Joschka Fischer intervistato da Alessandro Cavalli

Joseph Martin “Joschka” Fischer (1948) è stato vicecancelliere e ministro degli Esteri tedesco nel governo a guida socialdemocratica di Gerhard Schröder, dalla fine degli anni Novanta al 2005. Dopo avere abbandonato la scuola a quindici anni, in gioventù ha svolto vari lavori: da operaio alla Opel, a tassista, a libraio. Entra a far parte dei Grünen nel 1977, agli albori del periodo che vedrà il partito ambientalista e pacifista tedesco guadagnare rapidamente peso politico e spazio nel Parlamento della Germania occidentale. Nel 1983 è eletto al Bundestag. In rappresentanza dei Verdi è prima ministro dell’Ambiente dell’Assia e successivamente, alla metà dei Novanta, presidente del Bundestag. In ruoli di primo piano nei due governi di coalizione guidati da Schröder,
mostra le proprie capacità anche sulla scena europea e internazionale. Il suo animo radicale, che già aveva manifestato agli albori della carriera come membro di alcune organizzazioni di estrema sinistra, ne caratterizza
le posizioni anche nel corso della maturità politica. Ma la sua azione è spesso segnata da mosse controverse. Si pensi alla decisione di sostenere l’invio di 5.000 militari tedeschi in Kosovo a fianco della Nato, che irritò molti esponenti del suo partito. O alla netta avversione mostrata nei confronti dell’alleato americano all’epoca dell’invasione dell’Iraq, nel 2003, quando si contrappose con decisione all’allora segretario di Stato americano Donald Rumsfeld.

Ancora oggi la sua popolarità in Germania lo rende uno dei politici più ascoltati dall’opinione pubblica. Ha sostenuto la nascita del Gruppo Spinelli per il rilancio dell’integrazione europea, di cui è tuttora membro. Dei molti libri divulgativi, in gran parte dedicati al futuro e ai dilemmi dell’Europa, l’ultimo pubblicato è Scheitert Europa (Kiepenheuer & Witsch, 2014), la cui traduzione italiana è annunciata per i prossimi mesi.


Alessandro Cavalli:
Partiamo dalla Grecia, dal momento che tutti sembrano essere concordi sul fatto che la civiltà europea abbia avuto inizio lì. Molti hanno avuto l’impressione che il governo tedesco, almeno sinora, abbia adottato un atteggiamento di paziente attesa che è probabilmente positivo al momento, ma non risolve il problema.

Joschka Fischer: È una questione molto complicata. Prima di tutto, non condivido l’atteggiamento del governo tedesco, che vuole trasformare i greci in un popolo di buoni protestanti. È quasi una tragedia: chi sa che cosa succederà quando in Germania i conservatori che sono al governo si renderanno conto che ciò non potrà mai accadere. Per contro, il nuovo governo greco si comporta in modo, oserei dire, infantile. Temo che il governo greco faccia di tutto per arrivare alla fine a un vero e proprio disastro. Sembra che continui ad alimentare uno stato d’animo di rivendicazione e protesta, senza rendersi conto che ha a che fare con altri Paesi, con altre opinioni pubbliche, con impegni presi. Spero che non si arrivi al disastro, ma ho molti dubbi.

Joschka Fischer pays George A. Papandreou a visit, 9 February 2011. Photo: The office of the prime minister of Greece. Source:Flickr

AC: La visita del Primo ministro Tzipras a Vladimir Putin non è forse quello che ci si sarebbe potuto augurare.

JF: Innanzitutto, se il Primo ministro greco decide di fare una visita a Mosca è una decisione del Primo ministro greco. Se, invece, c’è sotto l’idea di cambiare protezione, questo di nuovo sarebbe un disastro. Speriamo nel meglio, ma non chiudiamo gli occhi di fronte al peggio.

AC: Una delle ipotesi non per risolvere ma per alleviare il problema della Grecia sarebbe di ridurre le spese militari, che oggi sono al 2% del Pil greco.

JF: È uno dei punti che in effetti non capisco. Vogliono, come è giusto, migliorare le condizioni di vita dei più poveri: possono farlo, non hanno bisogno di chiedere il permesso, devono tagliare il bilancio militare e nessuno li rimprovererà per questo. Serve qualche decina di milioni per migliorare le abitazioni e la sanità? Bene, basta toglierli dal bilancio per gli armamenti. Se ciò sia possibile con la coalizione attuale, che include un partito molto nazionalista di estrema destra, è un’altra questione. Personalmente non vedo con favore questo governo, non ho per nulla fiducia nel governo Tzipras. Proprio perché mi sembra una coalizione fondata sul nazionalismo.

