Memoria del male, tentazione del bene

An interview with Tzvetan Todorov

Un’intervista del marzo 2005 in cui il filosofo bulgaro immigrato in Francia, prendendo spunto dal suo libro “Memoria del male, tentazione del bene”, parla dei possibili modi di interpretare la storia e di come tali interpretazioni possono essere utilizzate. In particolare, Todorov analizza la lettura del comunismo in Francia, dove quest’ideologia è ricca di implicazioni positive in quanto viene associata al movimento della Resistenza. L’anniversario della Seconda guerra mondiale offre agli Europei dell’Est l’occasione di raccontare come hanno vissuto loro il comunismo, un’esperienza del tutto diversa rispetto a quella dei francesi.

Vita Matiss: L’attuale controversia suscitata dalle differenti reazioni dei tre presidenti baltici all’invito a partecipare alle cerimonie del 9 maggio a Mosca per l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale ha portato ancora una volta alla ribalta la questione del confronto tra nazismo e comunismo. L’equiparazione tra i due regimi totalitari non è una novità. In Lettonia c’è una certa tendenza a condannare entrambi come ugualmente abietti di fronte all’arena internazionale. In “Memoria del male, tentazione del bene”, Lei dmostra che in passato furono in molti a denunciare questa somiglianza, pagando spesso a caro prezzo le loro affermazioni.

Nel libro colloca la questione entro il contesto storico e filosofico specifico del secondo dopoguerra europeo. Come Lei stesso sottolinea, si trattò di condizioni per nulla favorevoli ad intellettuali quali Margarete Buber Neumann e David Rousset. Oggi esiste una maggiore apertura per sollevare un dibattito sulle somiglianze tra nazismo e comunismo?

Tzvetan Todorov: Ampissimo dibattito… Innanzitutto, l’accostamento dei due regimi non è nuovo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando sia in Europa, sia negli Stati Uniti emersero le prime critiche da parte dei democratici e dei liberali nei confronti di Germania e Unione Sovietica, non era insolito stabilire un paragone tra le due nazioni. Praticamente dappertutto, chi ne osservava l’ascesa coglieva in pieno le loro somiglianze. Quest’affinità raggiunse il culmine nel settembre del 1939 quando, dopo il patto di non aggressione tedesco-sovietico, ossia il patto nazi-comunista, entrambi i leader totalitari si imbarcarono in un’impresa politica comune, quando cioè Hitler e Stalin invasero la Polonia. Aquel punto fu chiaro per tutti che i due regimi non solo si assomigliavano ma erano anche complici.

Ciò che rese difficile metterli sullo stesso piano fu la Seconda guerra mondiale. Si deve alla dichiarazione di guerra della Germania all’Unione Sovietica, se l’Unione Sovietica si ritrovò allineata dalla stessa parte delle democrazie liberali, cioè della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. E dopo la guerra, il peso di cui si era gravata l’Unione Sovietica nella battaglia decisiva per la sconfitta del nazismo fu tale da rendere difficile insistere sull’esistenza di una parentela tra i due regimi. Tuttavia, da quel momento in poi (a partire, diciamo, dal 1948 o dal 1949), e sempre più con il passare degli anni, l’analogia divenne evidente. Emersero le prove, i fatti che la dimostravano. Margarete Buber-Neumann ne fu un esempio molto eloquente: appena rilasciata dai campi sovietici, cadde nelle mani dei carcerieri nazisti e fu internata per altri cinque anni a Ravensbrück. Sul legame tra nazismo e comunismo scrissero Raymond Aron in Francia, Robert Conquest negli Stati Uniti, e molti altri storici e politologi.

