La democrazia italiana e i suoi avversari

Il tema della violenza nella storia del nostro paese è ampio, complesso e manca finora di riferimenti critici che consentano di delineare con sufficiente precisione un quadro d’insieme. Non che manchino studi su singoli episodi o filoni, tutt’altro; mancano però lavori di raccordo che consentano di affrontare la questione nella sua interezza. Il tema è, nondimeno, di grande rilevanza e potrebbe consentire una valutazione di momenti e tendenze del potere reale finora poco conosciuti e discussi.

Il test della violenza

Possiamo partire dalla considerazione che nel dopoguerra non vi è stato oltre l’Italia altro Paese dell’Occidente sviluppato in cui, in assenza di consistenti problemi coloniali o nazionali (il terrorismo altoatesino durò una breve stagione), il ricorso alla violenza sia stato così sistematico e continuo, dall’immediato dopoguerra agli attentati mafiosi del 1993 e poi, anche successivamente, al G8 di Genova nel 2001 e alla ripresa del terrorismo brigatista. In larga misura, non si è trattato di una violenza marginale, pressoché fisiologica in ogni società, ma di una violenza generata da contrasti politici e sociali e perciò destinata a incidere sui rapporti di potere tra gruppi sociali e forze politiche. Il fatto che questa violenza si sia sviluppata in presenza di istituzioni democratiche perfettamente funzionanti, che hanno assolto il loro ruolo di rappresentanza e di governo, pone una prima rilevante questione perché sembra indicare l’esistenza di un conflitto (o di un nucleo di conflitti) cui le istituzioni non hanno potuto o saputo dare espressione. Se non vogliamo ritenere che ciò derivi da una particolare attitudine belluina dei nostri connazionali, dobbiamo ammettere che ciò sia dipeso da qualche cosa di profondo, da un germe di guerra civile che ha accompagnato, con maggiore o minore intensità, ma ininterrottamente, la nostra vita collettiva.

Un criterio, ancora approssimativo, per la ricerca e l’individuazione di questo germe, o meglio di questo livello conflittuale, può essere quello di ricercarne le emergenze elencando i fatti più eclatanti e significativi di violenza politica. Si deve però premettere che la violenza non costituisce se non un indizio, una spia di una condizione conflittuale; nella maggioranza dei casi, essa non è il conflitto stesso bensì un suo elemento di fibrillazione. Vi è cioè una graduazione nel rapporto tra potere e violenza che cambia secondo i protagonisti e le situazioni. Inoltre, sullo stesso fronte andrebbe presa in considerazione anche la violenza potenziale ma non esplosa; ad esempio, è ormai noto che durante la campagna elettorale del 1948 molte armi provenienti dalla Resistenza o direttamente fornite dall’Esercito erano a disposizione di entrambi i maggiori contendenti, Democrazia Cristiana e Fronte Popolare, diffidenti sui rispettivi atteggiamenti e strategie: in questo caso appare significativo che il voto si svolse regolarmente né fu successivamente contestato. D’altra parte, se l’attacco più violento alle istituzioni in epoca repubblicana è stato portato con la strategia della tensione, che conteneva un’altissima componente di violenza, l’attacco più efficace si è avuto invece con la Loggia P2 che tendeva a svuotare “dall’interno” la funzione delle istituzioni senza affrontarle direttamente, dunque con un uso della forza estremamente contenuto. Queste considerazioni sono naturalmente un invito alla cautela circa la possibilità di trovare un percorso chiaro e diretto.

Peraltro, la possibilità di pervenire a un risultato seguendo la traccia della violenza è resa problematica dal fatto che l’insieme delle manifestazioni violente non rimanda a un unico soggetto e neanche a un tema immediatamente e direttamente circoscrivibile. Quale filo interpretativo potrebbe tenere insieme, per esempio, il “triangolo della morte”, la strage di Portella della Ginestra, l’attentato a Togliatti e la successiva insorgenza dei comunisti, il luglio del 1960, la strategia della tensione, il sequestro Moro, la bomba alla stazione di Bologna del 1980? Evidentemente nessuno.

Una guerra civile durata 20 anni

Si ottiene invece qualche risultato qualora si escludano dall’elenco situazioni ed episodi palesemente eccezionali (come l’attentato di Bologna dell’agosto 1980, forse collegato con fili tuttora ignoti di politica internazionale all’abbattimento dell’aereo di Ustica, dei quali sono noti solo alcuni aspetti relativi alla manovalanza e alle manovre di depistaggio) e le insorgenze della sinistra storica (il PCI in particolare), che appaiono delimitate e non suscitano grandi interrogativi ulteriori.

