Come cambiare la storia dell’umanità

La disuguaglianza è considerata una conseguenza inevitabile della civiltà. Ma molti studi smentiscono questa tesi e suggeriscono che un’alternativa è possibile

Opera d’arte di Banksy (titolo sconosciuto). Fonte: Flickr

Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della ci­viltà propriamente detta. La civiltà ha signi­ficato molte cose brutte (guerre, tasse, bu­rocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha an­che reso possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi con­quiste umane.

Quasi tutti conoscono questa storia nel­le linee generali. Almeno dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importan­te, perché questa narrazione definisce an­che il nostro senso della possibilità politica. Molti considerano la civiltà, e quindi la di­suguaglianza, una tragica necessità. Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente industriale del “co­munismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessu­no mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema di fon­do in questa narrazione: non è vera.

L’archeologia, l’antropologia e le disci­pline affini offrono prove schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irre­versibile nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente uguali­tarie. Anche se i ricercatori sono gradual­mente arrivati a un consenso generale su questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana – Ja­red Diamond, Francis Fukuyama, Ian Mor­ris e altri – continuano a prendere come punto di partenza l’interrogativo di Rousseau (“Qual è l’origine della disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la gran­de storia cominci con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale.

Già solo inquadrare la questione in que­sti termini significa partire da una serie di presupposti: che esiste una cosa che si chia­ma disuguaglianza, che la disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza non esisteva. Con la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne sono seguiti, il “problema della disu­guaglianza sociale” è diventato centrale nel dibattito pubblico. Negli ambienti politici e intellettuali sembra dominare la convinzio­ne che i livelli di disuguaglianza sociale sia­no aumentati a dismisura sfuggendo a ogni controllo e che da questo, in un modo o nell’altro, dipendano quasi tutti i problemi del mondo. Oggi denunciare questa realtà è considerato una sfida alle strutture di po­tere globale, ma pensate a come questi pro­blemi sarebbero stati discussi una genera­zione fa. A differenza di termini come “ca­pitale” o “potere di classe”, la parola “disu­guaglianza” sembra fatta apposta per con­durre a mezze misure e compromessi. Si può immaginare di rovesciare il capitalismo o di abbattere il potere dello stato, ma è molto difficile immaginare di cancellare la “disuguaglianza”. Di fatto, non è neppure chiaro cosa significhi, perché le persone non sono tutte uguali e nessuno vorrebbe davvero che lo fossero.

“Disuguaglianza” è un modo di inqua­drare i problemi sociali adatto ai tecnocra­ti riformisti, i quali partono dal presuppo­sto che qualunque reale trasformazione sociale è esclusa dal dibattito politico da molto tempo. Consente di armeggiare con i numeri, ragionare sui coefficienti di Gini, ricalibrare i regimi fiscali e lo stato sociale, consente perfino di spaventare l’opinione pubblica con cifre che dimostrano quanto è peggiorata la situazione (“Ci pensate? Lo 0,1 per cento della popolazione mondiale controlla più del 50 per cento della ricchez­za!”), e tutto ciò senza affrontare nessuno degli aspetti che la gente critica realmente di questi ordinamenti sociali così “disu­guali”: per esempio il fatto che alcuni rie­scono a trasformare la loro ricchezza in potere, mentre altre persone si sentono di­re che le loro esigenze non sono importan­ti e la loro vita non ha un valore in sé. Tutto questo sarebbe solo l’effetto inevitabile della disuguaglianza, e la disuguaglianza sarebbe la conseguenza ineludibile del vi­vere in qualunque società grande, com­plessa, urbana e tecnologicamente sofisti­cata.

Le scienze sociali dominanti oggi sem­brano voler rafforzare questo senso d’im­potenza. Quasi ogni mese ci troviamo da­vanti a pubblicazioni che cercano di proiet­tare sull’età della pietra l’attuale ossessio­ne per la distribuzione della proprietà, e ci spingono a una falsa ricerca di “società ugualitarie” definite in termini che ne ren­dono impossibile l’esistenza al di fuori di qualche minuscolo gruppo di cacciatori-raccoglitori (e forse neanche in quelli).