AC: Ad ogni modo, il vero problema sembra non essere la Grecia, bensì la moneta unica.

JF: Sono d’accordo. La Grecia è un problema a sé. Quello che non capisco dell’attuale governo greco è che deve seriamente pensare a riformare il Paese, indipendentemente dal fatto che questo continui a essere membro dell’area euro o meno. Se va avanti così,non c’è futuro. Non dipende da quello che pensano gli altri europei, i greci devono comunque fare alcune trasformazioni strutturali, creare le strutture di base dello Stato. Questo è il loro problema. L’altro, assai più grave, è l’Europa. L’Italia, la Spagna, in parte anche la Francia e il rapporto dell’area mediterranea con i Paesi del Nord: questi sono i fattori chiave. Penso che la crisi greca possa essere utilizzata come un’opportunità per incominciare un dibattito serio all’interno della famiglia, tra il Nord e il Sud d’Europa. Abbiamo bisogno di quello che in Germania chiamiamo un heiligendes Gewitter (“temporale purificatore “), che liberi il cielo dalle nuvole, abbiamo bisogno di un dibattito aperto tra Nord e Sud, senza il quale temo si vada incontro a problemi seri.

AC: Ma lei crede che una sorta di “intesa cordiale” tra i Paesi meridionali sia possibile e desiderabile?

JF: Se c’è una sorta di cooperazione, di intesa comune, va bene, ma se l’idea sottostante è di unirsi per fare pressione sul Nord, fare fronte comune, non credo che funzioni. Prenda la Francia, ma anche l’Italia: non sono solo Sud, sono anche Nord. Sono due realtà divise, non solo dal punto di vista storico o ideologico. L’Italia del Nord, se guardiamo alla struttura industriale, all’impresa famigliare, all’etica del lavoro, è assai diversa dal Sud. La Francia, poi, che è tanto mediterranea quanto atlantica, sarebbe messa in una situazione impossibile.

AC: Nel suo ultimo libro lei sostiene che non si può fare a meno di una forte intesa franco-tedesca. Quali sono, al momento attuale, gli ostacoli che si frappongono a questa linea?

JF: L’ostacolo maggiore è che attualmente tra questi due Paesi c’è uno squilibrio, perché mentre la Germania è in una situazione piuttosto buona, la Francia non lo è tanto. Questo è un problema serio. C’è poi un elemento ulteriore. Nella relazione franco-tedesca c’è sempre stato un fattore di ri-equilibrio e l’Italia ha giocato un ruolo molto importante da entrambe le parti. Dagli anni dei governi Berlusconi, l’Italia ha perso questo ruolo, ed è un peccato, non dico un disastro ma quasi. Ci mancano la voce dell’Italia e la sua funzione ri-equilibratrice, una funzione molto importante nel binomio franco-tedesco e molto importante per l’intera costruzione europea. Ma gli anni di Berlusconi hanno interrotto il funzionamento di questo sistema.

AC: In Italia, soprattutto a destra, c’è chi pensa che per noi sia stato un errore entrare nell’euro.

JF: Dobbiamo chiederci dove sarebbe finita l’Italia senza l’euro. Voglio essere molto franco. In quel periodo ero all’opposizione nel Parlamento tedesco, Prodi venne a Bonn per perorare la causa dell’entrata ed io ero presente al primo incontro. Allora, soprattutto all’interno della Cdu, vi erano pressioni per tenere il vostro Paese fuori dalla moneta unica. Capisco le frustrazioni attuali, ma il fatto che l’Italia abbia perso competitività non è una conseguenza dell’euro, ma dipende dai governi a guida Berlusconi e dagli errori conseguenti. Adottando la moneta unica, l’Italia ha goduto dell’enorme vantaggio di tassi di interesse molto più bassi. Che ne è stato di questo vantaggio? Questo non è un problema europeo, mi spiace dirlo, è un problema italiano.

AC: Non posso che essere d’accordo. Però i problemi di bilancio sono iniziati prima dei governi Berlusconi.

JF: In un primo momento Berlusconi ha dato l’impressione di poter modernizzare la vostra economia, mentre è accaduto esattamente il contrario. È stata una tragedia. Però non si può confrontare il vostro Paese con la Grecia, l’Italia ha un’economia forte gestita male. I problemi sono di direzione, di management, non di sostanza. Prendiamo il debito pubblico. La gran parte del vostro debito pubblico è nelle mani dei cittadini italiani. Visto dal di fuori, da un punto di vista tedesco, è qualcosa di molto strano, gli italiani non amano pagare le tasse, però sono disposti a prestare denaro allo Stato, dietro la promessa di un interesse. Non me ne rendevo conto. Non riusciamo a capirci. È una cosa che un tedesco non riesce a capire. Ma credo che sarebbe assai istruttivo poter discutere di queste differenze.

