Mai più a Belgrado

Il primo giorno della scorsa primavera ero a Vienna. Mentre percorrevo a piedi la Mariahilfer Strasse, ancora spazzata dalle folate del vento invernale, mi è giunta al volo la conversazione di tre ragazzi che parlavano tra loro, in serbo, di un avvenimento a cui avevano partecipato anche giovani bosniaci e croati. A colpirmi non è stato il fatto che si esprimessero in quella lingua, che oggi capita spesso di sentire per le strade o nella metropolitana di Vienna, ma una frase pronunciata da uno dei ragazzi, che aveva detto: “Non pensavo che ci fosse tanta gente che conosce la nostra lingua”. Ho capito subito che, dicendo “la nostra lingua”, non intendeva riferirsi a una lingua in particolare, come il serbo, il bosniaco o il croato. Al contrario, il ragazzo aveva usato quell’espressione di proposito, per evitare di chiamare la lingua con il suo nome, come avrebbe dovuto fare per esprimersi in modo politicamente corretto. Questo perché la nostra lingua è la locuzione che i rifugiati e gli immigrati, o anche qualsiasi gruppo di persone provenienti dalla ex Jugoslavia, usano quando si incontrano all’estero come nome delle varie lingue in cui comunicano tra loro.

Un pugno nello stomaco

La verità è che la loro lingua comune non ha più un nome comune. Il vecchio serbo-croato di un tempo non esiste più. Dicendo la nostra lingua, il giovane voleva indicare quel minimo comun denominatore linguistico che si è affermato spontaneamente dopo la fine dei conflitti nella ex Jugoslavia. A ben guardare, si tratta di un nome in codice che serve a manifestare le buone intenzioni di chi parla: non siamo nemici, possiamo ancora capirci tra noi, nonostante tutto quello che è successo.

Quelle parole carpite per caso mi hanno toccato in modo sorprendente, riscaldandomi il cuore e riempiendomi di gioia. Grazie a quella lingua-senza-nome questi ragazzi possono comunicare tra loro e questo è l’importante, ho pensato mentre li guardavo allontanarsi a passo svelto, vestiti di nero come i loro coetanei di tutte le città del mondo. Erano così giovani, poco più che adolescenti. Probabilmente serbi venuti a Vienna in vacanza.

All’improvviso, però, mi sono resa conto che quei ragazzi così giovani appartenevano a una generazione cresciuta dopo l’inizio delle guerre nella ex Jugoslavia, e quel pensiero mi ha colpito come un pugno nello stomaco. Quando sono andata a Belgrado per l’ultima volta, diciassette anni fa, forse non erano neppure nati.

Da allora, una nuova generazione ha avuto il tempo di crescere, e quella conversazione captata in strada il primo giorno di primavera ne era la prova.

Mentre li guardavo allontanarsi, ho sentito riaffiorare dentro di me la vecchia miscela di rimorso e di ansia che mi perseguita da tempo. Quante volte sono stata invitata a Belgrado negli ultimi diciassette anni dai miei amici, dal mio editore, dagli organizzatori di varie conferenze internazionali e da istituti culturali di ogni tipo? Ma ogni volta trovavo un motivo plausibile per rifiutare, per declinare educatamente l’invito. Avevo sempre una scusa pronta.

Finalmente il vento si è placato, come se avesse esaurito la sua forza, e io ho rallentato il passo. Non ho potuto fare a meno di pormi ancora una volta la solita domanda: perché non sono più tornata a Belgrado in tutti questi anni? Quando sono i miei amici a domandarmelo, di solito rispondo che non lo so. So solo che il solo pensiero di trovarmi di nuovo lì mi mette l’ansia, e che dopo lo scoppio della guerra ho evitato in tutti i modi di tornare a Belgrado, come se la città fosse diventata una metafora della guerra.

Era l’idea di incontrare “loro” ad angosciarmi? Il ricordo di quello che “loro” hanno fatto a “noi”? O di quello che i serbi avevano fatto a se stessi? Oppure l’idea di dovermi confrontare con una serie di problemi che non avevo nessuna voglia di affrontare? Sapevo che mi sarei portata dietro il peso di quei diciassette anni come un grosso baule pieno di volti, ricordi, parole, immagini, che si sarebbero riversati fuori non appena lo avessi aperto e che poi non sarei più riuscita a raccogliere e a rinchiudere di nuovo in soffitta. D’altra parte, aver rimandato il viaggio tanto a lungo da far crescere nel frattempo una nuova generazione di serbi mi sembrò all’improvviso una cosa assurda. Come se non mi fossi resa conto di come stavano le cose fino al momento in cui avevo colto quella conversazione sulla Mariahilfer Strasse, che aveva risvegliato la mia solita ansia.