L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo sapiens anatomica­mente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli e mobili che comprendeva­no tra i venti e i quaranta individui. Cerca­vano i territori migliori per cacciare e pro­curarsi da mangiare, seguendo i branchi, raccogliendo noci e bacche. Quando le ri­sorse cominciavano a scarseggiare o emer­gevano tensioni sociali, reagivano spo­standosi altrove. Per questi primi esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo era un posto incon­taminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali per­mettevano di mantenere un disinvolto ca­meratismo, senza strutture formali di do­minio. Nel settecento Rousseau lo definì “stato di natura”, ma oggi si presume che sia durato per la maggior parte della nostra storia. Si presume anche che quella fu l’unica era in cui gli umani riuscirono a vi­vere in autentiche società di uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi cen­tralizzati.

Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione convenzionale della sto­ria mondiale colloca questo momento in­torno a diecimila anni fa, al termine dell’ul­tima era glaciale. Aquel punto, i nostri immaginari attori umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltiva­re la terra e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale (l’ar­gomento è oggetto di discussione), gli ef­fetti furono epocali, e sostanzialmente identici dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni ac­quistarono un’importanza prima scono­sciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.

L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto grup­po familiare. Altri usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità, come costruire armi, utensili, vei­coli e fortificazioni o per dedicarsi alla po­litica e alla religione organizzata. Di conse­guenza, questi “agricoltori del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cac­ciatori-raccoglitori e cominciarono a eli­minarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superior ma meno ugualitario.

A complicare ulteriormente le cose, così continua la storia, l’agricoltura provo­cò un aumento globale della popolazione. Man mano che si univano in concentrazio­ni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa com­parvero le città: a quel punto il nostro desti­no fu segnato. Con le città arrivò l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di bu­rocrati, sacerdoti e politici-guerrieri assun­sero cariche permanenti per mantenere l’ordine e garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono iso­late o imprigionate negli harem. I prigio­nieri di guerra diventarono schiavi. Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.

Eppure, ci assicurano sempre i narrato­ri, la nascita della civiltà urbana ebbe an­che aspetti positivi. Fu inventata la scrittu­ra, in un primo momento per tenere la contabilità dello stato, che consentì pro­gressi straordinari nella scienza, nella tec­nologia e nelle arti. Aprezzo dell’innocen­za siamo diventati moderni, e ora possia­mo solo guardare con compassione e invi­dia a quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno perso il treno.

Dalle bande agli imperi

Questa è la storia che, come abbiamo detto, costituisce la base di tutto il dibattito con­temporaneo sulla disuguaglianza. Se un esperto di relazioni internazionali o uno psicologo vogliono riflettere su questi temi, probabilmente daranno per scontato che per gran parte della loro storia gli esseri umani hanno vissuto in piccoli gruppi ugua­litari o che la nascita delle città ha determi­nato la nascita dello stato. Lo stesso vale per i libri più recenti che guardano alla preisto­ria per trarre conclusioni politiche attinenti alla realtà contemporanea. Prendiamo The origins of political order (2011) del politolo­go Francis Fukuyama:

Nelle sue prime fa­si, l’organizzazione politica umana è simile alla società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misu­ra ragione.

Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio Il mondo fino a ieri (Einaudi 2012), suggeri­sce che queste bande (in cui ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto “fino ad appe­na undicimila anni fa”) comprendevano solo “poche decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che solo in questi gruppi primordiali la spe­cie umana ha raggiunto un grado significa­tivo di uguaglianza sociale.

Per Diamond e Fukuyama, come per Rousseau qualche secolo prima, a mettere fine a quell’uguaglianza – ovunque e per sempre – furono l’invenzione dell’agricoltu­ra e il conseguente aumento della popola­zione. L’agricoltura provocò una transizio­ne dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svi­lupparsi in società gerarchiche governate da un capotribù.

Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non aveva senso. Una volta adottate forme di organiz­zazione grandi e complesse le conseguenze erano inevitabili. Equando i capi comincia­rono a comportarsi male – appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè, rendendo la loro posizione perma­nente ed ereditaria, collezionando crani come trofei e harem di schiave o strappan­do il cuore dei rivali con coltelli di ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro. “Le popolazioni numerose”, sostiene Diamond, “non possono funzionare senza capi che prendono le decisioni, esecutori che le at­tuano e burocrati che amministrano le deci­sioni e le leggi”.