AC: Basterebbe ridurre della metà l’evasione fiscale italiana per risolvere gran parte dei problemi di deficit di bilancio, ma per farlo bisognerebbe contare su un’amministrazione onesta e competente.

JF: Questo è il vero problema, il rapporto dei cittadini con lo Stato. Un rapporto diverso in ogni Paese europeo. Ho riflettuto a lungo sull’Italia e mi sono chiesto se lo sviluppo della storia non sarebbe stato diverso se gli Staufen non fossero stati sconfitti dal Papa, se Federico II avesse potuto sviluppare il suo regno nel Mezzogiorno. Comunque, adesso abbiamo un problema in Europa, e non solo in Italia, tra il Nord e il Sud. Ed è ovvio che la modernizzazione della parte meridionale dell’Unione europea sia una sfida comune, che lo si voglia o no. Mentre purtroppo non è vista in questo modo. Anche gli americani avevano un problema negli Stati del Sud che è durato molti decenni (e per certi versi dura ancora), ma hanno trovato il modo per affrontarlo. Noi europei dobbiamo fare uno sforzo, incominciare a discuterne. Anche in Spagna vi è un divario tra Nord e Sud che però è rovesciato, nel senso chela Catalogna è più sviluppata e moderna del Nord.

AC: Cambiando discorso, dappertutto in Europa si stanno sviluppando dei movimenti populisti fortemente nazionalisti. Ciò succede anche in Germania, ma in una forma che sembra più contenuta.
Cosa ne pensa?

JF: Noi siamo in una situazione molto particolare. Da noi la destra ha commesso crimini talmente enormi da portare il Paese quasi completamente alla rovina. Nella gente è radicato il sentimento che non si può tornare indietro, che non ci si può illudere di cancellare il passato. Tuttavia, la situazione è quella che è. I nazionalismi ci sono. Non bisogna mai dimenticare la frase con cui François Mitterrand chiuse il suo ultimo discorso al Parlamento europeo: “Le nationalisme est la guerre”. Sono state le sue ultime parole e aveva ragione. Tuttavia, i movimenti nazionalisti non mi fanno troppa paura, sono più preoccupato del comportamento opportunistico dei partiti di centro, l’opportunismo di centro è il vero pericolo.

AC: Tempo fa sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ho letto un articolo in cui, in riferimento alla Germania, si parlava di “potenza di mezzo”, un’espressione che era diventata desueta e che ora
ricompare. Che peso dobbiamo dare a questo ritorno?

JF: In Germania c’è un lungo dibattito che trova il proprio fondamento nella geografia. Il Paese è nel centro dell’Europa, a metà strada tra l’Adriatico e il Mediterraneo e il Mar Baltico e il Mare del Nord, tra Est e Ovest. Credo che la Germania in Europa sia il Paese che ha il maggior numero di confinanti. La posizione centrale è quindi in primo luogo geopolitica. Il nostro destino è di stare al centro. Poi la Germania è troppo grande per l’Europa e troppo piccola per poter avere un ruolo globale come Stato indipendente. Questo è il perno intorno al quale ruota il dibattito da noi. Ed è importante che il dibattito continui, perché ci siamo svegliati e improvvisamente ci siamo accorti di avere un ruolo da leader, almeno in Europa, ma senza averne la voglia. Il Paese non aveva la minima idea di che cosa volesse dire avere un ruolo egemone. Dunque che il dibattito sia incominciato è una buona cosa, ma non dovrebbe limitarsi alla Germania, dovrebbe essere di respiro europeo e coinvolgere tutti, la Francia, la Spagna, anche l’Italia. È un dibattito che è importante anche per l’Italia. Dobbiamo farlo insieme, dobbiamo entrare insieme nel XXI secolo.

AC: Lei ha sostenuto che bisognerebbe coinvolgere i Parlamenti nazionali per rafforzare le istituzioni europee. L’impressione che si ricava dalla lettura del suo ultimo libro è che ci sia in lei sfiducia nel Parlamento europeo, almeno così come è attualmente.

JF: Il Parlamento europeo ha un ruolo e una funzione continentali, ma ha una grave carenza di legittimità. In tutti gli Stati membri la maggioranza degli elettori lo vede come un’altra istituzione burocratica e non come il rappresentante degli interessi delle persone. Che si abbia fiducia o meno nei governi nazionali, alla fine sono loro ad avere la legittimità. Quando gli italiani pensano ai loro problemi e a quelli del mondo pensano a ciò che accade a Roma, non a quello che succede a Bruxelles. Come possiamo costruire questa legittimità che è l’elemento chiave della democrazia? Come trasferire legittimità dagli Stati membri alle istituzioni europee? Non lo si può fare senza i Parlamenti nazionali e senza i governi.