La paura degli altri

Ricordo bene l’ultima volta in cui sono stata a Belgrado: era il giugno 1991, poco prima che la Croazia proclamasse la sua indipendenza. Uno dei tre avrebbe potuto essere nato proprio quell’anno, o addirittura in quel mese. La ragazza, forse? I suoi genitori avrebbero potuto abitare in una casa vicino alla stazione ferroviaria, nello stesso quartiere dove vivevo anch’io con la mia amica Mirjana. Probabilmente sua madre comprava il pane dal mio stesso fornaio e la mattina del sabato andava a fare un giro al mercato delle pulci di Kalenica pijaca.

Poi la mia amica Mirjana si era gravemente ammalata ed era morta. Un altro amico, Boris, che mi aveva offerto un caffè il giorno prima della mia partenza, si era sposato. Quando lo incontrai all’aeroporto di Francoforte, dieci anni dopo, aveva un figlio che andava già a scuola. La mia amica Ana si era trasferita all’estero, prima a Parigi e poi a Sarajevo. Anche Ljubica aveva lasciato Belgrado ed era vissuta prima in Slovenia, poi in Svezia e in Belgio; ultimamente, stanca di girovagare, è tornata in Serbia. Un collega, un giornalista che veniva spesso a Zagabria, era stato nominato ministro dell’informazione nel governo di Slobodan Milosevich. Un altro era diventato direttore generale della televisione di Stato serba, la più efficiente macchina di propaganda del regime, e un terzo aveva accompagnato il generale Ratko Mladich a Srebrenica e ne aveva celebrato il lugubre trionfo.

Le informazioni che ci arrivavano a pezzi e a bocconi ci dimostravano quanto eravamo cambiati, noi e i nostri amici, alcuni dei quali erano diventati… Già, che cosa erano diventati esattamente? Nostri nemici? O persone così diverse da come le ricordavo da essere irriconoscibili: un ministro, una penna al servizio della propaganda nazionalistica, un megafono dell’odio? Li avevo mai conosciuti veramente? È possibile conoscere veramente le persone, fidarsi di qualcuno? Sprofondavo nella depressione, sempre più delusa e disgustata dalla natura umana. Mi guardavo allo specchio, cercando anche in me stessa i segni del cambiamento. La paura degli altri è anche paura di se stessi.

Sapevo che un viaggio a Belgrado avrebbe fatto riaffiorare immagini e sentimenti semidimenticati, come le parole di una donna musulmana di Srebrenica che aveva visto il figlio, che teneva in braccio, massacrato da un soldato serbo: “Sono stata costretta a bere il sangue di mio figlio”, aveva detto. Quelle parole erano rimaste sepolte nella mia memoria per tredici anni. O come la foto apparsa sulla copertina di Dani, una rivista pubblicata a Sarajevo, che mostrava un giovane in jeans, scarpe da ginnastica e maglietta bianca, appoggiato a una ringhiera. Nella foto non c’era niente di speciale, a parte un enorme buco al posto in cui avrebbe dovuto trovarsi il torace del ragazzo. Che strano, pensai quando la vidi per la prima volta, attraverso il buco si scorge la balaustra di ferro. Mi concentrai volutamente su quel particolare, che rendeva l’immagine meno realistica…

Un viaggio a Belgrado?

Cercavo anch’io, come tutti, di evitare di confrontarmi con le mie emozioni, rimanendo lontana dai miei vecchi amici di Belgrado, non ritornando più in quella città? D’altra parte, perché un viaggio a Belgrado avrebbe dovuto essere così diverso dal ritorno a Zagabria? Dopo tutto, anche lì avevo incontrato lo stesso tipo di gente: vecchi amici e colleghi diventati nazionalisti o semplicemente opportunisti. Avevo anche dovuto constatare che molte delle persone che mi erano care si erano trasferite all’estero. Da questo punto di vista, un viaggio a Belgrado non sarebbe un’esperienza molto diversa. Ma non è così. Vivo e lavoro a Zagabria, è la mia città e non avrei potuto evitare di confrontarmi con la sua realtà postbellica, se non decidendo di partire per sempre.