Anche gli antropologi e gli archeologi, quando cercano di dare un quadro comples­sivo, finiscono molto spesso per ripetere la versione di Rousseau, con qualche piccola variazione. In The creation of inequality (2012), Kent Flannery e Joyce Marcus im­piegano circa cinquecento pagine di studi etnografici e archeologici per cercare di ri­solvere il mistero. L’aspetto curioso del libro di Flannery e Marcus è che tutti gli aspetti davvero cruciali della loro ricostruzione delle “origini della disuguaglianza” si basa­no su osservazioni relativamente recenti di raccoglitori, allevatori e coltivatori su pic­cola scala, come gli hadza della Rift valley in Africa orientale o i nambikwara della fo­resta pluviale amazzonica. Le descrizioni di queste “società tradizionali” sono trattate come se fossero finestre sull’era del paleoli­tico o del neolitico. Il problema è che non è affatto così. Gli hadza e i nambikwara non sono fossili viventi. Sono in contatto da mil­lenni con stati agrari e imperi, razziatori e mercanti, e le loro istituzioni sociali si sono formate in seguito ai tentativi di trattare con loro o di evitarli. Solo l’archeologia può dirci se hanno qualcosa in comune con le società preistoriche. Anche se Flannery e Marcus offrono molti spunti interessanti su come potrebbero nascere le disuguaglianze nelle società umane, non ci danno molte ragioni per credere che le cose siano andate realmente così.

Il paradosso di Rousseau

La cosa veramente bizzarra di tutte queste evocazioni dello stato di natura di Rousseau e della perdita dell’innocenza è che lo stes­so Rousseau non ha mai sostenuto che lo stato di natura fosse esistito davvero. Era solo un esercizio teorico. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1754, su cui si basa gran parte della storia che ci siamo raccontati, Rousseau scrive:

Le ricerche che possiamo fare in questa occasione non vanno prese per verità storiche, ma solo come ragiona­menti ipotetici e condizionali, più adatte a chiarire la natura delle cose che a svelarne la vera origine.

Lo stato di natura di Rousseau non è mai stato concepito come una fase dello svilup­po. Era piuttosto un racconto allegorico. Come ha sottolineato la politologa Judith Shklar, in realtà Rousseau stava cercando di approfondire quello che considerava il pa­radosso fondamentale della politica uma­na, e cioè che la nostra innata ricerca della libertà in qualche modo ci porta ogni volta a una “spontanea marcia verso la disugua­glianza”.

Dobbiamo concludere che i rivoluziona­ri non si sono dimostrati molto ricchi d’im­maginazione, soprattutto quando si tratta di collegare passato, presente e futuro. Tut­ti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è un caso se oggi, agli albori del nuovo millennio, i movimenti ri­voluzionari più vitali e creativi, come gli zapatisti del Chiapas e i curdi del Rojava, sono quelli che si radicano in un passato profondamente tradizionale. Invece di im­maginare una qualche utopia primordiale, possono ispirarsi a una narrazione più com­plessa. Di fatto sembra esserci una consa­pevolezza sempre maggiore, negli ambien­ti rivoluzionari, che la libertà, la tradizione e l’immaginazione sono state e saranno sempre intrecciate in modi che non com­prendiamo fino in fondo. È arrivato il mo­mento che anche tutti gli altri si aggiornino e comincino a considerare una versione non biblica della storia umana.

Quindi cosa ci hanno insegnato davvero le ricerche archeologiche e antropologiche condotte dopo Rousseau? Per prima cosa, che probabilmente interrogarsi sulle “origi­ni della disuguaglianza sociale” è un punto di partenza sbagliato. La verità è che non abbiamo idea di come fosse la vita sociale umana prima dell’inizio di quello che chia­miamo paleolitico superiore.

Le più antiche prove concrete sull’orga­nizzazione sociale umana nel paleolitico vengono soprattutto dall’Europa, dove la nostra specie visse a fianco dell’Homo nean­derthalensis fino all’estinzione di quest’ulti­mo circa quarantamila anni fa. Aquell’epo­ca, e per tutto l’ultimo massimo glaciale, le zone abitabili dell’Europa somigliavano più al parco del Serengeti in Tanzania che a un qualunque habitat europeo di oggi. Asud delle calotte glaciali, fra la tundra e le spon­de del Mediterraneo, si stendevano vallate popolate da animali selvatici e steppe attra­versate da mandrie di cervi, bisonti e mam­mut. Gli studiosi della preistoria ribadisco­no da decenni – a quanto sembra con scarsi risultati – che gli abitanti di questi ambienti non avevano niente in comune con quelle bande ugualitarie e semplici di cacciatori-raccoglitori che immaginiamo come nostri lontani progenitori.