Forse mi sbaglio, ma non riesco a trovare un’altra soluzione. Non credo che ci si possa svegliare una mattina e pensare che la Commissione sia diventata l’esecutivo europeo e il Parlamento sia il legislativo europeo. Gli Stati hanno perso sovranità ma non legittimità. Il vero problema è come si possa trasferire legittimità a Bruxelles. In questo trasferimento abbiamo bisogno tanto dei governi quanto dei Parlamenti nazionali. Sarebbe molto più facile se avessimo una Camera dei rappresentanti dei Paesi dell’euro dove poter discutere degli interessi comuni, non per tutte le questioni, ma almeno per il bilancio, la finanza, le questioni costituzionali; e un giorno forse la politica estera e militare. Ma non le questioni spesso irrilevanti di cui si occupa ogni volta l’attuale Parlamento europeo.

Vedrei un Parlamento composto da rappresentanti designati dai Parlamenti nazionali e cercherei di fare in modo che vengano mandati i leader dei gruppi parlamentari, non figure di secondo piano, ma le élite di governo e di opposizione. In una prospettiva di lungo periodo, si può prospettare un sistema bicamerale, il Parlamento europeo e la Camera degli Stati, una a Bruxelles e una a Strasburgo, così si risolverebbe anche questo problema. Non sarebbero neppure necessarie lunghe sessioni di lavoro, basterebbe una settimana al mese. Il problema, lo ripeto, è come trasferire legittimità dal livello nazionale al livello europeo. Messi in un Parlamento europeo, i rappresentanti si focalizzerebbero in modo completamente diverso. Il loro numero dovrebbe essere ridotto, poniamo ad esempio la metà rispetto a quelli che compongono il Parlamento attuale. Mentre oggi all’Italia spettano 70 parlamentari, se ne sceglierebbero soltanto 35, in base alla proporzione dei risultati elettorali, pochi ma autorevoli. Non sarebbe per il momento un Senato, come negli Stati Uniti, o un Bundesrat, come nella Germania federale; forse successivamente potrebbe prendere quella direzione, ma ora abbiamo bisogno di un passo intermedio e nonvedo come si possa farlo senza i Parlamenti o i governi nazionali.

AC: Ma quanto le pare realistico che si possa davvero compiere questo passo? È ottimista a tale proposito?

JF: Non è una questione di ottimismo. Io credo veramente che nel XXI secolo, come europei – italiani, francesi, spagnoli o tedeschi – siamo tutti perduti se non riusciamo a essere uniti. Nessuno può farcela da solo, dipende solo da noi. Non è quindi una questione di ottimismo, sono sicuro che non c’è alternativa. Se restiamo disuniti, faremo la fine dell’Italia del XIV secolo. Perché a un certo punto arrivarono il Re di Francia e il Kaiser? L’Italia allora era ricca, vecchia e florida, ma i suoi Stati erano deboli e disuniti. A quel tempo gli italiani erano più avanti di tutti, nella scienza, nella cultura, in ogni campo. E questo è il destino che ci attende come europei del XXI secolo, se non ci uniamo.

AC: Vediamo un altro punto di cui si discute molto. Cosa ne pensa delle negoziazioni sul trattato di libero scambio tra Europa e Stati Uniti?

JF: Se ne discute molto e, da un punto di vista geopolitico, faremmo un errore terribile se non riuscissimo a concludere i negoziati con un risultato positivo. Come europei, siamo posti di fronte alla sfida russa, alla sfida mediorientale, non viviamo in un’isola, siamo parte di un emisfero molto più grande. Il rapporto transatlantico è la chiave della nostra indipendenza, della nostra libertà, della pace e del benessere. L’America guarda all’altra sponda dell’Oceano Pacifico, è un Paese nello stesso tempo “atlantico” e “pacifico”, se noi non intensifichiamo i nostri legami con l’America, come europei rischiamo di restare isolati. Per me quindi si tratta di un problema squisitamente geopolitico, non è una questione di importazione o di esportazione di polli o di qualcos’altro.

AC: Al di là della geopolitica, ci sono interessi economico-finanziari coinvolti. Ad esempio, se l’euro supera la crisi attuale, quali saranno i rapporti tra euro e dollaro nel commercio internazionale?
L’euro potrebbe diventare una moneta di riferimento negli scambi a livello mondiale?

