. Nei nostri primi anni a Vienna, quando ero depresso perché avevo lasciato il mio paese, andavo sul Danubio per sentirmi a casa. E lo stesso discorso è valido anche al contrario. Quando un mio amico viennese, il Prof. Achleitner, venne a trovarmi l’anno scorso a Belgrado con una troupe della televisione viennese, li portai sul Danubio e loro ebbero la sensazione di sentirsi a Vienna. Solo che – e forse questo sembrerà campanilismo – sono rimasti incantati, perché a Belgrado il Danubio è molto più grande che a Vienna. E’ enorme, quasi quanto un mare. Per questo il Danubio è qualcosa di simbolico. C’è un piccolo problema linguistico, tuttavia. Mentre in tedesco il Danubio è femminile, è una signora, in serbo il fiume è di genere maschile, è un giovane uomo, un eroe, anche se, poi, la Sava (affluente del Danubio che attraversa Belgrado, ndr) è femminile.

M. M. Il Danubio è maschile anche in slovacco.

B. B. E’ interessante che a Belgrado si consideri la femminile Sava più graziosa, dolce e piccola, come se la si vedesse nelle vesti di un essere femminile in rapporto al maschio Danubio. L’ unione della Sava con il Danubio richiama quasi un atto sessuale, una rinascita del mondo. Il mondo intero è nato da due fiumi. Si potrebbe addirittura creare una splendida mitologia di Belgrado a partire da questa immagine. Queste osservazioni vengono meglio da Vienna che da Belgrado, comunque, perché laggiù siamo troppo razionali, talmente razionali da aver compiuto atti irrazionali per tutta la nostra storia.

M. M. Quando siamo arrivati a Vienna, abbiamo visto gli edifici degli ipermercati e dei grandi magazzini delle compagnie multinazionali, i capannoni e i tiranti che si vedono l’uno dopo l’altro lungo le strade di periferia di grandi città come Parigi e Londra. Come influenzano queste costruzioni il carattere della città e la sua vita?

B. B. Non vado a fare compere nei grandi negozi della periferia perché bisogna avere un’auto. E poi le persone che vanno in questi posti, nei supermarket, non lo fanno tutti i giorni; ci vanno una volta a settimana, acquistano ciò che serve e le altre cose le comprano in città. Cosa posso dire? Se si considera la cosa in generale, io sono un uomo d’altri tempi: mi piace una città che mantenga l’aspetto con il quale la conosco da sempre, una città che posso misurare e vivere in una passeggiata, a passi. Io misuro le città a passi. Ho sempre adorato passeggiare, ho una passione per il cammino, sono un vero Johnnie Walker. Cammino anche qui a Vienna, alle otto. Non era mia abitudine fare una passeggiata di un’ora e mezza ogni sera, ma sentivo di averne bisogno. Amo le città che posso misurare a passi. Vienna, per fortuna, è ancora una città di questo tipo e dubito che le altre capitali europee siano così. Vienna ha conservato il suo centro spostando in periferia, oltre il Danubio, le costruzioni nuove. Questa cosa è molto positiva. Conosco Parigi sin dalla mia giovinezza, ma già vent’anni fa la consideravo una città estranea, mi sentivo già alienato a causa del viale sugli Champs Elisée, e del suo prolungamento, e la stessa sorte, mi sembra, sia capitata a Londra. E’ il destino delle grandi città. D’altronde le nostre osservazioni sono solo di tipo sentimentale, poiché non c’è più molto da fare a questo punto. Esperti ed urbanisti veri e propri devono cogliere i fenomeni nel loro manifestarsi. Ma con una valida architettura – e Vienna ha un’architettura buona, interessante – molte cose possono essere mantenute o migliorate per conquistare un determinato ambiente. Penso che a Vienna si stia sperimentando abbastanza in questa direzione.

