Conservatori, curiosi, cechi

After the referendum

Muore il regime, lo sguardo a Occidente. Ritratto di un popolo, delle sue contraddizioni e del faticoso e complesso cammino tra Praga e l’Unione

Il pensiero politico ceco nei confronti di una Europa unita e democratica ha le sue pietre miliari ed i suoi retroscena. Quando l’ex dissidente e prigioniero politico Jiri Dienstbier raccolse nel 1986 le sue idee sulla riunificazione europea nel libro Snení o Evrope (“Sognando l’Europa”), non sospettava certo che in tre anni lui stesso sarebbe diventato la persona che avrebbe tramutato il sogno in realtà come Ministro degli Esteri della Cecoslovacchia. Dieci anni prima Milan Kundera, il famoso scrittore ceco in esilio, aveva dato nuovi impulsi alla diplomazia occidentale verso l’Unione Sovietica, nella sua definizione del ruolo dell’Europa Centrale. Nello stesso tempo, gli intellettuali cechi seguivano attentamente le argomentazioni di importanti opinionisti occidentali, come Jacques Rupnik (“L’altra Europa”) e Timothy Garton Ash (“Le rovine dell’Impero. Europa Centrale 1980-1990”), di cui riconoscevano la rilevanza. Alla soglia di una nuova era, la società ceca era pronta a distruggere il vecchio modello di una divisione europea. Dopo il novembre del 1989, le visioni ardite spuntarono come funghi ed i programmi seri si mischiarono ai sogni.

Aspettative premature

Le cose sembrarono essere semplici almeno per i primi sei mesi del 1990. “Ritorno all’Europa” era lo spontaneo e indiscusso grido di battaglia di quei giorni. Europa significava Europa Occidentale, valori occidentali. In fin dei conti Praga è situata più ad occidente di Vienna, annunciavano trionfalmente i cechi ancora intrisi di una collettiva euforia. In realtà, avrebbero potuto sentirsi frustrati dal fatto che gli Austriaci, vicini di casa e quasi parenti, erano riusciti a raggiungere un moderno stato di welfare nonostante fossero partiti da una situazione catastrofica, provenendo da ben due sconfitte in guerra. Nonostante questo tipo di sentimenti, tuttavia, solo pochi politici locali dubitavano di un rapido riavvicinamento del Paese alle strutture economiche e politiche dell’Europa democratica.

Il test di Visegrad

I primi leaders politici post rivoluzionari per la maggior parte erano ex dissidenti. Questo li rese più disposti ad una reciproca comprensione di quanto non sarebbe stato possibile tra politici professionisti. Ne risultarono una agevole cooperazione regionale ed una iniziativa di coordinamento. Il gruppo di Visegrad – Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia (che dopo il primo gennaio 1993 si divise in Repubblica Ceca e Slovacchia) – aveva lasciato da parte altri progetti simili come l’Iniziativa Centro-Europea o la Pentagonale ed aveva dimostrato di essere sufficientemente attivo da assicurare le migliori relazioni tra gli stati membri che si fossero mai avute nella storia, se non altro. La tradizione di un summit presidenziale annuale, fondata da Arpad Goncz, Vaclav Havel e Lech Walesa (si incontrarono per la prima volta nel Castello di Visegrad in Ungheria) fu adeguatamente sostenuta da incontri regolari dei ministri. La retorica che li accompagnava suggerì che ci sarebbero state migliori possibilità nel processo di adesione all’Unione Europea se si fosse potuta dimostrare la capacità di collaborare a livello regionale con i vicini naturali e storicamente collegati. L’idea era convincente ma il progetto non funzionò mai completamente. In primo luogo perché le società questa volta non condividevano l’idealismo dei loro altrimenti amati leaders. Stereotipi negativi reciproci si dimostrarono profondamente radicati. In secondo luogo, i politici maggiormente pragmatici come Vaclav Klaus preferirono alleati regionali più ricchi, come Germania e Austria. Klaus come economista non credette mai nella pura formazione politica e fu più a favore della “Central Europe Free Trade Association” (Cefta) che di Visegrad.
Ciò che i fondatori di Visegrad avevano temuto divenne realtà. Invece di seguire comuni strategie, i politici iniziarono, sulla strada verso l’integrazione europea, una rincorsa poco gradevole, che divise i loro interessi e che li portò a Bruxelles senza alcuna coordinazione. I polacchi e gli ungheresi usarono la rete dei loro concittadini che vivevano in occidente, mentre il governo ceco del Primo Ministro Klaus sembrò trascurare il processo diplomatico. Laddove infatti la Rappresentanza polacca presso l’Unione Europea impiegava fino a quaranta funzionari, i cechi ne avevano solo sei o sette ed esattamente per la stessa mole di impegni. La spiegazione che la Polonia fosse un Paese molto più grande fu ridicola.