Nel caso di Belgrado, pensavo, potevo farne a meno. “Ma anche Belgrado fa parte del tuo passato”, mi ha detto Boris quando ci siamo visti l’ultima volta. Era tornato a Belgrado dagli Stati Uniti già da qualche anno. Come sempre, non ci siamo incontrati nella sua città o nella mia, ma a Vienna, in occasione di una conferenza, naturalmente. Abbiamo parlato del malessere che si prova ritornando nei luoghi che un tempo consideravamo nostri e che non lo sono più. La prima volta che aveva visitato Dubrovnik dopo la guerra, mi ha detto, aveva sentito un grande dolore, non solo a causa della nostalgia delle estati trascorse tra le sue strade lastricate di pietra o dei danni che le bombe avevano causato alla bellissima città medievale. Lo addolorava soprattutto il pensiero che la soldatesca jugoslava avesse fatto tutto quello anche in suo nome. “Devi venire a Belgrado e vedere che cosa fanno le persone che conosci. Dopo tutto, le città sono fatte di persone”, ha soggiunto. Poi mi ha mostrato una foto di suo figlio, ormai adulto, un bel giovane in giacca e cravatta. Non riuscivo a credere che il bambino che avevo visto all’aeroporto di Francoforte e poi negli Stati Uniti fosse diventato uno studente di legge. Come l’incontro con i tre ragazzi sulla Mariahilfer Strasse, avvenuto poco prima, anche quella foto mi ricordava che tra poco una nuova generazione, nata dopo la fine della guerra, avrebbe avuto l’età per votare. Ancora una volta, ho dovuto ammettere a me stessa di non essermi mai voluta confrontare con la realtà rappresentata da questi giovani. È accaduto qualcosa di importante e non me ne sono accorta: non li ho visti crescere. Che cosa so di loro? So che non possono viaggiare all’estero senza un visto, non possono andare a Londra o a Parigi e nemmeno a Trieste. Non possono visitare neppure Bucarest o Sofia.

Un visto per l’Europa

Che situazione triste e assurda, che condizione umiliante, ho pensato, ricordando che la mia generazione poteva viaggiare in tutta Europa senza bisogno di visti, grazie al vecchio passaporto rosso jugoslavo. Questo fatto era naturalmente fonte di orgoglio, una differentia specifica che gli abitanti dei paesi del blocco sovietico ci invidiavano. Negli anni Settanta, durante le vacanze, molti di noi se ne andavano in Italia, in Francia, in Inghilterra o in Svezia, a raccogliere fragole e a tirare su un po’ di soldi. Quando ero ancora una studentessa, ho lavorato per tre mesi in un grande magazzino in Svezia e sono tornata a casa con denaro sufficiente per un anno. Un altro privilegio che ci veniva molto invidiato era la possibilità di comprare un paio di jeans americani o di scarpe italiane, ma anche libri e dischi stranieri. Il lato negativo di questa situazione era che la libertà di viaggiare diventava una ragione per accettare il sistema politico, una specie di tangente che il regime ci offriva per comprare il nostro consenso, per convincerci che la teoria del “socialismo dal volto umano” avesse un significato e potesse funzionare. Nessuno di noi lo metteva in dubbio. Mentre assistevo alla conferenza, continuavo a pensare a quei ragazzi che parlavano in serbo nella Mariahilfer Strasse: probabilmente non vivevano in Serbia o, se venivano effettivamente da lì, dovevano essere tra i pochi fortunati che erano riusciti a ottenere un visto. Di recente la questione dei visti per i giovani europei residenti nei paesi non appartenenti alla UE è stata al centro di molte discussioni. Non è facile ottenere i visti, soprattutto per i serbi, e questo contribuisce a isolare i giovani dal resto del mondo, sostengono alcuni. Se ne è parlato anche alla conferenza. Perché punire i giovani per una colpa che non hanno commesso? Quando è scoppiata la guerra, non erano neppure nati. Non siamo responsabili di ciò che hanno fatto i nostri padri, ha detto uno dei relatori, con voce piena di rabbia. Il suo scopo era chiaramente quello di suscitare simpatia tra i presenti, ma devo confessare che su di me ha avuto l’effetto opposto. Era così arrabbiato che finii per arrabbiarmi anch’io. Secondo lui, la nuova generazione di serbi, di cui si era fatto portavoce, non merita di essere trattata in questo modo dall'”Europa”. La tesi implicita nel suo discorso era che i giovani sono innocenti per definizione. Questa rivendicazione della presunta innocenza della gioventù serba mi è sembrata insopportabile.