Per l’architettura è importante, da un punto di vista psicologico, che i trend degli anni Sessanta e Settanta siano superati. Anche in questo Vienna ha una tradizione: le mancano i grandi viali come quelli che si trovano a Berlino, ma ha dei cortili davvero splendidi. Guardi il nostro piccolo cortile, per me è un’esperienza fantastica, tanto che spesso mi ci siedo e lo guardo. Il cortile è un’unità indipendente, ha un’atmosfera a parte. Succedono tante di quelle cose qui: si sente litigare in varie lingue, a volte in serbo, altre in turco, altre ancora in tedesco, o almeno così mi sembra. E poi ci sono due gatti, uno nero, l’altro bianco, ed io ci giocherello da un anno. Vado in terrazza; il gatto bianco arriva (un gatto non ti guarda mai, ma ti vede sempre), quindi va via dicendo qualcosa al gatto nero e questo si avvicina: mi osservano, io m’invento qualcosa, loro non reagiscono. Quindi cominciano a sfregare le teste una contro l’altra e vanno via, mi disprezzano. Questo solo per dire che una città senza la sua teatrale rappresentazione della quotidianità è davvero povera. Vienna ce l’ha. Miroslav Krleza mi pose in evidenza questo aspetto tantissimo tempo fa, quando ero giovane, spiegandomi che la cosa più importante in una città è che ci sia spazio per questa rappresentazione della vita. Se non c’è, non c’è niente. Una persona è anche un essere su di un palcoscenico e vuole avere la sua personale scenografia. Perciò, io amo la scenografia che può darmi una città: Vienna ce l’ha, Bratislava ce l’ha, ed è molto importante. Non so bene: forse i giovani dicono di essere soddisfatti della loro nuova ed aggressiva scenografia, il che è congruo, ma se questa valutazione la si fa a partire dall’aspetto della Nuova Belgrado, allora non è così. Non so se conosce la Nuova Belgrado…

Se l’hanno chiamata “Nuova”, il suo aspetto dovrebbe essere abbastanza chiaro (ride). Peccato che non sia così. L’anno scorso, o l’anno prima, sono andato per la prima volta Belgrado dopo otto anni dalla mia partenza, ed ero preparato alla cosa. Siamo arrivati di sera presto e la Nuova Belgrado come la ricordavo da prima che la lasciassi, nuova e completamente bianca… L’architettura moderna è bella solo se è nuova, quando invecchia non lo è più, mentre la vecchia architettura diventa sempre più bella con il passare del tempo. Questa è la grande differenza. Dunque, la Nuova Belgrado era scura, cupa, simile alle immagini di un film espressionista, del Dottor Caligari, per citarne uno, tutto nero o scuro. La sorte dell’architettura moderna è tristemente nota.

M. M. Veniamo a un tema ricorrente nei suoi studi: lei parla sempre delle minacce alla città. A una prima impressione, questa idea fissa della minaccia sembra ricollegarsi a un processo quale la crescita del benessere. La città cresce, allarga i suoi confini e la sua popolazione aumenta considerevolmente. Le sue parole richiamano alla mente, in modo piuttosto nostalgico, la concezione di Aristotele secondo la quale una città non dovrebbe essere tanto larga da impedire a una voce umana di percorrerla da un capo all’altro. Questo è il passato delle città, oggi stiamo andando incontro alla nascita della megapoli. E’ impossibile non accorgersi che questo processo la preoccupa. Lei delinea gli stati progressivi della città in polis – metropolis – megapolis- necropolis. In che modo pensa che la città possa sfuggire a questa sorte preservando la sua identità?

B. B. Aristotele … Per moltissimo tempo ho considerato così questa metafora: il fatto che la mia voce sia giunta sta a significare che la mia voce può essere ascoltata, posso esistere ed essere una persona autorevole. Nelle odierne megapoli, sfortunatamente, è molto diverso. Qualsiasi cosa si dica sul tema dell’esplosione della città, in ogni caso, è una questione senza soluzioni teoriche, almeno secondo me. Io non so come sia vivere in città da dieci, venti, o persino quindici milioni di abitanti. E non so come quelle persone vivranno, un domani, in città da venti milioni di abitanti, soprattutto nelle zone più povere del mondo. Le megapoli europee, come Londra, hanno smesso di crescere. Londra sta diventando più piccola, mentre Parigi ha un tasso di crescita dell’1%. L’esplosione delle città europee è terminata e, in ogni caso, ha riguardato due o tre città al massimo, che non è tanto. Fortunatamente l’Europa è ancora un’Europa fatta di città e la cosa migliore, e più saggia, da fare sarà di farla rimanere così il più a lungo possibile. Ma un giorno anche le città che costituiscono la grande ricchezza del Vecchio Continente potrebbero esplodere, e compito degli europei dovrebbe essere quello di preservarle da questo rischio.

M. M. Pensa che le megapoli o la crescita delle città facciano concorrenza allo Stato? In altre parole: il futuro prossimo, la vita di una persona sarà maggiormente determinata dalla sua appartenenza a una città o dalla sua appartenenza a uno Stato?