Quest’ultima considerazione vale certamente per alcune vicende del dopoguerra (che in alcune zone le esecuzioni dei fascisti continuarono oltre l’aprile 1945 si spiega con il retaggio del fascismo e della lotta di Liberazione, cioè di una guerra civile durata oltre un ventennio) e per il cosiddetto triangolo della morte (gli omicidi, nel 1946 in Emilia, di alcuni antifascisti, in prevalenza cattolici, da attribuirsi al permanere di una tendenza rivoluzionaria che, espunta dal PCI, si sarebbe ripresentata sotto altre forme negli anni Settanta-Ottanta) e vale anche per l’insorgenza spontanea dopo l’attentato a Togliatti, che lo stesso Partito Comunista si impegnò rapidamente a spegnere. Vale altresì per i fatti del luglio 1960, in cui la diretta responsabilità della sinistra è riconoscibile nella mobilitazione per impedire il Congresso del Movimento Sociale Italiano programmato a Genova e nella minaccia insurrezionale del ricostituito Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) genovese di assumere i poteri della città (atti politici estremi ma lucidi, che avrebbero portato alla caduta del governo), mentre i morti che seguirono, a Reggio Emilia e in Sicilia, e le cariche della cavalleria a porta S. Paolo a Roma sembrerebbero da attribuire a una miscela costituita dalla forte mobilitazione antifascista e dal disegno governativo di accreditare un’insorgenza comunista che giustificasse la presenza di un esecutivo autoritario.

Diverso appare invece il percorso dell’eversione di estrema sinistra, che fino alla metà degli anni Settanta deriva più o meno direttamente dal movimento del ’68 e da una tradizione rivoluzionaria che il PCI aveva escluso dalle sue fila, per divenire in seguito, nel periodo della gestione piduista dei servizi, un inestricabile groviglio nel quale non è ancora possibile distinguere con chiarezza il pur criminale e irragionevole spirito rivoluzionario dalla provocazione.

Così semplificato, l’ipotetico – e, lo ammettiamo, un po’rudimentale – elenco inizia però a dirci qualche cosa. Innanzitutto vi è la costante degli eccidi di lavoratori, prevalenti negli anni del centrismo (Portella della Ginestra 1947; Melissa 1949; Modena 1950; Reggio Emilia 1960), ma presenti anche successivamente (Brescia 1974), attuati da forze dello Stato ma anche da gruppi criminali. Vi è poi il grande nucleo della strategia della tensione (1969-1974), le stragi indiscriminate e gli attentati ai treni. Vi è infine una presenza abbastanza costante, e di certo non politicamente neutra, del crimine organizzato e in particolare della mafia.

La repressione violenta dei conflitti sociali

Ma se guardiamo più a fondo, è rinvenibile la concomitanza tra l’uso della forza e la conflittualità sociale che, a grandi linee, dà ragione dei particolari modi della violenza nelle fasi dello scontro sociale, a partire dalla ridefinizione degli equilibri politico-sociali nel dopoguerra fino alla stabilizzazione moderata, alla fine degli anni Quaranta, che conteneva una rilevante componente repressiva alimentata anche da una diffusa valutazione del movimento operaio quale “nemico interno”. In seguito, con il declino del centrismo, la crisi dell’estate 1960 delineava un durissimo conflitto circa la composizione della classe dirigente, cioè se dovesse essere l’antifascismo o meno l’asse di sviluppo politico del Paese; su questo terreno, la vittoria dell’antifascismo fu segnata però dall’emergere di una modalità nuova dell’uso della forza, non affidata solo ai tradizionali organi repressivi dello Stato ma anche all’intelligence, forse per la prima volta applicata direttamente alla lotta politica da Tambroni quando era ancora ministro dell’Interno. Ciò avrebbe reso opache le modalità della lotta politica, ma non al punto di cancellare il nesso tra l’uso della violenza e la lotta politico-sociale: rimane cioè impensabile la strategia della tensione (1969-74) senza la contestazione e le lotte operaie dell’autunno caldo, anche se non si può non tenere conto di un rapido e continuo raffinamento delle tecniche d’intervento in questo campo, tale per cui di molte vicende, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (si pensi al delitto Moro), non ci sono ancora del tutto chiari modalità e sviluppi.

