Qualche passo "facile"verso la riconciliazione

Lo scorso giugno il Presidente della Croazia Ivo Josipovic non ha presenziato all’insediamento del nuovo Presidente della Serbia Tomislav Nikolic, noto nazionalista radicale. E per un buon motivo: in varie sue dichiarazioni, Nikolic ha dimostrato di non sostenere i valori comuni europei, affermando tra l’altro che quanto è accaduto a Srebrenica non è stato genocidio. Egli ha inoltre detto e ripetuto, nei primi sei mesi della sua presidenza, che la Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, anche a costo di perdere la propria candidatura per entrare nell’UE. Questo esempio dimostra che le politiche di riconciliazione sono troppo importanti per essere delegate alle opinioni individuali dei singoli politici, e necessitano invece di un approccio sistematico. In mancanza di ciò, la Serbia sta facendo passi indietro rispetto al livello di riavvicinamento già raggiunto con Boris Tadic.

Tante buone intenzioni

Nell’ottobre del 2010, la visita del Presidente serbo Boris Tadic a Vukovar, dove è stato accolto dal Presidente croato Ivo Josipovic, ha attirato l’attenzione dei media a livello mondiale. Dopo tutto, si trattava della prima volta che un presidente serbo esprimeva profondo cordoglio per la distruzione della città croata per mano dell’Armata nazionale jugoslava (JNA) e delle truppe paramilitari serbe nell’autunno del 1991. Chiedendo pubblicamente scusa presso la fossa comune di Ovcara, Tadic ha così dimostrato la propria volontà di un confronto responsabile con il passato – un gesto notevole per un politico dei Balcani.

Josipovic – che durante il suo primo anno di presidenza ha visitato molte fosse comuni e si è scusato pubblicamente più di chiunque altro – ha visitato anche il villaggio di Paulin Dvor dove, nel dicembre del 1991, i paramilitari croati avevano ucciso diciotto prigionieri civili serbi e un ungherese. Un fatto davvero notevole: due capi di Stato che dimostravano buone intenzioni, ponendo simbolicamente fine al circolo vizioso della guerra. Qualche giorno dopo si è unita anche la presidenza tripartita bosniaca, chiedendo la riconciliazione. Il nuovo membro della presidenza, Bakir Izetbegovic, ha presentato le sue scuse “sper ogni innocente ucciso dall’esercito bosgnacco”.

Questa recente attività frenetica dei capi di Stato è stata ampiamente lodata, sia da parte della “comunità internazionale” (Bruxelles, Washington) che dei comuni cittadini in tutti i paesi della regione. Tuttavia, non tutte le reazioni agli sforzi per porre fine alle ostilità sono state positive: alcuni vi hanno visto una sorta di spettacolo imbastito per il pubblico mondiale. Quasi tutti i commentatori hanno fatto notare che le parole e i gesti simbolici sono un buon inizio, certo; ma le grandi questioni rimangono aperte: dove sono le liste dei prigionieri di guerra scomparsi? Quando verrà estradato Ratko Mladic, il più grande criminale di guerra latitante? Quando verranno restituiti alla Croazia i beni culturali saccheggiati? Quando torneranno in Krajina i profughi?

È difficile credere ai politici balcanici, anche quando sembrano agire con le migliori intenzioni. Ma per andare avanti è necessario iniziare a credere, a prendere sul serio le loro parole e a pensare che i loro gesti indichino l’intenzione seria di cambiare opinione e atteggiamento nei confronti delle altre nazioni e del passato. Tadic e Josipovic hanno dimostrato chiaramente la loro volontà politica di andare verso la riconciliazione. Le scuse pubbliche sono il primo passo sulla via del riavvicinamento, e i due capi di Stato hanno agito con umiltà e benevolenza, anche se non sono stati i primi. L’ex Presidente croato Stjepan Mesic aveva porto le sue scuse a Belgrado nel 2003 e i montenegrini non erano stati da meno. Nel marzo 2010, il Parlamento serbo ha approvato la “Dichiarazione di Srebrenica”. Nonostante non si sia arrivati a usare la parola “genocidio”, si tratta comunque di un documento importante che riconosce finalmente la responsabilità dell’esercito serbo nel massacro di 8.000 bosgnacchi nel luglio del 1995. Dal 1995, cioè da quando la guerra è finita in Bosnia, si è parlato molto di riconciliazione – soprattutto all’estero. Molto denaro straniero è stato speso per vari esperti, come se la riconciliazione fosse una questione che richiede intelligenza brillante e competenza tecnica, piuttosto che “accordo, intesa, compromesso” tra vicini, come la definisce il dizionario. La conclusione a cui si è arrivati, dopo infinite sessioni di brainstorming a livello internazionale, si riassume nella necessità di collaborazione, con raccomandazioni sui vari modi per raggiungerla.

