La lingua, il dito e la luna

Essere consapevoli della propria lingua, con le sue virtù e i suoi vantaggi oltre ai suoi limiti e alle sue stranezze, è un po’ come aver fatto una lunga psicoanalisi. Rivela il nostro bagaglio umano e culturale: non solo come scrittori, con i nostri pregi e i nostri difetti, ma come individui nati in un certo luogo, in un certo tempo e in determinate circostanze.

Potremmo dire che la nostra lingua è il nostro destino letterario. È anche ovvio che nella nostra lingua possiamo essere noi stessi solo fino a un certo punto (ed essere se stessi sembra un imperativo fondamentale della nostra cultura), poiché siamo tutti soggetti anche a qualcosa di più grande e più forte di noi, che non controlliamo.

Non stupisce che alla fine i filosofi abbiano abbandonato dio, l’esistenza e interrogativi tipo “perché c’è qualcosa invece di niente?” per dedicarsi al linguaggio. Gli scrittori commettono spesso l’errore di considerare la lingua come uno spazio di libertà assoluta, una specie di grande brodo primordiale in cui i loro pensieri e strumenti espressivi, come i primi aminoacidi, prendono forma. Eppure la struttura portante della lingua è qualcosa di predeterminato, su cui abbiamo ben poca influenza: ci veniamo catapultati dentro.

Io sono stata catapultata nella lingua polacca. Sono nata e cresciuta nella parte occidentale della Polonia, che è stata unita al resto del paese dopo la guerra e colonizzata da una miriade di culture e dialetti polacchi. Secondo i linguisti, questo melting pot ha prodotto la lingua polacca di riferimento: a quanto pare, nella bassa Slesia parliamo il polacco standard. In me non c’è traccia di dialetto o accento. Non conosco nessun’altra lingua abbastanza bene da poterla trattare come quella in cui scrivo. Sono monolingue. Sono in grado di comunicare in altre due lingue, ma è una comunicazione semplificata e in qualche modo dolorosa. Potreste espormi all’ufficio internazionale dei pesi e delle misure di Sèvres, nei dintorni di Parigi, come un perfetto esempio di campione di lingua polacca. Sono inglobata nel polacco come un insetto in un pezzo d’ambra. Non è un punto di vista obiettivo, il mio.

La lingua polacca appartiene a un ampio gruppo di lingue slave, e quindi al ceppo indoeuropeo. Cominciò ad apparire in forma scritta piuttosto tardi, nel dodicesimo secolo. L’adozione del cristianesimo romano e non bizantino ebbe un’importanza enorme, perché fece entrare la lingua polacca nella sfera della cultura latina e le fece adottare l’alfabeto romano (mentre alcune lingue slave, come il russo e il bulgaro, basavano il loro alfabeto sul greco). La prima frase scritta in polacco apparve solo nel 1270, nello Księga henrykowska (Libro di Henryków), che vide la luce proprio nella bassa Slesia in un contesto abbastanza curioso. Il testo latino racconta la storia di un certo Bogwal che – fatto, a quanto pare, così insolito da meritare di essere ricordato – aiutava la moglie a macinare il grano. Fu lui che pronunciò la famosa frase Day, ut ia pobrusa, a ti pocziwai, che significa “Lascia che io regga il mulino, e tu rilassati”.

La posizione geografica della Polonia, al centro dell’Europa e circondata da vicini potenti e culture diverse, ha favorito la confluenza di molte parole straniere nella lingua polacca: fino al settanta per cento del vocabolario è composto da prestiti linguistici, una percentuale insolitamente alta. Insomma, il polacco è una lingua composita, una sorta di patchwork, un melting pot e un Mischsprache. Abbiamo assimilato le parole dei nostri vicini commerciando con loro, e grazie a guerre, viaggi, mode e ossessioni. Dobbiamo il nostro ricco vocabolario tecnico ai tedeschi. Ogni novità filtrava nella nostra lingua attraverso i vicini occidentali, e abbiamo avuto grossi problemi anche con loro: i tedeschi che colonizzarono il territorio polacco, per esempio, sono sempre stati un gruppo forte economicamente e ben organizzato. Nel trecento rappresentavano l’ottanta per cento della classe aristocratica di Cracovia, cosa che indusse il re di Polonia a istituire apposta per loro uno speciale test linguistico. Identificò i tedeschi “infedeli” che avevano fomentato una rivolta a Cracovia ordinandogli di pronunciare queste parole: soczewica, koło, miele, młyn (lenticchia, ruota, macina, mulino). Quelli che non riuscirono a pronunciarle correttamente furono puniti.