B. B. E’ difficile dire come saranno le megapoli e le aree megapolitane, specie nelle zone povere del mondo. Tuttavia, prendiamo in considerazione l’Europa ed immaginiamo due o tre città da venti milioni di abitanti: “divorerebbero” diversi piccoli stati. Non è possibile, per fortuna! In certi casi è provato che la divisione dell’Europa attraverso piccole frontiere simboliche può costituire un vantaggio. Diciamo che la vedo in questo modo: la mia Europa ideale è quella del XVIII secolo, quando era fatta da tanti piccoli Stati con frontiere simboliche. Ciascuno di questi gruppi di Stati aveva una città, una piccola metropoli che rappresentava il grande e forte centro culturale. Non mi piace pensare ad un’Europa degli Stati, bensì ad un’Europa delle città. Le città, nel contempo, in un sistema molto complesso, ma molto buono, acquisiscono sempre le caratteristiche di centro dello Stato e della Nazione. In urbanistica il sistema è tanto migliore quanto maggiore è la sua complessità.

M. M. Nelle sue parole ricorrono spesso riflessioni di natura filosofica. Allo stesso tempo sembra che questo approccio non sia determinato esclusivamente dalla sua cultura, dal suo passato, o dalle sue inclinazioni individuali, ma che lo richiedano le attuali caratteristiche dei processi cui la città è sottoposta. Come definirebbe l’urbanologia e gli urbanologi in base a ciò che scrive nei tuoi testi?

B. B. L’urbanologia, o gli studi urbani, di solito, non sono termini accettati nel nostro campo. Viene utilizzato solo urbanistica. Era lo stesso anche alla Facoltà di Belgrado e, quando sono diventato professore di seconda fascia ho cominciato a riflettere sui temi che avrei dovuto affrontare nelle mie lezioni e sul modo in cui avrei dovuto farlo, ero al Dipartimento di Urbanistica. Difficilmente mi sarei orientato verso la prassi urbanistica, che è zona di spartizione fra politici, grandi società e capitale (in teoria nel socialismo il capitale non esiste, ma esisteva nella pratica). Quindi ho pensato a qualcosa che potrebbe esistere solo in Francia: l’urbanologia. L’urbanologia in passato non esisteva. L’ho definita, per così dire, una specie di filosofia della città. Non so se posso azzardare un’espressione del genere, visto che ciò che ho scritto assomiglia molto più a una letteratura della città piuttosto che ad una filosofia della città. Cioè l’urbanologia è intesa come piattaforma ampia sulla quale la città può essere presa in considerazione in modo libero, senza pressioni da parte del mercato, senza le pressioni associate alla prassi urbanistica. La prassi urbanistica – soprattutto dopo i cambiamenti avvenuti nei nostri piccoli Paesi – è diventata territorio inviolabile della mafia. Quando introdussi l’urbanologia in Facoltà, ebbi un riscontro positivo. Anche il Comitato Scientifico la accettò e, anche se con qualche sorpresa, alla fine fu approvata. Dal momento che all’epoca avevo scritto molto in proposito, fu detto: “Lasciamolo fare”. Poi venne l’idea di chiamarla “filosofia della città”, nell’intento di guadagnare il sostegno di alcuni filosofi marxisti. Ma protestai, e per fortuna questa idea dopo un po’ fu dimenticata.

Mi fu data, inoltre, una certa libertà riguardo a ciò che volevo dire, perché la mia situazione nella ex-Jugoslavia era particolare. Io avevo progettato dei monumenti alla Seconda Guerra Mondiale che erano stati subito apprezzati, destando interesse a livello internazionale e che avevano un aspetto del tutto diverso dagli altri. Così i miei compagni di partito, che avevano cariche importanti, la videro così: lasciamolo fare, meglio per lui che faccia questo piuttosto che altro! (ride) Questo a proposito di me e dei miei problemi politici pratici. Così è partita l’urbanologia, ma ora penso sia necessario separare la teoria e la filosofia della città dalla prassi urbanistica.

M. M. Qual è la sua opinione attuale sull’idea – portata avanti non solo da filosofi, ma anche da tanti architetti ed urbanisti – di fondare una nuova città, ad esempio su di una grande area verde, trascurando la vecchia? Le Corbousier, Niemayer e altri, per esempio, erano convinti che la vecchia città non si potesse più correggere. Ed è un’idea che troviamo anche in altri pensatori, in Descartes, per citarne uno.