Ne so qualcosa per esperienza personale. Io stessa, come tutti i membri della mia generazione, ho presunto di essere innocente per il semplice fatto di essere nata dopo la Seconda Guerra Mondiale. Che cosa c’entravamo noi con i crimini commessi quando non eravamo ancora nati? La situazione della nuova generazione di serbi non è del tutto paragonabile alla nostra, perché i nostri padri avevano partecipato a una guerra giusta, difensiva e antifascista (anche se sospetto che i loro padri sarebbero pronti a sostenere di aver fatto lo stesso). Non possiamo negare però che nel corso della Seconda Guerra Mondiale i nostri padri avessero commesso numerosi crimini di guerra, di cui non ci hanno mai parlato. Non mi sento di biasimarli per questo silenzio, lo stesso silenzio che si è instaurato in Croazia, in Bosnia e in Kosovo dopo i recenti conflitti. Ma non posso giustificare il nostro atteggiamento, la nostra incapacità di porre loro le domande giuste, a cominciare dalla più semplice e dalla più difficile di tutte: che cosa hai fatto durante la guerra, papà? Sarebbe stato compito mio e nostro criticare le loro giustificazioni e la loro interpretazione ideologica della Storia. Non l’abbiamo fatto ed è stato un grave errore da parte nostra. Sarebbe stato compito mio e nostro, della nuova generazione di allora, cercare la verità sulla guerra dei nostri padri, che non fu solo resistenza al fascismo e rivoluzione comunista, ma anche guerra civile. Invece abbiamo preferito credere alla storia ufficiale e ai manuali di storia, perché questo ci rendeva la vita più facile. Se il nostro atteggiamento verso il passato fosse stato diverso, le guerre nazionalistiche degli anni Novanta non sarebbero scoppiate con tanta facilità.

L’errore di rimanere in silenzio

Anche se so ben poco della nuova generazione serba, c’è una questione che mi sembra ancora più importante: che cosa sanno i giovani serbi del loro passato? Il giovane relatore che aveva rivendicato con rabbia il diritto della sua generazione a recarsi all’estero aveva torto, secondo me. Anche i suoi coetanei in patria sono, come noi, responsabili dei loro errori: l’errore di rimanere in silenzio, di non domandare ai propri padri che cosa hanno fatto durante la guerra, di disinteressarsi del passato e di pensare di avere diritto ai visti solo perché sono giovani, innocenti e arroganti. Soprattutto, sono responsabili per non aver mai domandato ai loro genitori perché i serbi abbiano bisogno di un visto per recarsi all’estero. È vero, i crimini commessi dai padri non possono ricadere sui figli. Ma la nuova generazione serba è responsabile del proprio atteggiamento verso il passato, perché da questo dipende in parte il suo stesso futuro. È quello che avremmo dovuto capire anche noi, la generazione dei loro padri, finché eravamo in tempo. Ma dato che non lo abbiamo fatto, abbiamo dovuto imparare la lezione nel modo peggiore.