Oggi la situazione è migliorata? Quella cortina fumogena che non consentiva di distinguere chiaramente la natura del regime sovietico, quel velo dovuto al conflitto tedesco-sovietico, al conflitto nazi-comunista, è stato sollevato? Direi di sì, probabile che lo sia nell’Europa dell’Est; ma nell’Europa dell’Ovest, no. Questa è la grande differenza tra le due Europe. E non sto parlando di una “Vecchia Europa” e di una “Nuova Europa” come Donald Rumsfeld, perché per me tutta l’Europa è vecchia. Si tratta di paesi che hanno alle spalle una storia millenaria, diversamente da altri che invece si sono formati di recente con l’immigrazione, e pertanto sono uniti più da un progetto futuro che da un passato in comune. Questa differenza persiste perché gli europei dell’Ovest non hanno mai dovuto patire la dominazione di un regime comunista. Hanno però sofferto il dominio nazista, perché i nazisti occuparono principalmente l’Europa. Fu così che i comunisti europei combatterono al fianco dei democratici d’ogni genere. In Francia combatterono fianco a fianco con i gollisti per liberare il Paese, sottomettendo la loro battaglia ideologica alla battaglia patriottica. Pertanto non si può dire ai francesi di oggi che i comunisti francesi di allora erano come i nazisti. In Occidente è molto difficile spiegare quest’affinità, che invece per noi, originari dei paesi europei dell’Est (riguardo a ciò, anche se ho vissuto più in Francia che in Bulgaria, reagisco con la sensibilità di un bulgaro), è lampante.

Ora che facciamo parte di un’unica Europa, è essenziale che gli europei dell’Ovest ascoltino fino in fondo ciò che hanno da dire gli europei dell’Est. Per fare un esempio personale: trovo estremamente inquietante che, girando in bicicletta per i quartieri periferici di Parigi, si passi da Lenin Boulevard a Avenue Dzherzhinsky. Mi sembra che, essendoci riuniti in uno stesso ensemble politico – l’Unione Europea – nel nome di ideali comuni, che sono ideali democratici in contrapposizione ai principi totalitari, sia arrivato il momento di condividere l’esperienza degli europei dell’Est con gli europei dell’Ovest. Tanto per complicare un po’il quadro della situazione, vorrei fare ancora un esempio, riguardante però un’altra parte del mondo, dove il 9 maggio (o l’8 maggio, dipende dal fuso orario) assume un significato quasi diametralmente opposto a seconda di chi ne fu protagonista. Sto parlando dell’Algeria, che all’epoca faceva parte della Repubblica Francese, e non era una colonia, bensì una vera e propria estensione del territorio francese. Molti algerini parteciparono alla battaglia per la liberazione della Francia, fecero parte dell’esercito, vennero chiamati alle armi e il 9 maggio 1945, questi algerini decidono di scendere in piazza per chiedere anch’essi una liberazione, quella dell’Algeria vis-à-visla Francia. La manifestazione sfugge di mano, degenera, oltre un centinaio di francesi vengono uccisi. Come rappresaglia contro chi aveva guidato il corteo, i francesi uccidono dai quindici ai ventimila algerini. Il 9 maggio 1945 viene considerato oggi l’inizio della guerra tra Algeria e Francia. Ora gli algerini possono festeggiare il 9 maggio, o per loro è piuttosto un giorno di lutto? La questione è diversa per gli europei dell’Est, poiché nell’Est la fine della guerra consacrò una nuova divisione del mondo. Pertanto, non si può rispondere con una sola frase. La mia personale opinione è che la fine della Seconda guerra mondiale meriti una commemorazione. L’Unione Europea è il miglior evento politico mai accaduto sul nostro continente da un po’di tempo a questa parte: è un accordo che rende impossibile la guerra. Possiamo avere le nostre controversie, possiamo non andare d’accordo tra noi, ma sappiamo che i lettoni non muoverano mai guerra ai lituani, né ai polacchi, e tanto meno agli estoni.

VM: Cioè tra di loro, quel che sta oltre i confini esterni è tutta un’altra questione.