Gli equilibri internazionali e la Guerra Fredda hanno ovviamente avuto un peso enorme sull’intera vicenda, ma mi parrebbe sbagliata l’interpretazione di quegli episodi come mera proiezione sul suolo italiano del conflitto tra le superpotenze; a mio parere si è trattato invece di un conflitto prevalentemente interno, ancorché ambientato in un contesto di tensioni internazionali straordinariamente pervasive da un punto di vista ideologico e organizzativo. È riscontrabile cioè una certa continuità – se non nei mezzi, che evolvono col tempo, certamente negli atteggiamenti spirituali – nell’uso che le classi dirigenti hanno fatto della violenza sia in epoca monarchica sia nella Repubblica; e ciò ci consente di iscrivere il fenomeno della violenza in un contesto cronologicamente più ampio dell’età repubblicana e di disancorarlo da quel nesso stringente con la Guerra Fredda che ha forse costituito il maggior limite della ricerca sull’argomento.

Una borghesia “sovversiva”

L’insieme delle grandi tensioni sociali e politiche dell’Italia unita, per buona parte del periodo monarchico, sembra riassumibile in un unico grande conflitto tra due anime della borghesia – due diversi modi di interpretare la missione della classe dirigente – divise non su temi marginali, ma sul nodo centrale dello sviluppo civile dell’epoca. Questo era dato dall’affermarsi delle masse come elemento costituente degli assetti politici e di potere della società, ed era un tema che recava in sé, più o meno esplicitamente, il problema della democrazia. In altri termini, la lotta sociale, cioè la manifestazione più immediata e visibile di quel grande movimento epocale che portava i diseredati nella storia, non incontrò in Italia – e in ciò vi sono differenze sostanziali con quanto avveniva in altri paesi d’Europa – un quadro di risposte omogeneo e pacificato; incontrò bensì risposte doppie e contraddittorie, destinate a loro volta a riverberarsi sull’elaborazione politica, culturale e ideologica della stessa lotta di massa, cioè, largamente, sulla cultura socialista.

Già alla fine dell’Ottocento era diffusa la consapevolezza che il nodo italiano consisteva nel disinnescare quella miscela esplosiva di miseria e di potenziale rivolta che era ancora definita “questione sociale”. Ma la risposta effettiva che i movimenti di massa incontrarono, non solo a Milano ma in tutt’Italia, furono le stragi del ’98, con le quali settori rilevanti della classe dirigente tentavano di arrestare ogni intento riformatore. Questa azione diede luogo a critiche aspre, e non solo da parte dei socialisti, le quali provocarono una vera e propria frattura nell’intelligencija borghese, frattura che dimostrò anche l’impraticabilità di una linea repressiva e in un certo senso fece da viatico al varo dei governi Zanardelli e Giolitti, cioè alla soluzione riformatrice più avanzata possibile.

Ma su quella linea, che pure era emersa in seguito a un dibattito e a una tragedia collettiva, non vi fu né consenso né tregua. Mentre Giolitti lavorava per ricucire le sanguinose lacerazioni degli anni precedenti e per creare un sistema di legislazione sociale in grado di interpretare in chiave moderna le nuove relazioni industriali, ampi settori della cultura remavano in direzione opposta. È sufficiente sfogliare le riviste giovanili di Papini e Prezzolini per cogliere il disprezzo per la democrazia e l’odio per il socialismo nutriti dai rampolli della classe dirigente. Anzi, proprio in questo brodo di radicalismo antisocialista e antidemocratico emerse verso la fine del primo decennio del secolo la geniale idea reazionaria di accogliere la società di massa espungendone la democrazia (Santi Romano, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Corradini).

L’aver liquidato l’esperimento giolittiano – che, pur con tutti i limiti, costituiva il tentativo di transito del Paese verso la democrazia – e l’aver favorito, già negli anni Dieci, una cultura autoritaria che minò le basi su cui si fondavano i tentativi di allargare la partecipazione democratica, costituisce una sorta di peccato originale che il paese ha compiuto contro la democrazia. Anche perché dalla crisi del giolittismo alla marcia su Roma, in Italia, l’alternativa non fu costituita dalla rivoluzione proletaria, ma ebbe per oggetto un modello “istituzionale” che prevedeva il lento allargamento della base partecipativa e un modello “eversivo” che auspicava l’immissione delle masse in un circuito produttivo e statale autoritario e nazionale.

Non vi è dubbio che furono le indeterminatezze pratiche e teoriche dei fautori del primo modello a facilitare la vittoria del secondo, ma questo non avrebbe vinto se in suo favore non fossero intervenuti centinaia di magistrati, prefetti, funzionari, professori, ufficiali, cioè, in sostanza, gran parte della classe dirigente dello Stato liberale. Vi è in questo travaglio qualche cosa di non chiarito che riguarda gli strati profondi e il modo d’essere di una classe dirigente che preferì l’eversione nera a una condivisione contrattata del potere.

