IK: Quello che i populisti non hanno è una società modello con un fascino universale. Questo rende il nazionalismo autoritario molto diverso dal comunismo, che – che uno sia d’accordo o meno – era una visione universale del mondo. Non credo che il modello di Orbán possa viaggiare come vorrebbe. È troppo precondizionato da una tradizione politica e troppo radicato in circostanze particolari. L’Europa centro-orientale è estremamente omogenea dal punto di vista etnico, come risultato della seconda guerra mondiale e degli sviluppi successivi – pulizia etnica, distruzione e così via. L’Ungheria è fondamentalmente uno Stato monoetnico, il che crea il timore della diversità etnica e della scomparsa nazionale. Non si può nemmeno spostare il modello Orbán in Austria. Stiamo parlando di due realtà sociali molto diverse.

Il rapporto tra nazionalismo e democrazia nell’Europa centro-orientale dopo il 1989 è molto diverso da quello che è successo nell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945, il male era il nazionalismo. Ma nell’Europa centrale e orientale, l’internazionalismo era la lingua dei comunisti. Il nazionalismo è sempre stato parte della coalizione anticomunista, ed era particolarmente forte in Polonia. I liberali e i nazionalisti formarono una coalizione per rovesciare il comunismo, e nel 1989, a differenza del 1945, molti nazionalisti si sentirono vincitori. Nei primi anni questo era abbastanza evidente. Se si considerano alcuni dei leader postcomunisti del 1990, il loro principale modo di rivendicare la legittimità è stata la retorica nazionalista. Ma poi sono arrivate le guerre jugoslave. Quello che è accaduto nei Balcani ha profondamente plasmato il periodo del dopoguerra fredda. In primo luogo a causa dei timori che le guerre hanno suscitato. In secondo luogo perché il nazionalismo era ormai molto associato agli ex comunisti – il leader serbo Slobodan Milošević era il modello nazionalista. Orbán era molto più opportunista, ma Kaczynski rimase coerente nella sua visione del mondo: non poteva parlare la lingua del nazionalismo perché non riusciva a identificarsi con Milošević. Così facendo, avrebbe invalidato l’intera sua biografia.

Ci volle l’11 settembre e l’ascesa dell’islamofobia perché queste persone tornassero indietro e coniugassero l’idea di democrazia con la sovranità nazionale. Ciò che rende questi leader molto diversi dai classici dirigenti autoritari è che non si può immaginare nessuno di loro senza elezioni. E qui torniamo alla questione demografica. Ricorderete che nel 1953, dopo la rivolta anticomunista a Berlino est, Brecht chiese se non sarebbe stato più semplice per il governo “sciogliere il popolo ed eleggerne un altro”. Paradossalmente, la libertà di movimento ha reso possibile tutto questo. Facendo diversi giochi con le istituzioni, i governi di molti paesi dell’Europa orientale hanno potuto eleggere un “altro” popolo.

Se sei un ungherese che vive in Transilvania, votare alle elezioni ungheresi è facile. Se sei uno dei tanti ungheresi che vivono a Londra, d’altra parte, c’è un solo seggio elettorale. Questo è un grande cambiamento nel modo in cui funzionano le democrazie.

In una società polarizzata con un’informazione parziale non si tratta di cambiare idea, ma di mobilitare la propria parte e smobilitare l’altra. Si può fare questo attraverso decisioni istituzionali. Se hai intenzione di destituire dei suoi diritti una grande diaspora che vive nell’Europa occidentale, e allo stesso tempo dare potere a una diaspora che vive in un paese vicino, allora, in un certo senso, stai eleggendo il tuo popolo.

Molte delle cose che vediamo a Est avvengono anche dalla parte occidentale – non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Naturalmente, l’omogeneità etnica nell’Europa centrale e orientale rende molto più facile la mobilitazione. Secondo i sondaggi gli ungheresi che affermano di aver visto un UFO sono più numerosi quelli che sostengono di aver conosciuto personalmente o incontrato un rifugiato. Nell’Europa centrale e orientale, l’Altro è totalmente immaginario, astratto. I populisti stanno sfruttando qualcosa che c’è già lì.