Come se i cittadini dei paesi confinanti di Croazia, Serbia, Bosnia e Kosovo non lo sapessero già. Basta solo guardare ai criminali cha da ogni parte portano avanti in tutta tranquillità collaborazioni che risalgono all’epoca della guerra: dal traffico e scambio di petrolio, armi, esseri umani e tabacco ad azioni criminali come gli omicidi. Sono coinvolti, segretamente o apertamente, anche grandi e piccoli bizinismen di tutti i tipi e di tutte le nazionalità.

Jugosfera?

Gli sloveni sono stati i primi a iniziare a vendere i propri prodotti in Serbia: il capitalismo ha avuto la meglio sul patriottismo. Altri non sono stati così aperti nei loro commerci e hanno lavorato più o meno segretamente. Eppure, quando Tim Judah, un giornalista dell’Economist che conosce molto bene la regione, nel 2009 ha pubblicato un articolo sulla “Jugosfera”, si è scatenata una furiosa bufera di polemiche, specialmente in Croazia. L’articolo parla della collaborazione praticata a tutti i livelli, dimostrando che l’ex-Jugoslavia funziona come uno spazio unico. Nonostante l’ideologia nazionalistica che condanna questa collaborazione come “antipatriottica”, le persone effettivamente lavorano insieme. I tempi sono difficili, scrive Judah, ed è normale che la gente cerchi di sfruttare i vantaggi di una lingua comune e il fatto che i consumatori siano abituati a usare certi prodotti.

Solo negli ultimi mesi, continua Judah, sono state annunciate numerose nuove iniziative: la fondazione di una compagnia ferroviaria di proprietà slovena, serba e croata; un incontro delle compagnie delle lotteria nazionale di Macedonia, Montenegro, Slovenia, Kosovo, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Croazia, con prospettive di una fusione; la firma di un trattato sull’estradizione dei criminali tra Croazia e Serbia e tra Bosnia e Croazia, con l’impegno di promuovere la collaborazione tra le polizie della regione; un ulteriore trattato sulla cooperazione militare tra Serbia e Croazia, e molto altro ancora. È interessante notare che, nelle polemiche scatenate dall’articolo, a risultare offensiva non era tanto la cooperazione in sé, quanto il termine “Jugosfera”. Tuttavia, nemmeno il nazionalismo croato (che a sua volta dimostra ostilità nei confronti della Slovenia per il suo osteggiare l’entrata della Croazia nell’UE) ha potuto impedire al businessman croato Emil Tedeschi di estendere il proprio mercato a Slovenia, Bosnia, Montenegro, Macedonia e Serbia. Tedeschi preferisce il termine “Sud-Est Europa”, altri prediligono la definizione “Balcani occidentali” – qualsiasi cosa, basta che non si usi il prefisso “jugo”! La lingua, però, è importante, e questo incidente dimostra la forte predominanza di sentimenti e valori nazionalistici, a prescindere da come funziona in realtà tale collaborazione. La differenza maggiore tra i tentativi di riconciliazione degli ultimi quindici anni e quelli di oggi sta nel fatto che prima non vi era alcuna volontà politica visibile. Il nuovo impulso è arrivato con una nuova generazione di politici che sembrano determinati a portare i propri paesi nell’UE. Reietta per molti anni, la Serbia è recentemente riuscita a entrare nel RCC (Consiglio di Cooperazione Regionale, già Patto di stabilità), a diventare firmataria del CEFTA (Accordo centroeuropeo di libero scambio) e del PFP (Partenariato per la pace), a negoziare l’abolizione dei visti per l’UE, avvicinandosi così sempre di più all’UE. Anche se non si può dire che l’Unione Europea sia proprio entusiasta dell’ammissione della Serbia, esiste la consapevolezza che la stabilità della regione dipende dall’esistenza di una prospettiva per tutti i suoi paesi di diventare un giorno membri dell’Unione, indipendentemente da quanto tempo ci vorrà ancora.