Nuove identità

Nel 1992 l’Europa Centrale ed Orientale passò attraverso due esperienze contraddittorie: da una parte, il prospetto di una integrazione internazionale, dall’altra, la disintegrazione, l’Idra del nazionalismo e il disastroso scoppio di violenza in Yugoslavia.
Logicamente, anche queste nazioni, che non avevano mai avuto successo nella costituzione del loro Stato, cercarono di cogliere l’ultima opportunità: così il Primo Ministro slovacco, quando ancora era nella Federazione con i cechi, rivendicò per i suoi compatrioti “la propria piccola stella” nella bandiera dell’Unione europea. Federalisti di ambo le parti avevano sempre creduto che una adesione precoce alla UE avrebbe reso impossibile ed inutile la scissione dello Stato comune, ma non c’erano promesse di un ingresso imminente. Le forse esagerate aspettative, generosamente gonfiate dai leaders che venivano a Praga, semplicemente non trovarono alcun riscontro concreto. I cechi nel frattempo, dopo il discreto divorzio dagli slovacchi, stavano cercando di sistemarsi in un appartamento più piccolo e di assumere una nuova identità per la quale non anelavano né lottavano. Differentemente dalla Slovacchia, nella società ceca praticamente non ci fu alcun accentuato nazionalismo e gli ideologismi che si offrirono spontaneamente all’indipendente Repubblica Ceca ebbero problemi nel trovare nuovi simboli e nuovi miti, come pure nel trovare il lato attraente della separazione. Con uno dei tentativi più infelici che si potessero effettuare, si informò la popolazione che, da un punto di vista psicologico, la Repubblica Ceca aveva fatto un grande passo verso l’occidente. Nondimeno, sia i politici che l’opinione pubblica sapevano che l’integrazione europea era, ora più che mai, un obbligo per un Paese che, accanto al gigante tedesco, stava improvvisamente calando da quindici a dieci milioni. Presto iniziarono anche a realizzare che non sarebbe stato un compito di breve durata. Che qualcosa bollisse in pentola lo rivela la data di adesione lontana – gennaio 1996 – quasi due anni dopo Ungheria e Polonia.

Cambiamento delle priorità

Quello che la Repubblica Ceca si aspettava maggiormente dall’Unione europea non furono (come nel caso di alcune altre nazioni candidate ed altri Stati membri con l’eccezione della Finlandia) solo i benefici economici, come un migliore tenore di vita e l’accesso a un grande mercato comune, ma soprattutto un rifugio sicuro ed il bisogno di integrazione. Argomenti geopolitici pragmatici iniziarono presto a danneggiare gli slogan scrupolosamente costruiti sul “ritorno all’Europa”, specialmente dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica. Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’esercito sovietico fu obbligato a lasciare il territorio e l’Europa Centrale percepì quasi immediatamente il pericolo potenziale del vuoto strategico. Politici cecoslovacchi e successivamente cechi sognavano ancora di entrare nella Nato in un futuro distante e nessuno si sarebbe aspettato che ciò potesse invece avvenire prima dell’entrata nella Ue Henry Kissinger, quando visitò Praga nel 1997, non dette speranze di un vicino ingresso nella Nato. Due anni più tardi, tre Paesi di Visegrad, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca divennero membri dell’Alleanza Nord Atlantica, appena una settimana prima dell’operazione in Kosovo. L’appartenenza alla Ue aveva perso parte della sua attrattiva per i cechi. Oltretutto, venne loro gentilmente chiesto di aspettare ancora quattro anni.

Stereotipi

Quale fu la difficoltà maggiore nello spiegare i vantaggi dell’entrata nella Ue all'”uomo della strada”? I cechi avevano il privilegio di disporre dell’abilità del Sig. Telicka, per lunghi anni ambasciatore presso l’Ue nonché uno dei diplomatici più di spicco e funzionario statale modello.
Qualche tempo prima, egli fu invitato a presentare la sua relazione nell’ambito di una audizione pubblica sull’integrazione europea organizzata dalla Camera Alta del Parlamento ceco. Non furono i fatti bensì il linguaggio della sua presentazione che indusse persino il Presidente del Comitato per gli Affari Esteri del Senato a chiedere al Sig. Telicka di parlare nella sua lingua madre: la sua relazione era troppo tecnica, troppo intrisa del gergo della Commissione Europea, per poter essere subito compresa dai suoi concittadini. Grosso modo lo stesso problema che si verifica anche con alcuni funzionari della Commissione Europea, esperti e persino giornalisti. Nonostante la loro competenza e le buone intenzioni, alla fin fine essi sono solo capaci di comunicare con coloro che sono già convinti. Più le informazioni rilevanti sono ridotte, tanto più grande sarà lo spazio per i populisti che fanno appello ai diplomatici cechi a Bruxelles “di combattere per gli interessi nazionali” e per tutti coloro che hanno introdotto nei media l’artificiale polarizzazione “noi” contro “loro”, o meglio “la nazione orgogliosa” contro “gli eurocrati”. L’orgoglio nazionale è una parte della coscienza di sé dei cechi, un’altra parte consiste nel saldo convincimento di essere un’eterna vittima. I cechi non sono solo dei campioni di hockey su ghiaccio, sono anche così bravi in autocommiserazione e lamentele da rappresentare un altro esempio di una forma, a tratti divertente, di stereotipo. Generalizzazioni dello stesso tipo, più o meno innocente, sono comuni nei media e tra i politici. Non meraviglia che essi penetrino facilmente nell’opinione pubblica: nello stesso modo fu anche costruita tra i cechi l’immagine dell’Unione Europea. Iniziò con assurde descrizioni particolareggiate di banane e cetrioli per culminare con l’immagine di una onnipotente burocrazia non eletta di Bruxelles, un cult che comunicava in un linguaggio segreto nell’intento di imbrogliare tutti gli altri. Populisti di ogni colore continuano a riutilizzare tali negativi stereotipi.