SG: La Germania esce male nel vostro libro. Dedicate un capitolo alla “nuova ideologia tedesca”, che lei descrive come “post-nazionalismo de-storicizzato e patriottismo costituzionale culturalmente blando”. Ma l’Unione europea non è mai stato un progetto post-nazionale, al contrario. È una cosa di cui si parla poco nei discorsi di sinistra in Germania. L’altro aspetto della sua critica alla Germania riguarda il tentativo di sostituire all’ingrosso le élite comuniste dopo l’89, sul modello della reintegrazione degli ex nazisti negli anni Cinquanta.

IK: Siamo critici nei confronti della Germania perché la ammiriamo e proviamo una sincera simpatia per essa. Ma nessuno può capire l’Europa dell’Est senza comprendere il ruolo centrale che le politiche tedesche e il modello tedesco hanno giocato nella transizione postcomunista. Una domanda importante per me era perché la riunificazione tedesca non è riuscita a diventare un modello per l’Europa centrale e orientale. È molto difficile universalizzare l’esperienza tedesca. In primo luogo, la visione tedesca del nazionalismo è stata profondamente influenzata dal periodo nazista. Era impossibile aspettarsi che i polacchi, che avevano combattuto contemporaneamente i sovietici e i nazisti, vedessero il loro nazionalismo negli stessi termini. La totale illegittimità del nazionalismo, che era assolutamente comprensibile nel caso della Germania, non poteva essere trasferita ad Est. Non sto criticando i tedeschi per quello che hanno fatto, ma credo che abbiano trascurato il contesto eccezionale in cui questo è accaduto.

La seconda cosa è che dopo il 1989, la Germania ha cercato di insegnare all’Europa orientale non come ha fatto le cose dopo il 1945, ma come avrebbe dovuto farle. Per vent’anni c’è stata un’amnesia sul comportamento delle persone durante il periodo nazista. Non sto dicendo che era sbagliato; ad essere assolutamente onesti, non credo che ci fosse scelta. Che questo facesse o meno parte del successo della Germania occidentale, non era certamente qualcosa che la Germania era pronta ad esportare dopo l’89. Questo ha creato risentimento, e spiega in parte i problemi che la Germania dell’Est sta affrontando. La Germania è l’unico luogo in cui è avvenuta la sdecomunisticazione. Ma poiché ha avuto luogo in modo asimmetrico, si finisce con una delle versioni più estreme del populismo di destra. La crisi del modello tedesco è stata ancora più grave perché la Germania era la copia perfetta. In un certo senso era meglio dell’originale. Ma nel momento in cui divenne un modello per tutti gli altri, le si è ritorto contro.

RKP: Dopo la seconda guerra mondiale la legittimità dei regimi sia ad est che ad ovest si basava sulla confessione della Germania della sua colpa esclusiva e incomparabile. Questo sanciva un tabù sulla complicità con i crimini dei nazisti. Questo vale sia in Austria che in Ungheria, Polonia e altrove. Il rifiuto di ammetterlo oggi è una caratteristica tipica della destra populista.

IK: Questo è il motivo per cui la Germania sarà essenziale per il futuro dell’Unione europea. Dopo la seconda guerra mondiale ci sono stati due paesi che non hanno avuto il lusso di parlare di se stessi come vittime. Uno erano gli Stati Uniti, perché erano così potenti, e l’altro era la Germania. Ora, sotto Trump, gli Stati Uniti si presentano come la vittima finale del mondo del dopoguerra fredda. Anche in Germania, alcune forze politiche hanno cominciato a dire sempre più spesso che la Germania è la vittima principale dell’integrazione europea – che tutti vogliono spendere i loro soldi, che sono accusati di tutto. Una parte di ciò è valida. Ma nel momento in cui il più potente diventa la vittima più importante, la legittimità dell’intero progetto viene persa. Questo è uno dei lati più oscuri dell’immaginario di coloro che oggi sono al potere: vogliono essere visti come le vittime, ma possono agire come i cattivi. Questo è ciò che mi spaventa di più.