Tanto per cominciare c’è l’esistenza in­discussa di ricche sepolture, che risalgono fino al culmine dell’era glaciale. Nel perma­frost sotto l’insediamento paleolitico di Sunghir, a est di Mosca, è stata trovata la tomba di un uomo di mezza età sepolto – come osserva Felipe Fernándes-Armesto nella sua recensione di The creation of ine­quality sul Wall Street Journal – con “stupe­facenti segni di prestigio sociale: braccia­letti d’avorio, un diadema di denti di volpe e quasi tremila perle d’avorio laboriosamente scolpite e levigate”. Apochi metri di distan­za, in una tomba identica, “giacevano due bambini di 10 e 13 anni, adorni di doni fune­rari dello stesso tipo, comprese circa cin­quemila perle e una lancia d’avorio”.

Sito di sepoltura paleotica a Sungir, Russia, Fonte: Wiki Commons

Sepolture altrettanto ricche sono state scoperte nelle grotte e negli insediamenti del paleolitico superiore in gran parte dell’Eurasia occidentale. Per esempio, la “signora di Saint-Germain-de-la-Rivière”, risalente a 16mila anni fa, che indossava ornamenti realizzati con i denti di giovani cervi cacciati a trecento chilometri di di­stanza, nel paese basco spagnolo, e le sepol­ture della costa ligure, come quella del “gio­vane principe”, che nel suo corredo funera­rio ha una lunga lama di selce, bastoni di corna di alce e un elaborato copricapo di conchiglie traforate e denti di cervo. Questi ritrovamenti pongono sfide interpretative stimolanti. Ha ragione Fernández-Armesto nel sostenere che sono le prove di un “pote­re ereditato”? Qual era lo status di questi individui?

Non meno misteriose sono le sporadi­che ma affascinanti tracce di architettura monumentale che risalgono all’ultimo massimo glaciale. Il pleistocene non ha nul­la di paragonabile per dimensioni alle pira­midi di Giza o al Colosseo. Però ha costru­zioni che, per gli standard dell’epoca, pote­vano essere considerate solo opere pubbli­che, perché implicano una progettazione sofisticata e un impressionante coordina­mento della manodopera. Tra queste ci so­no le straordinarie “case dei mammut”, costituite da una struttura di zanne rivestita di pelli, di cui si possono trovare esempi da­tabili intorno a 15mila anni fa nella fascia tra Cracovia e Kiev.

Ancora più stupefacenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, rinvenuti più di vent’anni fa alla frontiera tra Siria e Turchia e tuttora al centro di un vivace dibattito scientifico. Databili intorno a 11mila anni fa, proprio alla fine dell’ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megali­tici. Ognuno era formato da pilastri di cal­care alti più di cinque metri e pesanti fino a una tonnellata. Quasi ogni megalite di Gö­bekli Tepe è un’impressionante opera d’ar­te, ornata da bassorilievi di animali feroci con i genitali maschili orgogliosamente in mostra. Uccelli rapaci si alternano a imma­gini di teste umane mozzate. Le incisioni danno prova di capacità scultoree che erano state certamente affinate sul più malleabile legno. Malgrado le loro dimensioni, ciascu­na di queste enormi strutture ebbe una vita relativamente breve, che si concluse con un grande banchetto e l’interramento delle sue mura: gerarchie innalzate per essere subito abbattute. I protagonisti di questo spettacolo di costruzione e distruzione era­no, per quanto ci è dato sapere, cacciatori-raccoglitori che vivevano dei frutti della natura.

Göbekli Tepe. Fonte: Flickr

Cosa dovremmo dedurne allora? Alcuni studiosi suggeriscono di abbandonare completamente l’idea di un’età dell’oro ugualitaria e concludere che l’interesse egoistico e l’accumulazione del potere so­no le forze che da sempre sottendono lo sviluppo sociale umano. Ma neanche que­sto funziona davvero. I segni di disugua­glianza strutturale nelle società dell’era glaciale sono solo sporadici. Le sepolture appaiono a secoli e spesso a centinaia di chilometri di distanza.