TT: Certamente. Ci sono venticinque paesi che per secoli, se non per millenni, hanno continuato a dichiararsi guerra. Oggi non possono più farlo. Trovo che sia un risultato meraviglioso. È stato possibile raggiungerlo grazie alla sconfitta del regime nazista, che aveva conquistato tutta l’Europa, paesi baltici inclusi. Proprio in nome della vittoria su ciò che incarnava quel regime si è potuti arrivare alla pace europea. L’occupazione sovietica dei paesi dell’Est ha ritardato di quaranta-quarantacinque anni il loro ingresso in un’epoca di libertà; alla fine, però, anch’essi hanno beneficiato della vittoria sulla Germania nazista. Se nel 1940 i due dittatori fossero stati tanto intelligenti da accordarsi sulla spartizione del mondo, noi tutti vivremmo ancora in paesi totalitari.

VM: Per caso sono capitata in Francia nel periodo dei festeggiamenti per il centesimo anniversario della nascita di Sartre e di Aron. I quotidiani francesi sono pieni di articoli sui due scrittori accompagnati da una certa “sama-kritika” in stile comunista: sì, Sartre si sbagliò sul comunismo e Aron, dopotutto, aveva ragione, sebbene a quel tempo tutti noi adorassimo Sartre e screditassimo Aron. Leggendone qualcuno, sembra di intravedere persino un po’di competizione tra gli intellettuali salottieri su chi fu l’antitotalitario più ferreo di allora. In polemica con Jean-Louis Bourlanges, Jean Daniel scrive: “In un Paese come la Francia, dove l’egemonia intellettuale dello stalinismo ha fatto più danni che altrove, ci saranno due grandi riferimenti: uno a sinistra, quello di Camus, e uno a destra, quello di Raymond Aron”. Concorda con Daniel quando afferma che “l’egemonia intellettuale dello stalinismo ha fatto più danni che altrove”? Concorda che l’attuale “sama-kritika” francese non sia solo di facciata, secondo lo stile comunista, ma che al contrario sia in corso un sostanziale cambiamento di opinione?

TT: Il cambiamento è già avvenuto tempo fa, e precisamente tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, quando Raymond Aron, che fino ad allora era stato il nemico vilipeso – emarginato e disprezzato -, divenne un pensatore di tutto rispetto. Ci si rese conto che, grazie alla sua lucidità e alla sua moderazione, era stato il miglior osservatore del suo secolo. Se Daniel dice che la sinistra è Camus e la destra Aron, io non mi riconosco affatto nella sua formula. Si tratta comunque di due intellettuali – uno un grande scrittore e l’altro un grande studioso (storico e sociologo) -, di due intellettuali che ebbero il merito di essere a tutti gli effetti antitotalitaristi; il che innalza un po’il prestigio della Francia, perché dimostra che qualcuno riuscì a sfuggire alla morsa della “Mente Prigioniera”, per dirlo con le parole di Milosz. Dobbiamo, quindi, essere orgogliosi di persone come Aron e Camus. Non penso che quest’autocritica sia ipocrita, né a livello politico né a livello intellettuale. Oggi l’opinione pubblica è davvero antitotalitaria. Il cambiamento è già avvenuto tempo fa.

VM: Rispondendo a quest’ultima domanda, ha detto che si tratta di un’autocritica sincera, non di un’ammissione formale. Però, se l’autocritica è sincera, se i politici e l’opinione pubblica in Francia ammettono di essersi sbagliati sul comunismo tra la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta, questo non quadra con ciò che Lei ha detto prima, ovvero che la situazione nell’Europa dell’Ovest è tale per cui…

TT: No, non è proprio così. Occorre una precisazione. Quello comunista fu un partito molto popolare in Francia, e Daniel ha ragione a dire che lo stalinismo causò più danni in Francia che altrove in Occidente. Quando arrivai qui il Partito comunista riceveva il 20 per cento del voto popolare. Asinistra non accadeva niente se il Partito comunista non si muoveva. Può immaginare quanto fosse sconcertante tutto questo per uno come me, originario della Bulgaria. Era anche un partito (diversamente dal Partito comunista italiano, anch’esso molto importante) non riformista. Ma per tornare alla sua domanda: il parere dell’opinione pubblica di oggi riguarda l’Unione Sovietica, non l’ideologia del comunismo. L’ideologia comunista, purtroppo, non è definitivamente compromessa.