SG: Il ruolo dei dissidenti dell’Europa orientale è una parte importante della critica di Aleida Assman. Ci sono due aspetti da considerare: primo, che non si considerano i processi transnazionali coinvolti nel movimento per i diritti umani dalla metà degli anni 1970, un processo che precede l’89. Non tenendo conto di questa storia dei diritti umani e del contributo dei dissidenti – e questo è il secondo aspetto – lei sostien la narrazione dell'”imperialismo culturale” occidentale e, indirettamente, la narrazione illiberale. Invece, per dirla con Assmann, il suo dovere come intellettuale europeo avrebbe dovuto essere quello di fornire una narrazione di tipo integrativo e terapeutico. La storia della dissidenza e dei diritti umani, sostiene Assmann, fornisce uno strumento ideale per questo.

IK: Aleida Assmann sostiene che, per salvare il liberalismo, dobbiamo ripristinare la centralità dei diritti umani come idea fondante nella nostra comprensione del 1989. D’altro canto, dice che dobbiamo distinguere tra liberalismo e neoliberismo, per quanto lo si possa definire. Questo era il programma di riforma predominante dopo il 1989. Ma è più facile dirlo che farlo. Ha perfettamente ragione ad affermare che il movimento dissidente ha avuto una forte tendenza anticapitalista. Questo è stato certamente il caso di persone come Václav Havel, Jacek Kuroń e di una parte del movimento Solidarność. Ma nel 1989, alcuni dei principali dissidenti decisero che uno dei temi principali dell’agenda politica dei loro paesi era quello di diventare più simili alle società occidentali, che consideravano “normalità”. Kuroń è stato grande su questo: ha detto che dovremmo prima cercare di costruire il capitalismo e poi combatterlo. I dissidenti decisero che il loro antico anticapitalismo era pericoloso e che non volevano che fosse strumentalizzato. Così, invece, hanno deciso di essere politicamente efficaci.

La terapia d’urto per la transizione economica da socialismo a economia di mercato è stata fortemente sostenuta da Adam Michnik, Kuroń, Bronisław Geremek – alcuni dei nomi chiave della tradizione dissidente. È stata una decisione politica, ed era anche un dilemma morale. Per esempio, Michnik non accettò azioni di Gazeta Wyborcza quando divenne un’impresa commerciale. Stava sostenendo il capitalismo ma non voleva essere un capitalista. Uno dei nostri argomenti principali è che l’occidentalizzazione era su invito. Nessuno imponeva niente a nessuno, siamo stati noi a spingere per ottenere la maggior parte delle cose.

C’è stata un’interessante controversia su un libro di Stephen Kotkin e Jan Gross chiamato Uncivil Society. Il loro argomento principale era, smettiamola di prenderci in giro: La Polonia non è il modello per l’Europa centrale e orientale. La Polonia è il paese dove c’era un movimento anticomunista di massa, con 10 milioni di membri: Solidarność. Ma è stato eccezionale. C’erano centinaia, probabilmente migliaia di dissidenti in Cecoslovacchia e Ungheria, ma è stata l’attrazione del consumismo occidentale più che quella del liberalismo occidentale a decidere l’esito della guerra fredda. I diritti umani erano certamente presenti nell’89 e molto importanti per la sua legittimazione. Ma c’erano anche motivazioni meno lungimiranti dietro la volontà delle società dell’Europa orientale di diventare come l’Occidente.

Parte della legittimità dei difensori dei diritti umani degli anni Settanta e Ottanta è stata quindi utilizzata per giustificare le stesse politiche che Aleida Assmann ritiene delegittimassero la transizione. Dovremmo ricordare che per molte persone nell’Europa centrale e orientale, in particolare per la generazione più anziana, il capitalismo era molto più legittimo della democrazia. Per loro, la democrazia significava votare diversamente ma ottenere lo stesso risultato.