Se gli imprenditori collaborano, se gli editori croati partecipano alle fiere del libro a Belgrado, se le nazionali di calcio giocano l’una contro l’altra e se le persone comuni fanno visita ai propri parenti oltre confine senza essere più sospettate di tradimento, c’è davvero bisogno di una politica ufficiale per la riconciliazione? O basterebbe piuttosto lasciare che siano le iniziative spontanee che vengono dal basso ad attivarsi, come suggeriscono alcuni commentatori di spicco?

Nonostante le argomentazioni a favore della riconciliazione suggerite da Judah e nonostante le recenti dimostrazioni politiche di un cambiamento di atteggiamento, sulla stampa croata è ancora possibile accusare Tim Judah di “jugonostalgia”, chiamare qualcuno traditore perché ha venduto la propria fabbrica a un serbo o disapprovare il fatto che un albergo o un cantiere navale sia stato acquistato con capitale serbo. La maggioranza dei cittadini di Serbia, Croazia o Bosnia ed Erzegovina è ben lungi dal riconciliarsi con l’idea che i loro vicini non sono più nemici. Forse non è irragionevole credere che, se i cittadini saranno abbandonati a loro stessi, ci vorrà più di qualche generazione per arrivare alla riconciliazione. D’altronde, visto che questi paesi guardano a un futuro comune nell’Unione Europea, verrebbe da dire che prima ci si riconcilierà e meglio sarà. Tuttavia, nessun gesto simbolico dei politici è significativo senza un programma di riconciliazione sistematico. Questo non significa che Tadic e Josipovic non siano sinceri nel loro pentimento e nel desiderio di influenzare la società con gesti del genere. Lo sono, certo. Se però nessun programma di riconciliazione viene stilato e promosso a livello governativo e istituzionale, allora i loro gesti, per quanto nobili, sono condannati a rimanere mere dimostrazioni di buona volontà, piuttosto che segni intenzionali di cambiamento sostanziale. Insomma, sono gesti che rimangono alla mercè della… spontaneità.

Un programma di riconciliazione sistematico

Spontaneità? Né la guerra né la pace accadono spontaneamente. Entrambe sono costruite. Entrambe “scendono”, per così dire, sulla gente. Le guerre sono il risultato della volontà politica e vengono preparate dalla retorica provocatoria che costruisce il “nemico” e giustifica l’aggressione. Che la guerra sia giusta oppure no, è un’altra questione. Lo stesso vale per il processo di pace e di riconciliazione, che deve essere avviato e condotto dall’alto, diffondendosi verso il basso, nella direzione opposta, promuovendo attivamente la tolleranza e la collaborazione. Se ad esempio la riconciliazione tra Francia e Germania fosse stata lasciata ai cittadini, l’Europa, per unirsi, avrebbe dovuto aspettare cent’anni in più.

La riconciliazione non ha solo aspetti politici ed economici. Ancora più importante è la riconciliazione sociale, perché ha a che fare con le emozioni, e le emozioni prendono fuoco facilmente, e dunque sono pericolose. In fondo, senza accendere le emozioni nazionalistiche, a bella posta e con la volontà politica di farlo, le guerre non si scatenerebbero mai. È logico, quindi, che agire sulle emozioni della gente è necessario anche per uscire dal nazionalismo. Il primo passo “facile” verso la riconciliazione è la determinazione politica visibile che non è fatta solo di scuse pubbliche, ma di programmi che affermino nuovi valori e includano tutte le sfere e i livelli della società, dalle istituzioni governative alla vita di tutti i giorni. Ciò non significa che sia per forza necessario completare una fase prima di passare a un’altra. Si tratta di una serie di attività diverse ma parallele, intraprese da istituzioni e individui, alcune con effetto a breve, altre a lungo termine.