JF: Dipende dall’Europa. Il dollaro è diventato una moneta globale negli scambi mondiali sulla base del ruolo di super-potenza degli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale. Non è stata una decisione volontaria, una decisione politica, è stata una conseguenza che rifletteva i rapporti di potere
reali. In questo senso anche in futuro l’euro dipenderà dai rapporti di potere.

Una cosa mi sembra ovvia: se guardiamo avanti, ciò che possiamo prevedere fin d’ora è che il mondo di domani sarà diviso tra gli Stati Uniti e la Cina. L’Europanon sarà in grado di esercitare un ruolo a quel livello, però gli europei saranno prima o poi posti di fronte alla sfida che l’America o la Cina ci costringano a prendere posizione, cosa che non sarebbe nel nostro interesse. In secondo luogo, dobbiamo renderci conto che l’Europa non è una potenza mondiale, però potrebbe essere il fattore che fa la differenza nel caso di scontro tra le due super-potenze. Non è una bella posizione per noi. Se l’Europa riuscisse a mantenere una posizione moderata ed equilibrata in modo molto accorto, sarei molto più contento. Però che in futuro avremo a che fare con l’America e con la Cina è ormai scontato.

AC: E il ruolo dell’Africa e dell’America Latina?

JF: Non avranno un ruolo a questo livello. Sono molto importanti, ma non a questo livello. Prendiamo l’Africa. Vi sono interessi europei, cinesi, tutti parlano della Cina, ma anche gli interessi americani sono molto forti, soprattutto nell’Africa orientale, nel Sudan meridionale e altrove, le imprese americane fanno grandi investimenti. Per noi l’Africa è un vero problema regionale. È un vero peccato che siamo così deboli e che non siamo capaci di superare l’orizzonte temporale post–coloniale nelle nostre politiche nei confronti dell’Africa. L’Africa è un continente tanto grande quanto molto complesso. E nel XXI secolo avrà un ruolo molto importante dal punto di vista economico. Ci sarà molta crescita, demografica, ma anche economica, della produzione agricola, ci saranno anche grandi rischi e l’Europa non ha una vista abbastanza lunga per affrontare i problemi di quest’area che pure è così vicina.

AC: C’è poi il problema delle migrazioni. Noi italiani siamo il confine meridionale dell’Europa, esposti alle migrazioni attraverso il mare, ma in tutt’Europa, anche in Germania, si discute molto delle migrazioni. Come rispondere all’allarme che i fenomeni migratori suscitano nell’opinione pubblica europea?

JF: Tutti noi, non c’è bisogno di ripeterlo, abbiamo bisogno di immigrati, semplicemente per ragioni demografiche. Non possiamo più farne a meno, senza di loro sarebbe un disastro. Ad esempio, senza le badanti per curare i nostri vecchi, in Italia come in Germania, o nei Paesi scandinavi. In generale, in Germania siamo riusciti a mantenere la popolazione stabile intorno agli 82 milioni solo sulla base degli immigrati. Una delle decisioni più importanti prese durante gli anni del governo Merkel è stata l’apertura della Cdu nei confronti degli immigrati. Ed è estremamente importante che a dire “siamo un Paese di immigrazione ” siano proprio i conservatori, perché quando ciò accade la situazione cambia, e cambia anche l’atteggiamento della sinistra che spinge verso una politica di integrazione: imparare la lingua, partire dai bambini. Da questo punto di vista credo che la Germania sia oggi più avanzata, nonostante gli episodi di intolleranza. Anche le chiese hanno svolto un ruolo molto importante. Pensiamo alle tragedie umanitarie in Siria, nel Medioriente, dove a essere minacciati sono soprattutto i cristiani, come si fa ad andare in chiesa se non si possono proteggere i fedeli? Tuttavia ci sono sempre forti resistenze, che si possono spiegare, ma non comprendere, da un punto di vista sociologico.

Le migrazioni sono una delle questioni chiave per l’Europa, per tutti i Paesi europei, ma dobbiamo mettere in gioco delle organizzazioni che sappiano produrre integrazione. Ne abbiamo veramente bisogno. A parte la debole ripresa della Francia e dei Paesi scandinavi, in tutt’Europa la popolazione è destinata a ridursi drasticamente. La trasformazione è stata rapidissima, chi l’avrebbe detto che l’Italia che era considerata una cultura fondata su grandi famiglie, con molti figli, sarebbe diventata un caso di declino demografico?

Published 28 July 2015
Original in Italian
First published by Il Mulino 3/2015

Contributed by Il Mulino © Joschka Fischer, Alessandro Cavalli / Il Mulino / Eurozine

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