Insomma, il ricorso alla violenza nel Regno d’Italia non fu sporadico ed eccezionale ma radicato in equilibri profondi e dunque, in certo senso, permanente. Né vale a molto distinguere tra violenza legale (Bava Beccaris nel ’98) e illegale (lo squadrismo fascista), poiché tale distinzione risulterebbe significativa solo in presenza di un’interpretazione univoca e condivisa delle funzioni dello Stato. Invece, in tutti i casi, fu sempre una frazione della classe dirigente a imporre con la forza una sua linea contro altri settori della medesima classe dirigente. In altri termini, dinanzi all’allargamento della partecipazione e alla società di massa, la classe dirigente al vertice dello Stato si divise irrimediabilmente tra liberali tendenzialmente democratici e liberali tendenzialmente reazionari, senza poter più trovare linee di sintesi o di mediazione. In questo senso si può dire che in Italia lo Stato non ha costituito il comitato d’affari della classe dirigente (che in altri paesi consentì un percorso unitario e nazionale verso la democrazia), essendo mancata la centralizzazione delle decisioni più generali e dirimenti, quelle che qualificano una classe politica. Non avrebbe cioè potuto costituirsi uno Stato democratico senza (o prima) che la borghesia accogliesse la democrazia come linea politica,1 e ciò ci porta nel cuore dell’immensa e irrisolta questione delle radici storiche e del percorso della democrazia in Italia.

Ciò spiega come mai l’Italia sia stata forse l’unico Paese dell’Occidente in cui la democrazia non è stata edificata dalla borghesia ma dalle élites dirigenti dei partiti di massa, con la conseguenza che il rapporto tra borghesia e nazione appare talora segnato da quelle componenti di clandestinità, corruzione e gangsterismo che abbiamo visto così presenti nella nostra storia anche recente.

Apogeo e crisi dell’antifascismo

La Repubblica avrebbe potuto contribuire a costruire l’insieme della cittadinanza come comunità nazionale coesa nella medesima idea di Stato democratico, ma vi riuscì solo in parte. E la ragione è nel nesso che lega l’antifascismo alla ricostruzione dell’identità nazionale. Non intendo qui l’antifascismo come autorappresentazione ideologica e retorica: la rilettura del movimento antifascista in una chiave anti-ideologica, che cioè ne metta in luce il concreto contributo alla storia del Paese in relazione alle altre tendenze presenti nella società italiana, non solo non ne sminuisce il significato e l’importanza, ma anzi conferma l’immenso valore politico, etico e istituzionale avuto dall’antifascismo. Ovvero, intendendo l’ideologia antifascista come l’effetto di un’azione egemonica sulla cultura, sulla società e sulla politica italiane, il movimento politico che la sostenne appare come la forza reale che ha costruito la democrazia e le istituzioni del Paese.

Tra il 1943 e il 1948, l’antifascismo divenne rapidamente l’unica cultura di massa, l’unica ideologia collettiva con aspirazioni nazionali nata in Italia nel Novecento; l’unica koiné in grado di costituire il tessuto che tiene insieme una comunità nazionale; in essa presero posto, senza rinunciare alle rispettive specifiche connotazioni, le diverse e preesistenti culture socialiste, liberali e cattoliche. L’antifascismo fu altresì l’unico movimento di massa che incarnasse i principi dell’89 e quell’etica della responsabilità individuale che l’assenza di una tradizione protestante aveva sino allora limitato a minoranze sparute. L’enorme funzione storica dell’antifascismo fu di risolvere il problema dell’ingresso delle masse popolari nello Stato, problema che aveva causato l’ascesa del fascismo. L’antifascismo fu inoltre – e questo è il contributo definitivo e incancellabile alla storia italiana ed europea – il modo concreto nel quale si affermarono, dopo la dittatura, i valori di democrazia che consentirono al Paese di rientrare nel novero delle nazioni moderne.

Il limite dell’antifascismo non fu dunque la sua connotazione “in negativo”, l’essere cioè anti qualche cosa, ma piuttosto la difficoltà e/o l’impossibilità di diventare la cultura del Paese; a ciò ostavano non tanto i residui del fascismo (squalificati e marginali nella storia repubblicana) quanto quell’immensa area a-partecipativa che subì la Costituzione senza intimamente accoglierla, refrattaria e sostanzialmente indifferente alla democrazia, che nel 1946 riversò massicciamente i propri voti in favore della monarchia e dell’Uomo qualunque.