Condizione necessaria al processo di riconciliazione è la giustizia; la giustizia è il fondamento su cui poggia ogni riconciliazione. Ma non esiste giustizia senza verità. Senza un sistema giuridico per processare i propri criminali di guerra e quindi rivelare fatti riguardanti i crimini commessi nei recenti conflitti, qualsiasi altra cosa, qualsiasi altro tentativo è destinato a fallire. Non è un compito semplice. In Croazia, il vero ostacolo è rappresentato dall’assurda convinzione, nutrita per quasi due decenni, che l’esercito croato non possa essere stato colpevole di crimini di guerra perché stava difendendo la nazione. Ciò ha avuto una conseguenza molto importante: i criminali di guerra sono considerati eroi di guerra. Per questo motivo l’ICTY (Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia) viene percepito come un’istituzione nemica, e non come un’istituzione fondata e designata per fare giustizia (anche se simbolica), per rivelare fatti sulla guerra e quindi contribuire alla verità storica. Fino alla Dichiarazione di Srebrenica, la Serbia ha continuato a negare qualsiasi partecipazione alle guerre, sia a livello pubblico che politico. La riconciliazione in Bosnia-Erzegovina invece è complicata dal suo statuto speciale in quanto nazione divisa, non solo amministrativamente, ma anche psicologicamente ed emotivamente: vittime e aguzzini vivono nello stesso Paese, nelle stesse città, forse addirittura nelle stesse strade e villaggi. Promuovere valori diversi significa costruire una struttura psicologica diversa. Non è più necessario convincere i cittadini a collaborare oltre i confini nazionali: lo stanno già facendo. Ciò di cui c’è bisogno in questo momento è diffondere il messaggio che questa collaborazione (andare a trovare amici e parenti, commerciare, lavorare insieme, avere una percezione positiva dei serbi, croati o bosgnacchi) non è solo “politicamente corretta”, ma anche benvenuta; e che uno scrittore che pubblica un libro in Serbia o un cantante che organizza un concerto non saranno messi in croce dai media (cosa che è accaduta fino a poco tempo fa). Ma come può il governo diffondere un messaggio simile? Indirettamente, sostenendo iniziative comuni, da trattati regionali come CEFTA, RCC o PFP a collaborazioni su scala più piccola, come gare canore o scambi scolastici tra Serbia e Croazia. Tuttavia, anche questo non basta: per favorire la riconciliazione, è necessario uno sforzo più diretto e visibile.

Diffondere messaggi positivi

I mezzi più efficaci, inutile dirlo, sono i media. Oggi la televisione è l’unico mezzo per raggiungere un pubblico di massa. Ogni politico sa che i media sono la chiave per il successo. Da essi i valori penetrano nella vita quotidiana, e non viceversa. Se il governo iniziasse a promuovere sistematicamente valori anti-nazionalistici, i canali della TV pubblica lo seguirebbero. Non funzionerebbe certo in modo automatico o con facilità – per ottenere questo, l’atmosfera che attualmente regna nell’affiatato conglomerato partiti-media-capitale dovrebbe cambiare, e non poco. Tuttavia, non è affatto inconcepibile che la TV pubblica possa far sua la “moda” del momento, cioè la riconciliazione e non il nazionalismo e l’odio. I canali privati, meno propensi a diffondere il nazionalismo e più attenti ai profitti, seguirebbero la corrente. La pubblicità non è affatto neutrale in paesi piccoli come questi, perché le grandi compagnie straniere vogliono mantenere buoni rapporti con i governi locali.

Diffondere messaggi positivi riguardo ai vicini è già un grande passo, ma è comunque una strategia a breve termine. Un altro tipo di governo, un altro tipo di volontà politica dominante potrebbero indurre l’opinione pubblica a pendere di nuovo per il nazionalismo, che è esattamente quello che è successo negli anni Novanta. Per poter stabilire veramente valori differenti e favorire la riconciliazione è necessaria una spinta verso un approccio istituzionale a lungo termine, in cui l’aspetto più importante è studiare la storia (o anche questo va lasciato alla spontaneità?). Se il processo inizia perseguendo i criminali di guerra, deve continuare con la ricerca storica e con la pubblicazione di libri e manuali di storia. L’insegnamento della storia deve essere basato sui fatti, non su miti e ideologie.

I libri e i manuali di storia di oggi sono pieni di informazioni contraddittorie. Ad esempio, sessantacinque anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i croati continuano ad affrontare con difficoltà il triste fatto che l’unica volta in cui la Croazia è stata indipendente è stato quando il Paese era uno Stato fantoccio fascista (NDH – Stato Indipendente di Croazia). Il primo presidente dell’appena fondata Repubblica di Croazia, Franjo Tudjman, sottolineava come lo Stato fosse costruito sulle fondamenta del vecchio. La Costituzione croata, però, dice esattamente il contrario: che il nuovo Stato è fondato sull’antifascismo – dimostrando che la società croata è ancora divisa per quanto riguarda il proprio passato.