RKP: Parte dell’eredità dei dissidenti sono Orbán e Kaczynski stessi, entrambi cresciuti dal 1989 e non possono essere semplicemente liquidati come anomalie. Un’altra parte enorme di questo patrimonio è costituita da persone come Ferenc Kőszeg – il fondatore del Comitato ungherese di Helsinki – e altri che oggi sono figure centrali in organizzazioni che sono sulla lista nera del governo Orbán. O Paweł Adamowicz, il defunto sindaco di Danzica, un leader studentesco dissidente degli anni Ottanta, che è stato bersaglio di campagne diffamatorie sui media amichevoli di PiS per anni prima di essere assassinatp nel gennaio 2019. L’eredità dei diritti umani e l’auto-organizzazione civica sono il nemico designato di Fidesz e PiS.

IK: L’eredità dei dissidenti è molto più diversificata di quanto sembri. Parte della resistenza anticomunista erano persone come József Antall, un conservatore tradizionale – rispetto a quello che vedete oggi, era un liberale a tutto tondo! Veniva da una tradizione che guardava alla famiglia e alla nazione, basate sui diritti naturali. Naturalmente c’è anche una tradizione di dissidenza molto più liberale e cosmopolita. Aleida Assmann ha assolutamente ragione ad insistere sul fatto che la questione è condivisa tra Est e Ovest.

Direi persino che l’Est era intellettualmente più influente in Occidente negli anni Settanta e Ottanta che negli anni Novanta. Ciò che è interessante è che, nel 1990, c’erano molti simpatizzanti di sinistra in Occidente che credevano che la fine del comunismo avrebbe reinventato la democrazia e il liberalismo. Un esempio è stato Bruce Ackerman, nel suo libro The Future of The Liberal Revolution. C’è stato un grande dibattito sul fatto che avremmo costruito qualcosa di nuovo, o se l’Est sarebbe stato assimilato. C’erano molte più persone in Occidente interessate a trarre qualcosa dall’esperienza dell’Europa orientale.

Questo è importante, perché l’eredità dissidente è stata in gran parte trasformata dal fatto che molti dissidenti erano stati in una posizione di potere, anche se solo per un breve periodo di tempo. Non si può semplicemente biasimare il neoliberismo per quello che è successo, come se non avesse nulla a che fare con i dissidenti, perché il fatto è che i dissidenti hanno deciso di usare il loro capitale politico a sostegno del neoliberismo. E non sto dicendo che si sbagliavano. È molto facile biasimarli per quello che hanno fatto, ma cosa avrebbero dovuto fare? Nessuna di queste persone aveva un’educazione economica, nessuna di loro era interessata ad entrare nel governo. János Kis, filosofo e primo leader dell’opposizione democratica ungherese, ne è un esempio.

RKP: Il carisma di persone come Michnik o Kis è evaporato improvvisamente dopo l’89 – non durante la notte, ma in un periodo di tempo molto breve. L’influenza di altri si è gradualmente gonfiata: Václav Havel, Gáspár Miklós Tamás o Ágnes Heller, per esempio.

IK: Noi intellettuali siamo ipnotizzati dagli intellettuali, ma politicamente non è sempre così che funziona. Nelle prime elezioni parzialmente libere in Polonia nel 1989, la campagna di Solidarność è stata molto semplice: tutti i candidati sono stati fotografati accanto a Lech Wałęsa. Il leader carismatico della rivoluzione polacca non era un dissidente con una visione particolarmente sofisticata del capitalismo e della democrazia: era un operaio, un elettricista. Negli anni Ottanta, Adam Michnik non era tanto un intellettuale liberale quanto il polacco che si opponeva al potere sovietico. Ciò che non si può togliere a Michnik, anche se lo si odia quanto lo detesta l’estrema destra, sono i suoi anni di prigione. Era in prigione e si è comportato in modo incredibile. Anche i suoi critici più radicali non possono negarlo. Allo stesso tempo, in un ambiente attuale definito da una severa polarizzazione, vediamo che le biografie eroiche dei dissidenti non contano più nulla.