B. B. Questa è un’idea utopica. Le utopie non riconoscono nulla al di fuori di sé. Per questa ragione è meglio distanziarsene completamente. Tutte le città utopiche si trovano su isole. Esse rifuggono dalla realtà e diventano regni onirici. Sono interessanti dal punto di vista letterario e filosofico, ma non sotto l’aspetto pratico. Sono tutte quelle città o cittadine satellite, progettate per essere indipendenti e che, dopo la Seconda Guerra mondiale, si sono affermate come progetto urbanistico dominante. E’ stata creata una nuova Londra, una nuova Belgrado, dappertutto qualcosa di nuovo… abbiamo creato piccole città nuove con tutti gli impianti necessari, ma cosa è successo? La vita ha le sue esigenze. In una città nuova, una figlia ha una sua determinata occupazione, suo fratello ne ha un’altra e un nipote un’altra ancora. Nessuno di loro riesce a soddisfare le proprie esigenze nella sua città, così devono andare altrove e la gente deve fare 20-30 chilometri al giorno per lavorare. E c’è dell’altro: tutte queste cittadine satellite del dopoguerra, alcune delle quali sono molto carine, ora sono cresciute tutte assieme. A me sembra che questo problema non sia mai stato preso sufficientemente in considerazione.

M. M. Non ha mai provato interesse per l’idea di costruire città piccole intorno alle vecchie?

B. B. Non mi è mai piaciuta. Per dirla con un’espressione significativa, sono sempre stato un topo di città. Amavo l’odore della città vecchia. Ma oggi non condannerei quest’idea. Non condannerei la città come satellite, come cittadina separata dalla città. Oggi vedrei piuttosto una dispersione generale, con persone che vivono al di fuori della città, ma mantenendo uno stile di vita urbano. Se la consideriamo dal punto di vista etimologico, a partire dalla parola civitas civitatis, la città è, ed è sempre stata, civiltà. La città è inscindibile dal concetto di civiltà. Oggi questi due concetti non sono più legati tra di loro, perché una persona può vivere al di fuori della città continuando a restare parte del vortice delle idee urbane, dei bisogni urbani, degli interessi urbani e del pensiero urbano. Questo tipo di vita può piacere ad alcuni, ma non a me, perché io ho bisogno di un ambiente, della città come ambiente.

S. A. L’eredità del comunismo evoca, in molti, l’immagine di catastrofi che coinvolgono la città e l’assetto urbanistico. Uno scenografo ceco dice che gli architetti hanno dato forma alla loro vergogna con il cemento.

B. B. La storia dell’architettura nei paesi socialisti non può essere separata dalla filosofia dei Soviet e dalla città socialista: una specie di assurdità che, al giorno d’oggi, appare come un mostro. La Jugoslavia, per fortuna, è stata capace di evitare questo errore perché l’architettura moderna si è orientata maggiormente verso l’Occidente. Credo che questo non sia dipeso tanto da ragioni politiche, quanto piuttosto da fattori psicologici. Siccome il Compagno Tito era uno snob – al quale piaceva essere amico di imperatori, re e regine – diede carta bianca agli architetti per fare tutto ciò di cui erano capaci. Non abbiamo avuto il realismo socialista in architettura; siamo stati risparmiati, ma al suo posto abbiamo avuto altre forme di nefandezza, le più varie. Il campo dell’architettura, però, era libero. E’ stata una storia diversa da quella di tutte le altre zone in cui esisteva il realismo socialista, dalle repubbliche asiatiche fino all’Europa.

S. A. Ho assistito a un dibattito su come dare nuova vita al quartiere sottostante il Castello di Bratislava, quasi totalmente distrutto durante il periodo socialista. Tra le altre cose, qualcuno ha affermato che l’architettura, o l’assetto urbanistico delle città, è troppo importante per essere affidata a degli architetti.

B. B. Senza dubbio! Sono completamente d’accordo! L’urbanistica è una questione generale dell’umanità. Abbiamo citato Aristotele, ma potremmo citare anche Platone, anche lui aveva idee da urbanista. Erano un po’ altisonanti, fantasiose, ma molto interessanti, tutto sommato. Le sue città sono tre: la prima è quella de la Repubblica, che è puramente mitica, con i tre gruppi sociali e così via; più tardi inventò Atene, la vecchia Atene, che non è mai esistita e, infine, nell’ultimo dialogo, le Leggi, c’era qualcosa di piuttosto confuso. Ma il suo più splendido progetto da urbanista è Atlantide, in cui c’è così tanta fantasia che persino gli architetti moderni potrebbero trarne insegnamento. Atlantide è un esempio di come sia possibile sognare una città che nessuno sarà mai in grado di costruire. E’ uno dei temi eterni dell’umanità. Dopo l’amore, la città è il più affascinante degli argomenti trattati dalla filosofia, dalla letteratura e da qualsiasi altra materia, perché la città è il più complicato di tutti. La città è un argomento molto, molto complesso.

Published 1 December 2004
Original in English
Translated by Fabiana Saviano [from the English version]
First published by Kritika & Kontext (Slovak version); Caffé Europa (Italian version); Eurozine

© Samuel Abrahám / Bogdan Bogdanovic / Miroslav Marcelli / Kritika & Kontext / Caffé Europa / Eurozine

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