VM: Vuole dire che non mettono sullo stesso piano l’Unione Sovietica e l’ideologia comunista?

TT: No. In Francia c’è sempre il Partito comunista. Ci sono però anche tre o quattro partiti trotzkisti, che sono più comunisti del Partito comunista. Sono partiti antiStalin, antisovietici perché, come ben sa, Trotsky criticò Stalin… Nelle elezioni presidenziali del 2004, il candidato democratico-socialista fu silurato dall’estrema sinistra, che prese il 10 per cento dei voti. Ciò significa che in Francia il 10 per cento della popolazione – e non è un dato insignificante – sogna una società comunista ideale.

VM: In Lettonia ed altrove, oggi è naturale mettere in relazione l’ideologia comunista con l’Unione Sovietica.

TT: Nei Balcani, nella Repubblica Ceca, per tutta l’Europa dell’Est l’equivalenza è ovvia. Non lo è per i francesi, perché i francesi avevano i loro comunisti, persone che combatterono contro i nazisti, che combatterono anche per salari migliori, persone che, come i cristiani, erano pronte a sacrificarsi per assistere i poveri, per aiutare i loro fratelli…

VM: Ci furono tanti comunisti anche nella Resistenza…

TT: Nella Resistenza, ma anche dopo la Resistenza. Ricordo che quando arrivai in Francia negli anni sessanta, i comunisti erano i soli disposti ad andare di casa in casa, per fare la spesa a un’anziana che non aveva la macchina, per aiutare un vecchio disabile, e così via. Di norma, si comportavano da cristiani. Erano mossi da un sentimento di comune solidarietà, sentimento inesistente presso i rappresentanti dei partiti definiti “borghesi”. Gli europei dell’Est devono anche capire che quelli dell’Ovest non hanno vissuto al loro stesso modo l’ideologia comunista. Riguardo all’Unione Sovietica però, non credo che qualcuno si faccia ancora illusioni su ciò che fu in realtà.

VM: Se interpellasse il primo che passa per la strada, diciamo in Lettonia, questa persona rimarrebbe innanzitutto sorpresa dalla sua distinzione tra ideologia comunista e Unione Sovietica. E se le domandasse quale tra le due ha ancora credibilità in Occidente, la risposta più probabile è che in Occidente si potrebbe pensare bene dell’Unione Sovietica, perché i sovietici ebbero un ruolo importante nella sconfitta dei nazisti. Ma il comunismo… chi potrebbe illudersi ancora sul comunismo?

TT: Ognuno di noi trae le conclusioni dalle proprie esperienze. Nell’immediato dopoguerra, i francesi, gli olandesi e gli inglesi si ricordavano ancora del sacrificio di milioni di sovietici che aveva permesso la vittoria. Oggi invece si pensa che furono gli americani a vincere la Seconda guerra mondiale. In occasione dei festeggiamenti del 2004 per il sessantesimo anniversario dello sbarco in Normandia non c’era quasi nessun rappresentante russo. Eppure, nel giugno del 1944, la guerra era quasi finita: a undici mesi dalla sua conclusione definitiva, i russi l’avevano già vinta. Però, sa, ognuno abbellisce il passato a seconda di quello che gli serve.

VM: Nel suo libro cita le parole dell’ex presidente bulgaro Jelev, che a suo tempo fu anche un dissidente: “Si può voltare pagina solo dopo averla letta”. Sbaglio o Lei è d’accordo con Jelev, solo che, più della lettura in sè, la preoccupa il significato che deduciamo dalla pagina?

TT: Assolutamente. Molto spesso in Francia (ed altrove in Europa) si dice che la memoria è sacra, che non si deve mai dimenticare. “Mai dimenticare”. È uno slogan che sentiamo di frequente perché viviamo in paesi dove tutto cambia con rapidità. E di conseguenza continuiamo a ripetere parole come “preserva il passato”, “ricorda sempre”, “il dovere di ricordare”.