Regni stagionali

Anche se questo fosse dovuto alla fram­mentarietà delle prove, dobbiamo chieder­ci perché le prove sono così frammentarie: se questi “principi” dell’era glaciale si fos­sero comportati come i principi dell’età del bronzo, troveremmo anche fortificazioni, magazzini, palazzi e tutti i segni degli stati emergenti. Invece, per decine di millenni vediamo monumenti e sepolture magnifi­che, ma poco altro che indichi la comparsa di società gerarchiche. Poi ci sono elemen­ti ancora più strani, come il fatto che la maggioranza delle sepolture “principe­sche” contiene individui con impressio­nanti anomalie fisiche che oggi sarebbero considerati giganti, gobbi o nani.

Un’analisi più ampia dei reperti arche­ologici suggerisce una risposta che riguar­da i ritmi stagionali della vita sociale prei­storica. Gran parte dei siti paleolitici citati fin qui sono associati a segni di aggregazio­ni annuali o biennali, legate alle migrazio­ni degli animali – che si tratti di mammut, bisonti della steppa, renne o (nel caso di Göbekli Tepe) gazzelle – o alle migrazioni cicliche dei pesci e ai raccolti di noci.

In periodi meno favorevoli dell’anno, almeno alcuni dei nostri antenati dell’era glaciale sicuramente vivevano e si procu­ravano da mangiare in piccoli gruppi. Ma ci sono prove schiaccianti che in altri mo­menti si riunivano in massa in micro-città come quelle trovate a Dolni Vĕstonice, nel­la Repubblica Ceca, per approfittare della sovrabbondanza di risorse naturali, impe­gnarsi in complessi rituali e imprese arti­stiche e scambiare minerali, conchiglie e pelli di animali, coprendo distanze impres­sionanti. Gli equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale in Europa occi­dentale sarebbero i grandi rifugi rupestri del Périgord francese e della costa canta­brica, con i loro famosi dipinti e le celebri incisioni, che facevano anch’essi parte di un ciclo annuale di aggregazione e disper­sione.

Questi modelli stagionali di vita sociale sopravvissero a lungo dopo l’“invenzione dell’agricoltura”, che in teoria avrebbe do­vuto cambiare tutto. Nuove prove dimo­strano che questo genere di ciclicità potreb­be essere la chiave per comprendere i famo­si monumenti neolitici della piana di Sa­lisbury. Stonehenge sarebbe solo l’ultima di una lunghissima sequenza di strutture ri­tuali in legno o in pietra che venivano erette quando la gente arrivava nella pianura dagli angoli più remoti delle isole britanniche in certi periodi dell’anno. Gli scavi hanno di­mostrato che molte di queste strutture – ora interpretate plausibilmente come monu­menti ai progenitori di potenti dinastie del neolitico – furono smantellate poche gene­razioni dopo la loro costruzione.

La cosa impressionante è che questa abitudine di erigere e smantellare monu­menti grandiosi coincide con un periodo in cui i popoli del Regno Unito, che avevano importato l’economia agricola del neoliti­co dall’Europa continentale, sembravano aver abbandonato un aspetto essenziale, interrompendo la coltivazione dei cereali e tornando – intorno al 3300 aC – alla raccol­ta di nocciole come risorsa alimentare di base. I costruttori di Stonehenge continua­vano ad allevare bovini e probabilmente non erano né agricoltori né cacciatori-rac­coglitori, ma una via di mezzo. Ese nella stagione festiva, quando si radunavano in massa, s’instaurava qualcosa di simile a una corte reale, questa non poteva che dis­solversi per buona parte dell’anno, quando le stesse persone tornavano a sparpagliarsi in tutta l’isola.

Perché queste variazioni stagionali so­no importanti? Perché rivelano che fin dall’inizio gli esseri umani hanno consape­volmente sperimentato diverse possibilità sociali. Secondo gli antropologi le società di questo tipo erano caratterizzate da una “doppia morfologia”. All’inizio del nove­cento Marcel Mauss osservò che gli inuit dell’Artico “e analogamente molte altre società hanno due strutture sociali, una d’estate e l’altra d’inverno, e due sistemi di legge e di religione paralleli”. Nei mesi estivi gli inuit si disperdevano in piccole bande patriarcali, ciascuna sotto l’autorità di un unico maschio anziano, alla ricerca di pesci d’acqua dolce, caribù e renne. La pro­prietà privata era chiaramente contrasse­gnata e i patriarchi esercitavano un potere coercitivo, a volte addirittura tirannico, sui loro familiari. Ma nei lunghi mesi inverna­li, quando foche e trichechi affollavano il litorale artico, subentrava un’altra struttu­ra sociale e gli inuit si riunivano per costru­ire grandi case comuni di legno, ossa di balena e pietra. In queste case regnavano i princìpi dell’uguaglianza, dell’altruismo e della vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; mariti e mogli si scambiavano i partner sotto l’egida della dea Sedna.