In tutte le società post-ju, la gente è abituata a convivere con queste contraddizioni: durante il comunismo, la memoria è stata spesso in conflitto con la storia. In un Paese dominato dall’ideologia comunista, dal folklore, dai miti, dal ricordo e dalla mancanza di fatti assodati, era più facile fare propaganda. Dopo il 1945 fu dichiarato che nel campo di concentramento di Jasenovac nella NDH erano morti 700.000 civili, per poi scendere, circa quattro decenni dopo, alla cifra più realistica di 60.000. Per quanto riguarda le decine di migliaia di soldati e civili della NDH giustiziati a Bleiburg subito dopo la fine della guerra, il numero preciso è ancora oggetto di dibattito. Era inimmaginabile pensare che la gloriosa armata di Tito, difendendo il Paese dai nemici, potesse aver commesso crimini di guerra nel 1945. Generazioni di jugoslavi sono cresciute senza mettere in dubbio le “verità” contenute nei manuali di storia, anche se a casa sentivano raccontare storie ben diverse. Era più facile non opporsi al dogma.

Ad oggi, c’è stata poca storia e troppa memoria; questa è una delle ragioni per cui è stato relativamente facile iniziare le guerre negli anni Novanta. In ogni caso, i libri di storia così come i libri di testo sono al tempo stesso parte dei problemi e la loro stessa soluzione. Gli storici dovrebbero, per una volta, smettere di comportarsi da servi dell’ideologia dominante e cominciare a esporre i fatti.

Il processo educativo agisce lentamente. Tuttavia, l’educazione nello spirito della riconciliazione è molto più che non correggere i libri di testo. Per riconciliarsi, la società ha bisogno di consenso. Per esprimere la verità e facilitarne l’accettazione, serve un confronto pubblico. I fatti devono essere accettati. Una società adulta e responsabile che desideri veramente la riconciliazione può farlo, così come è avvenuto in Germania. È un’operazione che richiede tempo, ma può essere coadiuvata da progetti culturali: in un dibattito del genere, la cultura può assumere il ruolo di arena pubblica.

La domanda è: come possono le arti e la cultura promuovere la riconciliazione quando la cultura popolare e le sue istituzioni – per esempio le accademie delle scienze serba e croata – incoraggiano al nazionalismo? Come i media, anche la cultura serve per veicolare la propaganda nazionalistica prima e durante le guerre. È impossibile discutere del ruolo di riconciliazione delle arti e della cultura come se fossero indipendenti dalla volontà politica.

Le aspettative che riponiamo nella cultura tendono ad essere sovrastimate. Confidiamo che la cultura possa aiutarci a creare una società migliore, più pacifica e più giusta. Alla base di quest’idea sul ruolo della cultura nel processo di riconciliazione c’è la convinzione che gli artisti, gli intellettuali e, in generale, le persone di cultura siano dotati di un senso morale superiore: per via del loro alto livello di istruzione, dovrebbero saperne di più. Non è così. La storia ci insegna che la cultura, in più occasioni, si è dimostrata efficiente nel produrre propaganda, in particolar modo nei regimi totalitari. Perché? Perché la morale degli artisti e dei burocrati della cultura non è differente da quella di tutti gli altri. Oltre tutto, nell’ex-Jugoslavia (ma anche altrove), la cultura era tradizionalmente serva del regime – ogni altro tipo di cultura degna di questo nome era praticamente assente. Del resto, non c’era altro modo per sopravvivere: l’istinto di sopravvivenza obbligava gli artisti e gli intellettuali a trasformarsi in impiegati statali. Non stupisce, quindi, che siano stati proprio loro a seminare il germe del nazionalismo durante gli anni Ottanta. Scrittori, accademici, giornalisti, membri delle istituzioni culturali: tutte persone di cultura trasformate in denti dell’ingranaggio della propaganda nazionalistica.

Il loro compito era quello di creare l'”altro” all’interno della società, di preparare la gente al conflitto armato, alla guerra. E ci sono riusciti benissimo.