VM: C’è un detto molto citato di Santayana: “Chi dimentica la storia è condannato a ripeterla”.

TT: Esatto. Riflettendoci un attimo, ci si accorge che il passato in quanto tale, il passato in se stesso, non contiene lezioni. Si possono trarre tutte le lezioni che si voglio no dal passato. Faccio un esempio estremo: Hitler disse che il genocidio armeno fu un bene “perché i generali turchi se la cavarono senza incorrere nella minima condanna”. Il solo ricordo del genocidio armeno non impedisce altri genocidi; al contrario, può dare strane idee a cert’uni. Quali lezioni si possono trarre dalla Seconda guerra mondiale? Naturalmente, il fatto in sè non produce alcuna lezione. Siamo noi a dare un senso agli eventi, ad integrarli in un contesto più ampio, a porci domande, ad attribuire loro un valore… ecco come possiamo esprimere un giudizio. Nel 1945 la Resistenza era considerata un movimento positivo al cento per cento. Cinquanta o sessant’anni dopo, abbiamo iniziato a distinguere tra diverse forze della Resistenza, diversi intenti, diverse motivazioni, e i giudizi vanno differenziandosi sempre più.

VM: In Lettonia la ricostruzione storica è stata quasi maniacale. Una reazione perfettamente comprensibile, visto che i lettoni avevano perso la loro memoria, gli eventi erano stati abbondantemente manipolati, eccettera. Furono istituite una commissione di ricerca dopo l’altra per stabilire in modo definitivo se i deportati in questo o quel momento erano 5312 o 4891. Trovo che accertare fatti del genere sia un compito importante. Scrissi un articolo per la stampa lettone dove citai uno dei suoi libri, e chiesi apertamente in che modo queste verifiche avrebbero potuto scongiurare il ripetersi degli eventi. All’epoca il commento non fu molto apprezzato.

Nel mio libro stabilisco una differenza fra tre stadi. Naturalmente si tratta solo di una distinzione teorica, poiché nella pratica si possono attuare tutti e tre insieme. I tre stadi sono: primo, l’accertamento dei fatti, cioè la base da cui partire. Bisogna sapere quante persone furono uccise nella foresta di Katyn. E bisogna sapere chi fu a sparare. I nazisti o i cekisti? È solo il primo stadio. Il secondo consiste nell’interpretare i fatti. Capire chi, cosa e perché. Il terzo nello stabilire in che modo usare quest’interpretazione. L’interpretazione non è contenuta nei fatti in quanto tali. Nemmeno il modo di usarla è contenuto nei precedenti stadi. Non è compito degli storici decidere come impiegare la conoscenza; sta al presidente decidere. Con un candore stupefacente, il generale de Gaulle disse: “La Francia non deve guardare troppo da vicino a chi fece cosa durante la Seconda guerra mondiale. La Francia deve affermare la sua continuità millenaria”. Da politico, forse aveva ragione. Ma se pronunciate dalle labbra di uno storico, queste parole sarebbero davvero scandalose.

VM: Si immagini se le dicesse oggi un politico…

TT: In filosofia morale ci piace dire che il dovere non è una conseguenza dell’essere. I fatti non determinano un dovere morale, la volontà. Non esiste un andamento politico dettato dagli eventi. Questo era invece il presupposto del marxismo. Noi non siamo marxisti, perché rifiutiamo il rigido determinismo marxista, secondo cui, a partire dal momento in cui si analizza una situazione di lotta di classe, il capitalismo e così via, esiste un’unica soluzione possibile. Anche la migliore delle analisi non indica quale azione intraprendere. È possibile determinare quante persone furono deportate, ma ciò non ci dice come utilizzare questa conoscenza per fare in modo che non avvengano mai più deportazioni.

VM: Per tornare alla citazione di Jelev: sulla pagina che i politici lettoni vorrebbero far leggere alla Russia (e non solo alla Russia) sta scritto che Stalin e Hitler sono entrambi da condannare per aver acconsentito al patto Molotov-Ribbentrop e ai suoi protocolli segreti, e che i tre Paesi baltici furono occupati dall’Unione Sovietica contro la loro volontà. La Russia non sembra in grado di capire. Secondo Lei, i Paesi baltici dovrebbero comunque voltare pagina?