Ancora più sorprendenti, in termini di capovolgimenti politici, erano le pratiche stagionali delle confederazioni tribali dell’ottocento nelle grandi pianure ameri­cane: agricoltori occasionali o ex agricoltori che avevano adottato una vita nomade de­dita alla caccia. Alla fine dell’estate, piccole bande di cheyenne e lakota si riunivano in grandi insediamenti per prepararsi alla cac­cia al bisonte. In questo importantissimo periodo dell’anno creavano una forza di po­lizia che aveva poteri coercitivi assoluti, compreso il diritto di imprigionare, frustare o multare qualunque trasgressore ostaco­lasse i preparativi. Eppure, come ha osser­vato l’antropologo Robert Lowie, questo “indubbio autoritarismo” era temporaneo, e cedeva il posto a forme di organizzazione più “anarchiche” una volta conclusa la sta­gione della caccia e i rituali collettivi che la seguivano.

Avanti e indietro

I reperti archeologici suggeriscono che ne­gli ambienti molto stagionali dell’ultima era glaciale i nostri progenitori si comporta­vano in modi assai simili: alternando ordi­namenti sociali molto diversi, consentendo la comparsa di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno a condizione che non po­tessero durare, e con l’intesa che nessun particolare ordine sociale era mai fisso o immutabile. All’interno della stessa popo­lazione si poteva vivere in quella che a volte sembra una banda, alter volte una tribù e altre volte ancora una società con molte delle caratteristiche che oggi attribuiamo agli stati.

Questa flessibilità istituzionale offre la possibilità di uscire dai confini di una certa struttura sociale e riflettere, di fare e disfare i mondi politici in cui si vive. Se non altro, questo spiega i “principi” e le “principesse” dell’ultima era glaciale, che sembrano i per­sonaggi di una fiaba o di un di un dramma in co­stume. Forse lo erano, quasi letteralmente. Se mai hanno regnato, forse è stato – come per i re e le regine di Stonehenge – per una sola stagione.

Gli autori moderni tendono a usare la preistoria per riflettere su problemi filosofi­ci: gli esseri umani sono sostanzialmente buoni o cattivi, collaborativi o competitivi, ugualitari o gerarchici? Quindi tendono a scrivere come se per il 95 per cento della storia della nostra specie le società siano state in larga misura sempre uguali. Ma quarantamila anni sono un periodo lungo, lunghissimo. Sembra altamente probabile, e le prove lo confermano, che quegli stessi pionieri umani che colonizzarono gran par­te del pianeta abbiano anche sperimentato un’enorme varietà di ordinamenti sociali.

Come spesso ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non era­no uguali agli umani moderni solo fisica­mente, ma anche a livello intellettuale. Molto probabilmente erano più consape­voli del potenziale della società di quanto generalmente lo siamo oggi, visto che ogni anno passavano da una forma di organiz­zazione all’altra. Invece di oziare in un’in­nocenza primordiale finché il genio della disuguaglianza è riuscito in qualche modo a liberarsi, i nostri antenati preistorici sem­brano essere riusciti ad aprire e chiudere regolarmente la bottiglia, confinando la disuguaglianza nei drammi in costume ri­tuali, costruendo divinità e regni come co­struivano i loro monumenti per poi sman­tellarli allegramente.

Se è così allora non dovremmo chieder­ci quali sono le origini delle disuguaglianze sociali, ma perché – dato che abbiamo pas­sato una parte così grande della nostra sto­ria facendo avanti e indietro fra sistemi politici diversi – a un certo punto siamo ri­masti bloccati. Tutto questo è molto di­stante dalla nozione che le società preisto­riche siano scivolate ciecamente verso le catene istituzionali che le hanno legate. Eanche dalle cupe profezie di Fukuyama, Diamond e altri, secondo cui ogni forma di organizzazione sociale complessa com­porta necessariamente che piccole élite prendano il controllo delle risorse chiave e comincino a calpestare tutti gli altri. La maggior parte delle scienze sociali le con­sidera verità autoevidenti, ma sono infon­date. Quindi potremmo chiederci quali altre verità acclarate dovrebbero essere gettate nella pattumiera della storia.