Cultura per la vita, cultura per la morte

Una foto emblematica del 1993 da ricordare: Radovan Karadzic – poeta, psichiatra e presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina – in piedi sulle colline sopra Sarajevo. Con lui, il poeta russo Eduard Limonov che spara con una mitragliatrice in direzione della città.

Quando confidiamo nel ruolo positivo della cultura per la riconciliazione, dobbiamo tenere a mente la sua capacità di produrre ideologie e propaganda, di manipolare la gente, di pianificare e giustificare l’omicidio. Probabilmente, è vero anche il contrario: se la cultura può trasformarsi in una macchina di propaganda nazionalistica, in democrazia essa può anche facilitare la libera circolazione di idee, che è la chiave per una riconciliazione stabile. Per riuscire in questo intento, i progetti promossi dallo Stato devono liberarsi dall’abuso politico. Rispetto ad altre attività, quali ad esempio le spese militari, la cultura costa poco e può fare molto. Di solito le è riservata solamente una piccola percentuale del budget – forse meriterebbe qualche soldo in più. La riconciliazione sta avvenendo in diversi ambiti della vita, a volte più rapidamente, a volte meno. Le azioni programmatiche, specialmente nel campo dei media, dell’istruzione e della cultura possono essere solo benefiche. I cambiamenti sono già visibili. Non c’è da stupirsi: sono passati quasi due decenni dall’inizio delle guerre e una generazione completamente nuova è cresciuta. Ma se è a questa nuova generazione che bisogna guardare per poter misurare i miglioramenti e la velocità della riconciliazione sociale, allora le notizie non sono buone. Da un recente sondaggio promosso dall’organizzazione non governativa croata GONG fra gli studenti delle scuole superiori tra i 17 e 18 anni d’età, emerge che solo il 27% pensa che la NDH fosse uno Stato fascista; che più del 40% pensa che i croati in Croazia dovrebbero avere più diritti dei cittadini appartenenti alle minoranze; che il 40% è contro il perseguimento penale dei militari croati per crimini di guerra; che il 40% crede che l’omosessualità sia una malattia e che il 49,2% è contrario all’entrata della Croazia nell’UE. Il sondaggio non è certo rappresentativo di tutti i giovani croati, ma conferma il fatto che i valori nazionalistici sono ancora ben radicati. Eppure, anche se questo piccolo ritratto della nuova generazione non ci fa ben sperare, esso offre una motivazione forte affinché un governo dotato di volontà politica agisca immediatamente, se si vuole che la riconciliazione avvenga entro questo secolo.

Infine, non si può non notare una sorta di paradosso che agisce nel territorio dell’ex-Jugoslavia. L’indipendenza e la disgregazione della Jugoslavia sono frutto di guerre cruente. Decine di migliaia di persone hanno perso la vita: solo per la Bosnia si stimano almeno 100.000 morti. Centinaia di migliaia di persone sono state allontanate o fatte trasferire, per non parlare dei mutilati e degli orfani. Tra 30.000 e 50.000 donne, per lo più bosniache, sono state stuprate. Ora, ad appena un decennio da quella tragedia, tutti i nuovi stati indipendenti vogliono entrare a far parte dell’UE e desiderano vivere in armonia con i vicini che solo ieri, storicamente parlando, erano nemici da uccidere.

Perché combattere per l’indipendenza? Perché le guerre? È stata una guerra civile? C’è stato un solo aggressore? Quante le vittime e da quale parte? Le risposte a queste domande sono difficili da ottenere, ancor più difficile è che qualsiasi società sia disposta ad accettarle. Ma per riuscire, i programmi di riconciliazione devono confrontarsi con quelle risposte a tutti i livelli, e per fare ciò deve esserci una volontà politica. La riconciliazione non arriva così, ha bisogno di tempo, ma può richiedere meno tempo ed essere più facile se esiste una volontà reale e una dedizione, dall’alto verso il basso. È solo così che la riconciliazione potrà iniziare a funzionare davvero anche nella direzione opposta, dal basso verso l’alto.

Mi piace pensare che un approccio del genere meriti di essere messo alla prova, visto che il laissez-faire degli ultimi quindici anni non è riuscito a combinare granche”.

Published 27 February 2013
Original in English
Translated by Sara Terpin
First published by Eurozine (English version); Lettera Internationale 114 (2012) (Italian version)

Contributed by Lettera Internationale © Slavenka Drakulic / Lettera Internationale / Eurozine

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