Fu questo il primo vero conflitto politico dell’Italia liberata, fonte originaria della successiva rottura tra i partiti del CLN. Tra questi vi erano state, com’è noto, anche prima del 1947-48 occasioni di dissenso (anzi, praticamente su tutti i punti, la storia dell’antifascismo appare come una sequela ininterrotta di frizioni e aggiustamenti), ma nondimeno l’intera vicenda dei partiti antifascisti non può essere letta se non come il percorso unitario fondante del nuovo Stato, nel quale il fine comune, la costruzione della democrazia, si mostrò superiore a ogni opzione di parte.

Ora, fino all’estate 1945, l’antifascismo aveva costituito il frammento italiano di quell’immenso movimento mondiale che stava annientando il nazifascismo. Che l’antifascismo fosse movimento di massa e avesse solide radici nella tradizione del Paese non v’erano dubbi, né ve n’erano sul fatto che potesse costruire nuove forme di convivenza e stringere su nuove basi patti di alleanza internazionale e nuove significative convergenze in politica estera. Ma gli antifascisti scoprirono presto che il limite della loro azione e della loro iniziativa era costituito – come denunciava Ferruccio Parri il 26 settembre 1945, nell’aula della Consulta nazionale – da “una marea incomposta di malcontento che sale contro il Governo, contro il regime dei partiti”, cui si aggiungevano “i delusi, gli spostati, gli avventurieri […] lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti; talché capita di assistere a un processo di inversione, per cui i rei finiscono per giudicare i giudici”.2

La svolta di De Gasperi

Ho definito questo insieme di forze come il sommerso della Repubblica, avvertendone il ruolo non protagonistico ma pur sempre essenziale: una vitalità nascosta e prepotente che ha influenzato, più di quanto normalmente si ritenga, la vita politica, civile e istituzionale del Paese. Fu infatti questa destra, che non potrebbe essere definita propriamente fascista, a determinare l’evoluzione del quadro politico italiano inducendo De Gasperi a modificare fortemente, tra il 1946 e il 1947, il volto e l’atteggiamento della Democrazia Cristiana. L’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo (maggio 1947) non va intesa come il riflesso diretto dell’incipiente Guerra Fredda, ma neanche soltanto come il risultato della realistica ambizione degasperiana di collocare l’Italia nel percorso statunitense che dalla dottrina Truman sarebbe approdato di lì a poco al piano Marshall.

Dal punto di vista della politica interna, la svolta del maggio 1947 costituì anche il passaggio conclusivo e culminante di un riposizionamento complessivo della DC quale partito di centro, nel senso che l’esclusione delle sinistre avvenne parallelamente ad altre operazioni: la rincorsa del voto monarchico, che nel Mezzogiorno era stato maggioritario (mentre il Partito si era espresso largamente per la Repubblica); la riconversione in senso democratico-cristiano del separatismo siciliano una volta privato della componente armata; l’acquisizione di gran parte del mondo rurale, già naturalmente orientato verso la DC, con il rafforzamento dei rapporti con il Vaticano; il superamento della minaccia – implicita nel sostegno che settori della gerarchia ecclesiastica davano al qualunquismo – della costituzione di un secondo partito cattolico.

La svolta del maggio 1947 ridefiniva dunque l’identità politica e sociale della Democrazia Cristiana assicurandole quel primato politico-elettorale che avrebbe conservato per oltre un quarantennio. Essa rimaneva antifascista, soprattutto al vertice, nelle figure storiche di riferimento e nell’ideologia; offriva però rappresentanza anche a forze sociali che con l’antifascismo avevano poco o nulla da spartire. Nel riferirsi a questa operazione politica, che costituisce uno dei momenti fondanti degli assetti di potere dell’Italia repubblicana (e comunque va ricordato che l’unità antifascista resse nell’operazione più delicata del periodo: la stesura della Costituzione) non valgono toni moralistici e non si può prescindere, innanzitutto, dalla considerazione che essa fu, almeno in parte, un percorso obbligato, imposto dallo stesso suffragio universale, che non ammetteva più zone di desistenza elettorale; ovvero, il movimento di opposizione descritto da Parri non era forza che si potesse esorcizzare con operazioni politiche modeste e, a meno di dare alla neonata democrazia l’aspetto di una dittatura antifascista di tipo giacobino (ma nessun partito di massa sostenne questa soluzione), ad esso si doveva rispondere in modo congruo. Naturalmente, l’estromissione delle sinistre dal governo convergeva con la formazione del blocco occidentale e veniva incontro alle esigenze politiche statunitensi; ma anche su questo punto si dovrebbe indagare circa il peso che ebbero su De Gasperi considerazioni relative non solo ai limiti “numerici” dell’antifascismo (la cui indubbia consistenza era comunque ben lungi dal rappresentare la grande maggioranza del paese), ma anche circa i suoi limiti qualitativi, dal momento che i comunisti italiani, divenuti dopo la scissione socialista di palazzo Barberini il secondo partito e il maggiore nella sinistra, avevano già sperimentato – prima dalla posizione di partito del CLN e, ancor più, come partito di governo – l’estremo imbarazzo di essere forza nazionale e al contempo ideologicamente e politicamente solidale con l’Unione Sovietica e il nascente blocco comunista.