Grazie alle parole sagge di Boris, ho capito che non è la paura di rivedere i miei vecchi amici a tenermi lontana da Belgrado. Dopo tutto, in questi anni ci siamo incontrati molte volte all’estero in occasione di conferenze e di festival di vario tipo e ognuno di noi sa che cosa hanno detto o scritto gli altri durante e dopo la guerra. Abbiamo tutti qualche errore o qualche malinteso da rimproverarci, come l’errore che ho commesso io e di cui ancora mi vergogno: nel 1999 o nel 2000, poco dopo il terribile esodo degli albanesi dal Kosovo, un mio giovane collega serbo, Vladimir Arsenijevich, scrisse un testo intitolato “Siamo tutti albanesi”, in cui c’era una frase che mi mandò su tutte le furie. A un certo punto, Arsenijevich scrive di essere andato in cucina e di aver preso una birra dal frigorifero. Mentre immaginavo la scena, mi sembrò che l’accenno alla “birra fredda” fosse davvero troppo. Dopo aver descritto le sofferenze dei kosovari e il loro esodo in Albania e in Macedonia, le lunghe file di profughi in marcia sotto un sole implacabile, con tutte le loro cose raccolte in buste di plastica, non poteva di punto in bianco aprirsi una “birra fredda” e rinfrescarsi la gola prima di riprendere a deplorare la loro condizione! Anche se l’aveva bevuta veramente, non avrebbe dovuto parlarne nel suo saggio, proprio lui così comprensivo verso le sofferenze dei profughi. Che senso aveva proclamare “siamo tutti albanesi” standosene tranquillamente seduto a bere una birra, mentre gli altri venivano cacciati dalla loro terra? C’era qualcosa di stonato in quella descrizione, un’ipocrisia di fondo. Eppure, Arsenijevich è uno dei pochissimi scrittori serbi che abbiano avuto il coraggio di opporsi al nazionalismo e alla guerra nel Kosovo. Proprio per questo il suo saggio mi indignò più di tutte le fandonie degli scrittori nazionalisti. Ma non avrei dovuto criticarlo pubblicamente per questo. Non avevo il diritto di pretendere da lui la perfezione morale.

Qualche anno dopo l’ho incontrato per la prima volta, in Croazia. Era un giovane alto e snello, con i capelli lunghi raccolti in un codino e uno sguardo gentile. Mi sono presentata e mi sono scusata per le critiche ingiuste che gli avevo rivolto. Ha accettato le mie scuse con un sorriso.

Boris e io sappiamo entrambi che cosa hanno fatto i nostri amici ed ex amici durante la guerra. Sappiamo come si sono comportati i nostri conoscenti, proprio come tutti sanno che cosa hanno fatto i propri parenti, amici e vicini, in Bosnia e in Kosovo. La differenza però è che la maggior parte delle persone non vuole ammettere di aver preso parte alla guerra. Non parlo di criminali di guerra o di assassini, non ne faccio una questione penale. Ma penso che coloro che hanno votato per un regime sanguinario dovrebbero assumersene la responsabilità, e non atteggiarsi allo stesso tempo a vittime di Milosevich e delle superpotenze (dopotutto, Belgrado non è stata bombardata dagli americani?), fingendo di non aver avuto alternative se non quella di soccombere alla pressione del nazionalismo. Purtroppo i serbi vivono nella negazione del loro recente passato. Ma il vero problema è che nella società sembra mancare del tutto il desiderio di cercare la verità.

Il dovere di porre domande

Non possiamo rimanere in silenzio. Non possiamo ripetere ancora una volta i nostri errori o quelli dei nostri genitori. Dobbiamo confrontarci con il passato. Questo è il compito di tutti coloro che hanno vissuto la guerra. Ma anche la nuova generazione, i giovani nati nel dopoguerra, sono responsabili nei confronti della verità. Non è l’Unione Europea a privarli dei loro diritti, ma i loro genitori: la difficoltà di ottenere un visto non dipende da chi lo chiede, ma da che cosa hanno fatto o non fatto i loro padri. I giovani serbi sono isolati dal resto del mondo perché non stanno facendo l’unica cosa che dovrebbero fare: porre domande ai loro genitori.

P.S. 22 dicembre 2009. Affermo in questo saggio che i giovani serbi, che si lamentano di dover chiedere il visto per andare all’estero, dovrebbero domandare ai genitori perché il loro Paese sia stato isolato e che cosa abbiano fatto durante la guerra. Perché, anche se i giovani nati dopo il 1990 non sono responsabili di ciò che hanno fatto i genitori, sono però responsabili per il futuro. Ora i cittadini serbi non hanno più bisogno di chiedere il visto per visitare i paesi della UE. È una buona notizia, ma il punto resta. La Storia non è una proprietà privata e la questione della responsabilità non può essere nascosta sotto il tappeto o lasciata ai politici: tutta la società deve essere coinvolta. Visti o non visti, non esiste democrazia senza responsabilità.

Published 25 March 2010
Original in English
Translated by Stefano Salpietro
First published by Lettera internazionale 102 (2010) (Italian version)

Contributed by Lettera internazionale © Slavenka Drakulic / Lettera internazionale / Eurozine

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Read in: EN / PL / IT / RO

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