Molte parole italiane arrivarono in Polonia con la regina Bona Sforza d’Aragona, principalmente termini architettonici, musicali, militari e, soprattutto, culinari. Nel seicento ci fu l’invasione del francese. Ma anche il russo e altre lingue dell’est ebbero una grande influenza, e possiamo perfino vantare alcuni elementi di turco e ungherese. Il latino fornì alla lingua polacca espressioni legate allo studio di idee astratte e religiose. Nel quattrocento e nel cinquecento andava di moda la lingua ceca, e conoscerla faceva buona impressione in società. Durante i lunghi anni delle spartizioni furono portate avanti politiche di intensa germanizzazione e russificazione. Oggi, come in ogni altra parte del mondo, è l’inglese a guidare l’offensiva.

Mi piace l’apertura della lingua polacca all’influenza delle parole straniere: non esistono pericoli da cui si senta minacciata. Nel folle turbinio che si crea, le parole dai suoni più alieni finiscono nel tritacarne della grammatica polacca, che le storpia con le sue desinenze e declinazioni. È una lingua che vampirizza il mondo circostante, una lingua che ha sempre fame. Eppure, in tanti anni di subordinazione alle potenze della spartizione, questa lingua arlecchino ha avuto un ruolo insolito e paradossale, diventando un caposaldo dell’identità nazionale. E la letteratura in cui era scritta è l’unico spazio in cui la cultura polacca è sopravvissuta. La gente ha combattuto ed è morta per parlare polacco.

Per uno scrittore, il traduttore svolge spesso la funzione di un bravo psicoanalista: fa le domande più sorprendenti. Bisognerebbe appuntarsele, conservarle e di tanto in tanto pubblicarle, per dare al lettore la possibilità di apprezzare il miracolo della scrittura e la fatica del tradurre. E anche il miracolo della lingua in generale, grazie al quale cose che ritenevi ovvie e perfino universali all’improvviso perdono la loro coerenza interna per diventare non ovvie e puramente locali. Sono stati i miei traduttori a farmi notare certe caratteristiche della mia lingua, come pure quei valorosi amici stranieri che hanno deciso di imparare il polacco. Spesso si lamentano di una grammatica che è fatta soprattutto di eccezioni, e di dover imparare regole complicate che saranno subito contraddette da eccezioni di ogni tipo. Hanno ragione.

Forse il modo migliore per avvicinarsi alla lingua polacca è impararla in modo intuitivo o a memoria. È una lingua che attribuisce grande importanza alle tradizioni e alle forme storiche, una lingua che è un museo, piena di fossili che rifiutano di arrendersi alla semplicità del pragmatismo. La complessità delle declinazioni non si limita ad aggiungere o eliminare desinenze, ma modifica la radice stessa delle parole. Abbiamo il passato perfettivo e quello imperfettivo, che possono tradire anche il più esperto dei tedeschi bilingue. Nell’ortografia polacca molti suoni identici sono scritti in modi diversi, perché un tempo erano pronunciati diversamente e sono rimasti così nella lingua scritta, seminando il panico tra gli studenti.

Uomini al centro

La lingua polacca non è né logica né pragmatica. Ha una grammatica impegnativa, e perfino la sua strana ortografia è complicata. Nonostante la sua elasticità lessicale, per ragioni del tutto illogiche (e quindi, forse, sentimentali) conserva forme grammaticali e ortografiche legate alla tradizione.