TT: Direi proprio di sì. Se ci aspettiamo di risolvere tutte le controversie del passato non avremo mai pace. Ricordo che israeliani e palestinesi si riunirono per uno di quei tentativi di arbitrato, dove individui di buona volontà di entrambe le parti si incontrano per discutere su come porre fine al loro conflitto. Giunsero alla conclusione che l’articolo 1 del loro trattato avrebbe stabilito che nessuna delle parti avanzasse la pretesa di concordare un’interpretazione del passato. E andando ancora più indietro nel tempo, alla fine del XVI secolo l’Editto di Nantes pose fine alle guerre religiose che stavano dilaniando l’Europa, guerre violente e crudeli tanto quanto le guerre del XX secolo. Secondo l’articolo 1 dell’Editto di Nantes, evocare guerre e divisioni è un reato punibile. Evocare il passato è fuorilegge. Non mi spingerei così in là da pretenderlo anche oggi. Penso però che non si dovrebbe farne un sine qua non.

VM: Capisco le sue argomentazioni, ma prendiamo l’esempio di Francia e Germania. Sarebbe stato possibile per questi due stati iniziare un nuovo capitolo dopo la guerra, se la Germania non avesse ammesso di avere invaso la Francia nel 1940?

TT: No. Ma la Germania era un Paese sconfitto, e i vincitori stabilirono come doveva comportarsi. La Russia non fu un Paese sconfitto. Se non avessero subito una sconfitta militare, se non fossero stati obbligati ad accettare una serie di condizioni, i lettoni, i lituani e gli estoni sarebbero in grado di dettare la politica dello Stato russo. Proprio come i francesi, gli inglesi, gli americani e i russi dettarono la politica della Germania. Per cinque anni, la Germania non ebbe una politica propria. La Germania fu semplicemente manovrata dai suoi conquistatori. Quindi, non c’è da stupirsi che le cose vadano diversamente.

VM: Forse un’altra differenza tra la Germania del 1945 e la Russia di oggi è che la Germania, pur avendo perso la guerra, pur avendo subito le imposizioni degli alleati, voleva comunque una riconciliazione. La Russia vuole davvero una riconciliazione oggi? Io non so rispondere. Penso soltanto che dovrebbe essere un desiderio di entrambe le parti.

TT: Certamente. La Germania, però, voleva entrare a fare parte di un’entità più grande, che all’inizio fu l’Europa dei Sei, la Comunità Economica Europea. La Russia invece non è una candidata per l’Unione Europea. Quindi non possiamo pretendere che i russi si sottomettano alle nostre condizioni. Possiamo solo cercare di influenzarli, ed è quello che stiamo facendo. Dovremmo insistere perché adottino istituzioni democratiche, dovremmo offrire loro la nostra assistenza. Però non bisogna sognare: la politica internazionale non è un gioco di principi morali. Non si fa politica con le lezioni di morale. La politica è un rapport de forces.

VM: È proprio così che il ministro degli Esteri russo rimprovera i Paesi baltici, dicendo: “Non abbiamo bisogno di lezioni morali”.

TT: In effetti, la politica non c’entra con i principi morali. Il governo americano ce ne dà prova ogni giorno, il governo francese anche… La politica non ha nulla a che fare con la morale. Bisogna sbarazzarsi di quest’illusione.

VM: Nel suo libro individua interessanti analogie tra il nazismo e il comunismo, ma ne indica anche le differenze. Contrariamente a quanto si crede, Lei afferma che il divario fra “il discorso e il mondo” fu maggiore sotto al regime comunista che sotto a quello nazista e che, dopo la morte di Stalin, più che colmare questo divario si cercò di nasconderlo: “Il regime sovietico è molto più menzognero, illusorio, teatrale del regime nazista”. Un’altra differenza da Lei indicata è che le isole di Kolyma e Solovki furono gli equivalenti russi di Buchenwald e Dachau, mentre Treblinka non ebbe un corrispettivo. La mancanza di campi destinati esclusivamente a uno sterminio veloce, industrializzato in Unione Sovietica è una valida giustificazione per chi continua a dire che la variante sovietica (morte nel giro di tre mesi per fame, indigenza e freddo) non era finalizzata a eliminare interi gruppi di persone?