Va anche ricordato che gli intellettuali dissidenti hanno facilmente trovato un linguaggio comune con l’Occidente. Coloro che, durante il comunismo, avevano letto in inglese, francese e tedesco si erano sempre sentiti parte di questa conversazione europea. È stata un’esperienza totalmente diversa per la gente comune. Guardate i sondaggi d’opinione ungheresi. Il governo Orbán usa una retorica massicciamente anticomunista, ma allo stesso tempo è molto positivo su János Kádár. Quello che odia del comunismo sono i post-comunisti. In un certo senso, l’anticomunismo è diventato l’attacco dopo l’89 e non prima.

SG: C’è stata una discussione simile tra storici in Germania sul ruolo dei dissidenti a Lipsia e altrove nel 1989. È stato argomentato, in modo controverso, che il loro impatto politico era minore rispetto a quello della massa di cittadini che stavano guardando dall’esterno e che in modo più opportunistico approfittavano del crollo del governo comunista.

IK: Ogni rivoluzione è, almeno nei primi dieci anni, la storia di gruppi minoritari attivi. Pensate ai bolscevichi, o alla rivoluzione francese. Ma quando ci si concentra solo su questi gruppi, si smette di capire certe cose, per esempio i cambiamenti improvvisi nel comportamento di voto. Spesso però non è che le persone hanno cambiato idea, ma molte persone che hanno votato in un certo modo hanno lasciato il paese. In secondo luogo, ci sono nuove generazioni emergenti per le quali tutto questo è storia antica. I giovani sono molto mobili, ma sono una coorte molto piccola. Oggi, nell’Europa centrale e orientale, si possono vincere le elezioni senza ottenere un solo voto da chiunque abbia meno di 25 anni. Questo è il motivo per cui i giovani dovrebbero essere in strada, perché se non lo sono, nessuno li vedrà.

Andando oltre l’Europa dell’Est, vedrete che il futuro è di ritorno non come progetto, ma come incubo. Ci sono due tipi di scenario apocalittico. Uno viene dalla destra, che dice che il futuro distruggerà il nostro stile di vita. Il mondo sarà pieno di stranieri, transessuali, robot e così via. D’altra parte, c’è la nuova generazione politica, che dice: non si tratta di distruggere il nostro stile di vita, si tratta di distruggere la vita.

La gente dimentica il forte impatto psicologico della bomba atomica sulle società europee, in particolare in America e nell’Europa occidentale. Ma se si confronta oggi il movimento antinucleare con il movimento ambientalista, ci sono due importanti differenze. In primo luogo, negli anni Settanta, bastava semplicemente chiedere al governo di non usare la bomba. Ora, i governi vengono attaccati non per quello che stanno facendo, ma per quello che non stanno facendo. Quindi, i manifestanti per le strade devono anche sapere cosa vogliono che facciano i governi. In secondo luogo, in una guerra nucleare, moriremmo tutti insieme. In una catastrofe climatica, noi di mezza età continueremo a goderci la vita. Ma non possiamo essere così sicuri dei nostri figli e nipoti. L’idea di comunità politica sta cambiando. Da un lato, abbiamo persone come Orbán, che sostengono che vogliamo essere come eravamo undici secoli fa. Dall’altro lato, abbiamo giovani che vogliono includere i non ancora nati nella comunità politica. Si tratta di un cambiamento molto interessante. Adesso si tratta delle persone in nome delle quali parliamo, di come descriviamo la comunità politica.

Il saggio di Ivan Krastev The light that failed: A reckoning è uscito in inglese il 31 ottobre per Penguin Books.