Il sommerso della Repubblica nella riflessione di Aldo Moro

Frammenti di questo “sommerso”, cioè spezzoni delle forze che nel 1943-48 si trovarono in aperto contrasto con la leadership del CLN, e dunque più o meno indirettamente coinvolti con la svolta di De Gasperi, sono stati identificati in diversi settori politici e culturali – che rimandano all’esistenza di un’opposizione larga e popolare, ancorché disomogenea e priva di una diretta e credibile espressione politica –, quali l’Uomo qualunque di Giannini, il moderatismo di ambienti vaticani a vario titolo ostili tanto al governo del CLN quanto alla prima fase del coinvolgimento della DC alla guida del governo; ed è stata anche identificata una componente regionale (meridionale) di questo movimento.3 Abbiamo cioè parecchie e convergenti informazioni relative sia alle operazioni e alle strategie che si intesero attuare per modificare o rovesciare l’equilibrio politico creatosi nel dopoguerra sia al diffuso atteggiamento di opposizione che le sorreggeva.

Ma che cosa avvenne dopo? Una volta spezzato il fronte del CLN e “costituzionalizzata” questa opposizione (con il voto dell’aprile 1948 alla DC e agli altri partiti moderati), possiamo ritenere che il contrasto che era stato all’origine del primo conflitto politico del dopoguerra fosse ipso facto risolto una volta per tutte e che le opposizioni e le riserve verso l’antifascismo (e, più o meno esplicitamente, verso la Costituzione) che avevano animato quella stagione politica si sciogliessero come neve al sole? Se è vero che l’operazione degasperiana liquidò la possibilità di un conflitto istituzionale di grandi dimensioni (ad esempio, sulla forma repubblicana o sul dettato costituzionale), è anche vero che essa spostò la materia del contendere sul terreno, più sfuggente e oscuro, delle modalità d’applicazione della legge e della Costituzione nonché sulla concreta gestione degli apparati dello Stato o, comunque, delle istituzioni.

Il punto di vista più efficace per osservare e valutare le vicissitudini di questa destra (sia chiaro cioè che non si sta parlando dei fascisti, ghettizzati e autoghettizzati nel Movimento Sociale Italiano) è quello di una certa sinistra democristiana che più di altri si è trovata a fronteggiarla, come diretto interlocutore e come avversario interno al Partito. Aldo Moro vi ha infatti dedicato alcune riflessioni penetranti; anzi, si può dire che parte del suo pensiero politico, e forse il suo asse centrale, si articoli tra la convinzione della vastità e della validità del disegno politico degasperiano (“dobbiamo essere grati a De Gasperi – scriveva nel 1977 – che convogliò vaste masse di popolo, non immemori del loro essere cristiane, verso il confronto delle idee e le libere ed aperte scelte politiche”) e la consapevolezza che questo avesse generato una condizione conflittuale permanente dentro lo stesso partito della Democrazia Cristiana:

I democratici cristiani – diceva nella relazione al Congresso della DC del 1962 – hanno la stessa ragione morale, la stessa ragione politica e quindi la stessa ripulsa e resistenza da opporre a qualsiasi forza potenziale di sovversione dei liberi ordinamenti dell’Italia democratica. Anzi, la nostra vigilanza e resistenza hanno da essere maggiori proprio perché l’entità di questo rischio per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari ed è pur vero che esso non risiede intero, pur nell’innegabile riferimento ideale e storico che esso fa al fascismo, nel MSI. Sappiamo bene, e lo abbiamo già rilevato, che la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia che avanza fatalmente in una società democratica, là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà e non si crede alla sua forza creativa, redentrice e in definitiva ordinatrice e garante, là dove si guardano in superficie le cose ed il cammino della storia, là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza.