Un altro carattere tipicamente tradizionale del polacco è il suo androcentrismo: dei tre generi previsti, il maschile gode di una posizione privilegiata. I nomi di genere maschile, femminile e neutro sono declinati in base a persona, caso e numero. Naturalmente, anche qui ci sono le eccezioni. Parlando di maschi, diciamo poszli, “sono andati”; parlando di donne, poszły, “sono andate”. Ma se parliamo di un gruppo misto, composto da maschi e femmine, dobbiamo sempre usare il maschile. Questa regola si applica perfino a un gruppo di sessanta donne, se c’è anche un solo uomo: la sua presenza ci obbliga a usare il maschile per tutto il gruppo. Qualsiasi gruppo di donne, bambini e animali assume la forma femminile. La forma privilegiata maschile è riservata ai soli uomini adulti. Naturalmente, come in altre lingue, la parola człowiek, che significa “persona” o “essere umano”, è di genere maschile. Quindi, parlando di esseri umani in generale escludiamo grammaticalmente le donne (e i bambini). Questa connotazione patriarcale si riflette anche nei nomi delle professioni. Mentre altre lingue (come il tedesco, per esempio) se la cavano bene, il polacco ha dei problemi. I nomi delle professioni declinati al femminile suonano come diminutivi del corrispettivo maschile, cosa che spesso dà un’impressione di minore serietà e maschera un intento dispregiativo implicito: la parola che indica un’insegnante donna, profesorka, fa pensare a una versione in piccolo del professore, profesorek.

Come scrittrice – o pisarka, il femminile di pisarz – mi sono trovata spesso a fare i conti con l’androcentrismo del polacco, perché la nostra è una lingua in cui non si può usare la prima persona senza indicare il genere di chi scrive. Il genere appare subito evidente anche nei verbi al passato remoto, e al presente è rivelato dalla forma femminile degli aggettivi. L’inglese Jeanette Winterson ha potuto scrivere un romanzo in prima persona e al presente senza mai svelare il genere dell’io narrante, cosa essenziale alla riuscita del suo libro. Ma la traduttrice polacca si è trovata nei guai: era impossibile ignorare il sesso dell’io narrante, ed era indebitamente necessario assegnare a lui o a lei un genere, in questo caso femminile. Tra l’altro, in polacco “lingua madre” si dice język ojczysty, cioè letteralmente “lingua padre”.

Come tutte le lingue slave, il polacco ha una struttura particolarmente adatta alla costruzione di nuove parole e fa ampio ricorso a diminutivi che si prestano ai più vari giochi linguistici. Questo, secondo me, è un segno del calore della lingua, qualcosa che non si trova nei libri di grammatica e che, come per magia, rende il mondo un luogo straordinariamente sicuro e accogliente. Nessuno in Polonia si stupisce ascoltando le parole di una canzone popolare che racconta di un soldato che va alla wojenka (“guerretta”), impugnando una szabelką (“sciaboletta”), in sella al suo adorato konik (“cavallino”). Esistono molti modi per formare un diminutivo, e si applicano anche ai nomi propri, oltre che ai sostantivi e agli aggettivi.

Fino alla seconda guerra mondiale la Polonia era un paese multiculturale e multilinguistico. Ogni volta che ha incontrato lingue, sensibilità e mentalità diverse, si è rivelato straordinariamente creativo. Non è un caso che i più grandi maestri della lingua polacca siano venuti da zone di confine. C’è la prosa inimitabile e ammaliante di Bruno Schulz, nata dall’incontro tra polacco, yiddish e ucraino. Ci sono la vivida e ricca poesia di Czesław Miłosz, originario della zona di Wilno (oggi Vilnius, in Lituania), e il polacco fiabesco e ahimè intraducibile di Bolesław Leśmian e Julian Tuwim, entrambi ebrei polacchi.