TT: No. In realtà, ci furono luoghi simili a Treblinka nell’Unione Sovietica, ma non si trattò di campi di sterminio. Ad un certo punto, il governo sovietico emanò l’ordine di eliminare interi settori della popolazione. La foresta di Katyn ne è un esempio significativo. Si prendono quindici o ventimila persone e le si uccide tutte in una notte. Meglio di Treblinka, oserei dire. La funzione dei campi sovietici però era un’altra. Erano campi di lavoro per schiavi, dove si riteneva che la vita umana non avesse alcun valore. Non si dà da mangiare ai prigionieri perché se muoiono vengono rimpiazzati. Decidere che devono morire, o rimanere indifferenti alla loro morte; ecco, per me questa differenza non giustifica nulla. Non sminuisce un crimine. Sono entrambi reati gravi. Tuttavia, bisogna notare che il tasso di mortalità, persino nei campi sovietici peggiori – diciamo Kolyma o Magaban o Norilsk – non fu mai del novanta per cento. Persino in quelle condizioni. L’essere umano è molto resistente, si adatta, sopravvive con una brodaglia. È deplorevole, la durata e l’aspettativa di vita si riducevano, ma non tutti morivano nell’arco di tre mesi. ATreblinka invece morirono tutti in tre giorni.

VM: Nel suo libro scrive che “ai nostri giorni è di grande attualità la condanna del comunismo; tuttavia la mistificazione da esso operata è molto potente, molto seducente, e smascherarla è una priorità”. D’altro canto, nell’ultimo capitolo afferma che “il trauma inflitto dall’esperienza totalitaria ai popoli europei è stato, mi sembra, troppo profondo, i danni troppo ingenti, perché si possa immaginare che le dottrine totalitarie riescano ad esercitare il loro fascino in un prossimo avvenire”. Non c’è una certa contraddizione tra queste due affermazioni? Nei Paesi baltici molti direbbero che la condanna del comunismo ha un senso proprio perché ancora oggi in Russia il totalitarismo è allettante.

TT: [Ridacchia]. Mi riferivo al mondo europeo, non alla Russia. È chiaro però che la caduta del comunismo in Russia portò con sè un indebolimento della nazione, del potere della nazione. Per questo il nazionalismo può sostenere una speranza illusoria, può alimentare una nostalgia per il comunismo. In Russia, il comunismo è meno morto che altrove. In Europa non abbiamo questo problema – siamo lontani dai tempi in cui eravamo soggetti al comunismo. Nell’Europa dell’Est eravamo schiavi. È molto importante imparare ad essere lucidi quando si parla di ideologia comunista più che di nazismo. Infatti, a parte qualche nostalgico in Germania e in altri paesi, ai nostri giorni nessuno esalta più l’ideologia nazista. Al contrario, quella comunista trova ancora sostegno presso minoranze significative. In Francia, nel Terzo Mondo. Bisogna quindi ricordare che quest’ideologia, che esercita un certo fascino sulla massa (ci porterà solidarietà e un futuro glorioso, radioso), è un’ideologia di morte. Niente di buono deriva dall’ideologia comunista. Questa mi sembra davvero una lezione necessaria. I lettoni sono ben vaccinati contro la tentazione del comunismo, ma è un messaggio che va propagato ovunque. È il loro dovere.

Published 5 November 2007
Original in English
Translated by Elena Tonazzo
First published by "Noi e l'altro", Datanews Editrice 2007 (Italian version), "Rigas Laiks 5/2005 (Latvian version)

© Vita Matiss / Tzvetan Todorov / Datanews Editrice / Eurozine

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