L’idea che l’agricoltura abbia segnato una grande transizione nelle società uma­ne non è più sostenuta da prove concrete. Nelle parti del mondo dove animali e pian­te furono addomesticati per la prima volta, non c’è stato un passaggio repentino e rico­noscibile dal cacciatore-raccoglitore del paleolitico all’agricoltore del neolitico. La “transizione” da un’esistenza basata sulle risorse spontanee a una basata sulla pro­duzione del cibo di regola ha richiesto qualcosa come tremila anni. Anche se l’agricoltura consentiva la possibilità di una più disuguale concentrazione di ric­chezza, nella maggioranza dei casi questo cominciò a succedere millenni dopo la sua comparsa.

Nel frattempo, gli umani che vivevano in zone lontanissime come l’Amazzonia e la mezzaluna fertile in Medio Oriente faceva­no esperimenti con l’agricoltura, “giocava­no agli agricoltori”, in un certo senso, cam­biando ogni anno i modi di produzione proprio come alternavano le loro strutture sociali. Inoltre, la “diffusione dell’agricoltu­ra” in aree secondarie come l’Europa – spes­so descritta in termini trionfalistici come l’inevitabile declino della caccia e della rac­colta – in realtà è stata un processo estrema­mente delicato che a volte è fallito, portan­do a un crollo demografico tra gli agricolto­ri ma non tra i cacciatori-raccoglitori.

Chiaramente, non ha più senso usare espressioni come “la rivoluzione dell’agri­coltura” quando parliamo di processi di così straordinaria lunghezza e complessi­tà. Epoiché non esisteva un eden da cui i primi agricoltori potessero cominciare il percorso verso la disuguaglianza, ha anco­ra meno senso sostenere che l’agricoltura ha posto le basi della gerarchia o della pro­prietà privata. Almeno in alcuni casi, come in Medio Oriente, i primi agricoltori sem­brano aver consapevolmente sviluppato forme alternative di comunità per adattar­si a uno stile di vita che richiedeva più lavo­ro. Queste società neolitiche appaiono sorprendentemente ugualitarie rispetto ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, con un sensibile aumento dell’importanza econo­mica e sociale delle donne, che si riflette chiaramente nell’arte e nei rituali (basta confrontare le figurine femminili di Gerico o Çatalhöyük con le sculture ipermascoli­ne di Göbekli Tepe).

Piccole ingiustizie

La civiltà non è un pacchetto preconfezio­nato. Le prime città non apparirono dal nulla insieme a sistemi di governo centra­lizzato e di controllo burocratico. Oggi sap­piamo che in Cina nel 2500 aC esistevano già insediamenti di più di trecento ettari lungo il corso inferiore del fiume Giallo, più di mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang). Sull’al­tra sponda del Pacifico, nella valle del rio Supe, in Perù, sono stati scoperti centri ce­rimoniali di dimensioni impressionanti che risalgono più o meno allo stesso perio­do: rovine enigmatiche di piazze e piatta­forme monumentali, che precedono di quattromila anni l’impero degli inca.

Queste recenti scoperte dimostrano quanto poco sappiamo realmente sulla di­stribuzione e l’origine delle prime città, che potrebbero essere molto più antiche dei sistemi di governo autoritario e di am­ministrazione basata sulla scrittura che un tempo ritenevamo necessari alla loro fon­dazione. Ein quelli che conosciamo come i maggiori centri della prima urbanizzazio­ne – la Mesopotamia, la valle dell’Indo, il bacino del Messico – sono sempre più nu­merosi i segni che le prime città erano or­ganizzate secondo princìpi deliberatamen­te ugualitari, con i consigli municipali che avevano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due casi, per oltre cinquecento anni fiorirono città con sofisticate infrastrutture civiche ma senza traccia di sepolture reali e di monumenti, senza eserciti permanenti o altri mezzi di coercizione su larga scala e senza neppure un accenno di controllo burocratico diretto sulla vita dei cittadini.

Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa. È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e perfino le confederazioni re­gionali, sono storicamente piuttosto co­muni. Le famiglie e le case ugualitarie non lo sono.

Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stes­so tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale. Se vo­gliamo davvero capire come diventò accet­tabile per la prima volta che alcuni trasfor­massero la ricchezza in potere mentre altri finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera.

Published 18 October 2018
Original in English
Translated by Giuseppina Cavallo
First published by Eurozine (original English version), Internazione (Italian translation)

© David Graeber, David Wengrow / Giuseppina Cavallo / Internazionale / Eurozine

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