Qui Moro estende l’idea di fascismo fin quasi a rappresentarlo come una malattia dell’anima, ma nel ribadire che “la radice del male è nella vita sociale e nelle coscienze” egli ha in mente, con una descrizione maligna e calzante, proprio quell’Italia che la DC aveva fatta propria nel periodo di transizione tra la Liberazione e la prima legislatura repubblicana. Del resto, egli sarebbe tornato ripetutamente, specie negli anni Settanta, sul concetto che la destra ha in Italia radici e ramificazioni ben più estese di quanto appaia dalle espressioni parlamentari e dalle percentuali elettorali del Movimento Sociale Italiano, intendendo dunque che fosse la stessa DC a darne rappresentanza. In un’intervista del maggio 1973 al settimanale Tempo aveva dichiarato: “La vera destra è sempre pericolosa per la sua carica reazionaria, per la minaccia che reca inevitabilmente all’ordine democratico. Il suo peso è di gran lunga maggiore di quello che risulta dalla consistenza dello schieramento politico e parlamentare che ad essa si richiama. Non si tratta di dichiarazioni, ma di dati politici di fondo”. E ancora, alla Camera, nella replica (7 dicembre 1974) che concludeva il dibattito sulla formazione del governo, aveva sostenuto la convinzione “che in Italia la destra è più forte e pericolosa che non dicano le sue espressioni parlamentari”.4

Un messaggio dal “carcere del popolo”

Né Moro si fermò dinanzi alle conseguenze di questo assunto allorché indicò proprio in questa componente non solo la base di massa della resistenza alla nazionalizzazione dell’energia elettrica – considerata allora tra gli aspetti qualificanti e innovativi del centrosinistra – ma anche la forza politico-sociale che in un certo senso “ispirava” la strategia della tensione. In una delle pagine più dense del Memoriale steso nel “carcere del popolo”, a una domanda dell’inquisitore brigatista su chi fossero i sostenitori della strategia della tensione, Moro rispondeva:

Fautori ne erano in generale coloro che nella nostra storia si trovano periodicamente, e cioè ad ogni buona occasione che si presenti, dalla parte di [chi] respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico. Tra essi erano anche elettori e simpatizzanti della DC che, del resto, non erano nemmeno riusciti a pagare il prezzo non eccessivo della nazionalizzazione elettrica, senza far registrare alla DC una rilevante perdita di voti. E così ora, non soli, ma certo con altri, lamentavano l’insostenibilità economica dell’autunno caldo, la necessità di arretrare nella via delle riforme e magari di dare un giro di vite anche sul terreno politico.5

Pur non intendendo inchiodare Moro a un testo certamente suo ma non da lui reso pubblico, paiono fuor di dubbio la coerenza e la compattezza del suo disegno interpretativo. In definitiva, la riflessione di Aldo Moro suggerisce di estendere il tema del sommerso all’intera vicenda repubblicana; di trasformare cioè in problema storiografico una non effimera intuizione politica. Peraltro, oltre a quello storiografico e a quello moroteo, vi è un terzo percorso – nel solco della tradizione politico-culturale dell’azionismo e radicato nell’opera di Carlo Levi – che porta all’individuazione di un’area politico-sociale estranea alla pratica democratica e non riconducibile all’antifascismo.6

In conclusione, le considerazioni sulla violenza in epoca liberale come in età repubblicana e la chiave adottata per leggere il dopoguerra, comprese le considerazioni sul pensiero politico di Moro, ci inducono all’individuazione di una zona politico-sociale con scarse caratterizzazioni ideologiche (almeno in relazione alle grandi ideologie politiche nazionali) e dunque poco appariscente, ma presente in modo esteso e massiccio nella società a ogni livello e per tutto il periodo della cosiddetta Prima Repubblica. La presenza di questo sommerso – solo apparentemente integrato nella cornice antifascista e costituzionale dello Stato, ma in realtà, per valori e formazione, distante dalla stessa idea costitutiva della Repubblica – delinea l’ampiezza e l’intensità di un aspetto rilevante del conflitto politico e sociale in epoca repubblicana, cioè di quella parte del conflitto sviluppatosi al di fuori delle tensioni più evidenti (laici-cattolici, comunisti-anticomunisti, fascisti-antifascisti, lotta sindacale ecc.) e della dinamica istituzionale.