Flessibile, duttile, vaga e imprecisa, tradizionale e grammaticalmente imprevedibile, forse la lingua polacca è fatta più per l’intuizione che per la logica, più per la poesia che per la teoria. Non credo che dia il meglio di sé in una discussione intellettuale o in una cronaca di eventi realistica e lineare. Preferisce forme aperte e ambigue, si presta al farsesco e all’assurdo ed è incline al pathos. Non c’è da stupirsi se la nostra poesia è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. La lingua polacca offre ampi margini di libertà espressiva, soprattutto ai poeti: traccia uno schizzo del mondo, più che descriverlo, e si presta ad associazioni di idee e alla costruzione di immagini, particolarmente adatta a esprimere un’atmosfera, uno stato d’animo, un’intuizione. Secondo Flaubert, quando una lingua comincia a creare immagini si vota al fallimento, perché elude se stessa e scivola nell’anacronismo. Io non sono d’accordo. Una lingua dà il meglio di sé proprio quando trascende i suoi limiti per rappresentare un mondo alternativo; quando, come un prestigiatore, tira fuori dal suo cappello cose che non avremmo mai immaginato. Personalmente, trovo che il polacco sia una lingua arcaica. Riflette il mondo com’era prima che diventasse così vario: quando tutto sembrava più compatto e più “fisico”, quando ci si affidava alle impressioni e il cosa era più importante del come. Per usare una metafora orientale, tratto la lingua come il dito che indica la luna: non mi fermo a lei, vado oltre.

Mi domando fino a che punto la mia sensibilità, le mie percezioni e i miei pensieri siano stati plasmati da una lingua difficile e poco precisa ma estremamente vivida come il polacco. Sarei in grado di esprimere quello che per me è essenziale nella scrittura – un’impressione, un umore, il senso di inquietudine che si cela dietro una parvenza di stabilità e sicurezza – in un’altra lingua? Dovrei essere grata del mio destino linguistico?

Paradossalmente, il polacco è considerato una lingua di minoranza nonostante sia parlato da circa cinquanta milioni di persone in tutto il mondo, tra cui la popolazione degli ebrei polacchi emigrati. È una lingua locale marginale e per di più complicata, che scoraggia molte persone. Il pregio di queste lingue “di minoranza” – soprattutto se si conoscono quelle “di maggioranza” – è che possono rappresentare un rifugio, un terreno battuto e familiare ma inaccessibile al resto del mondo. In passato, vivevo questa sensazione nei grandi aeroporti internazionali, dove potevamo parlare in polacco sicuri che nessuno ci capisse. Oggi non è più così. Con l’aumento dell’emigrazione dalla Polonia, negli ultimi anni la lingua è arrivata in tutto il mondo, anche se non credo che avrà mai una grande diffusione tra gli stranieri. È più probabile che saremo noi a imparare e a usare l’inglese, per comunicare col resto del mondo. Sapremo di avere attraversato il confine e di essere a casa quando entreremo in un bar e la cameriera ci chiederà se vogliamo un kaweczka, “caffettino”, con un mleczko, “lattuccio”. O quando saliremo sull’autobus e il conducente ci accoglierà con un festoso: “Bileciki do kontroli!”, favorire il bigliettuccio, prego!

Questo articolo è uscito il 10 ottobre 2014 nel numero 1072 di Internazionale. Era stato pubblicato sul sito Eurozine con il titolo A finger pointing at the moon. Il 10 ottobre 2019 a Olga Tokarczuk è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura per il 2018.

 

Published 10 January 2020
Original in Polish
Translated by Diana Corsini
First published by Magyar Lettre Internationale 89 (2013) (Hungarian version); Luc Devoldere (ed.), Standing tall in Babel. Languages in Europe, Ons Erfdeel, 2007 (English version); Internazionale 1072, 11.10.2019 (Italian version)

Contributed by Internazionale © Olga Tokarczuk / Magyar Lettre Internationale / Internazionale / Eurozine

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