Quando il sommerso viene in superficie

Dopo la fine della Democrazia Cristiana, quei ceti sono venuti definitivamente allo scoperto e hanno trovato una collocazione politica stabile nel movimento politico ideato e guidato da Silvio Berlusconi, che fin dal 1994 aveva intuito le potenzialità di un’aggregazione di tali forze. Per quasi un quindicennio, il conflitto è stato durissimo, improntato alla reciproca delegittimazione tra le due maggiori coalizioni politiche del Paese, in ragione, sostanzialmente, della differenza storica e genetica tra le due coalizioni: il centrosinistra, di derivazione antifascista, e il centrodestra, proveniente in larga parte dal sommerso della “Prima Repubblica”. L’ultima tornata elettorale ha definitivamente emancipato il centrodestra, con l’ampio risultato conseguito, da quell’alone di provvisorietà che l’aveva distinto e che a ogni sua sconfitta alimentava l’attesa di una dissoluzione definitiva.

Si pongono dunque, oggi, in modo del tutto nuovo le tensioni della più recente fase politica e la principale domanda riguarda il potenziale di cambiamento insito nella nuova situazione.

È difficile sfuggire alle considerazioni – forse pregiudizievoli e fuorvianti, ma comunque inevitabili – che l’Italia è il Paese che ha inventato il fascismo, che la dittatura fu creata, prima che subita, dagli italiani e che il fascismo prese il potere non per contrastare una minaccia rivoluzionaria ma contro gli stalli di una democrazia incerta e fragile.

Se da un lato in nessun senso si può dire che Berlusconi sia un fascista, dall’altro non vi è dubbio che tanto il fascismo che il berlusconismo hanno in comune una miscela di populismo e di dirigismo reazionario; letti nel lungo periodo della storia italiana, essi sono cioè, per qualche verso, fenomeni analoghi. Il nodo, cioè, non sembra tanto consistere nella linea politica di Berlusconi (non è del resto riscontrabile nel programma del centrodestra un progetto anticostituzionale e antidemocratico) ma in quel vincolo profondo che lo lega ad ampi strati della società italiana con i quali egli riesce a dialogare in modo esemplare e che da tempo lo riconoscono come leader. In questo Berlusconi ha un indubbio vantaggio su chiunque altro: egli conosce e sa “intercettare” questi settori della società che sono invece largamente ignoti alla politica e ai giornali.

Da questa Italia profonda e oscura dipenderà una parte delle scelte della maggioranza; l’intero quadro istituzionale è destinato a subire le tensioni e le torsioni di una maggioranza che, nel suo complesso e per motivi storici e genetici, ha un’idea diversa di convivenza rispetto a quella iscritta nella nostra Costituzione. È vero che non è emerso finora il progetto di un diverso assetto costituzionale, di un’idea attorno alla quale costruire una diversa forma di Stato, ma ciò vuol dire che si accentuerà il logoramento delle istituzioni, fino alla loro sostanziale perdita di significato – e allora tutto sarà possibile.

Del resto, qualche cosa di eccessivo e di brutale si è già percepito all’inizio dell’attuale legislatura nella campagna di stampa, nei toni di uomini politici e nelle scelte prospettate a proposito dei campi nomadi, in cui si sono confusi esigenze di sicurezza dei cittadini, frammenti di odio etnico e xenofobia. Non è detto che i provvedimenti che ne usciranno saranno illegittimi o illegali, ma il clima che si sviluppa nel Paese è inquietante. E non solo per l’Italia.

Valgano le considerazioni di Gramsci sul sovversivismo "dall'alto", derivante da "scarso spirito statale e nazionale in senso moderno", che ha un corrispettivo nel sovversivismo popolare: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, I, Torino, Einaudi, 1975, pp. 323-327.

Atti della Consulta nazionale. Discussioni dal 25 sett. 1945 al 9 marzo 1946, p. 18.

Cfr. Andrea Riccardi, Il "partito romano" nel secondo dopoguerra (1945-1954) , Brescia, Morcelliana, 1983; Sandro Setta, L'Uomo qualunque 1944-1948, Roma-Bari, Laterza,1975. Vedi altresì Angelo Michele Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 1996.

Le citazioni sono tratte da A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di Giuseppe Rossini, 6 voll., Roma, Cinque Lune, 1982-90, rispettivamente VI, p. 3700, II, pp. 1069-70, V, pp. 3046 s., VI, p. 3250.

Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, a cura di F. M. Biscione, Roma, Coletti, 1993, p. 49.

Di Carlo Levi vedi L'orologio, Torino, Einaudi, 1950, e Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1947, in particolare p. 227 (tema dell'eterno fascismo italiano).

Published 14 July 2009
Original in Italian
First published by Lettera Internazionale 96 (2008)

Contributed by Lettera Internazionale © Francesco M. Biscione / Lettera Internazionale / Eurozine

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