Società: conservatrice e curiosa

Se non esiste un qualcosa come un profilo psicologico serio di una nazione, ci sono però statistiche che rivelano dati interessanti. Mostrano che i cechi sono usati per bilanciare gli estremi e sono sorprendentemente seri e responsabili se necessario. Nel 2000 essi non credevano di essere sufficientemente preparati per entrare nell’Ue, secondo il sondaggio di opinioni dell’Eurobarometro, mentre polacchi e ungheresi mostravano un maggior ardore.

La società ceca è piuttosto conservatrice ma nello stesso tempo curiosa: i cechi viaggiano molto e persino gli agricoltori vanno in vacanza in Grecia o in Italia. Le generazioni più vecchie mostrano una maggiore paura dei cambiamenti, paura dell’ignoto, paura degli “stranieri che si comprano il nostro Paese”. La Ue in questo li ha rispettati ed ha dato loro un periodo di transizione, limitando la vendita di terreni e case ad altri cittadini comunitari. Le frontiere sono state chiuse per quasi mezzo secolo, vi è quindi un certo grado di xenofobia, che non è necessariamente razzismo. Una mobilità sociale piuttosto bassa è una caratteristica della società ceca; molte famiglie vivono nelle stesse case per generazioni, lavorando e vivendo tutta la loro vita in un raggio di 20 chilometri. Un impianto recentemente costruito nella Moldavia settentrionale (la regione con il maggior tasso di disoccupazione) ha avuto problemi nell’attirare lavoratori; la gente non desidera seguire il proprio lavoro così lontano e l’impianto ha dovuto reclutare forza lavoro dalla Polonia. Questa è la ragione per cui le preoccupazioni di Austria e Germania sul flusso di lavoro a basso costo verso i loro mercati dopo l’allargamento sono infondate, almeno per quanto riguarda la Repubblica Ceca.
Alcuni cechi – studenti, giovani professionisti ed esperti – in realtà sono già europei. Uomini d’affari, artisti, progettisti di software e diplomati fruiscono di una sorta di “appartenenza individuale all’Ue”, se studiano e lavorano nelle capitali europee. Coloro che veramente vogliono provare come ci si sente a vivere e lavorare all’estero, lo possono fare. Giovani cechi e slovacchi sono impiegati nella posizione di assistente persino nella sede centrale della Commissione. Per tutti loro la chiave della porta europea è chiara e semplice: abilità linguistica, mentalità aperta e dedizione personale.

Euro-realismo?

Quando furono pubblicati i risultati del sondaggio di opinioni dell’Eurobarometro dell’Europa Centrale ed Orientale a metà degli anni Ottanta, i dati sulla Repubblica Ceca non erano particolarmente incoraggianti. L’accettazione dell’Unione Europea da parte della popolazione dal 1990 non migliorò, anzi peggiorò. Mentre i sostenitori polacchi dell’Ue erano stati sempre in maggioranza, solo il 34 per cento dei cechi avevano espresso parere favorevole (49 per cento nel 1990) mentre il 40 per cento si era mantenuto neutrale. Il livello molto basso di reazioni anti-europee – un mero 6 per cento – era peraltro sicuramente un dato positivo. Il Capo della Delegazione della Commissione Europea a Praga a quel tempo ribattè – in modo leggermente nervoso – che il grado di riserve che i cechi avevano dimostrato era il segno di un naturale scetticismo tipico di una società altamente educata e matura, la quale stava solo chiedendo informazioni più specifiche e realistiche. Aveva parzialmente ragione. I cechi hanno un forte senso della realtà quotidiana. Paesi come l’Albania o la Georgia avevano ottenuto il più alto livello di euro-ottimismo nel passato solo per poi ritrovarsi, alcuni mesi dopo, confusi e turbati in conseguenza di una drammatica crisi interna. Le cifre non sono, tuttavia, cambiate molto negli anni successivi. Né la classe politica ceca, né i rappresentanti Ue, né le loro parole, né le loro azioni sono state in grado di modificare in modo sostanziale ciò che iniziò ad apparire come un’impostazione mentale collettiva. Sì, ci furono alcuni minori cambiamenti ma, dopo una decade, i cechi erano fondamentalmente rimasti nella loro posizione iniziale: 43 per cento a favore dell’Ue, 14 per cento contro e 28 per cento neutrali (Eurobarometro 2002). Le stesse tendenze si riflettono in tutti i sondaggi di opinione interni e gli esperti sono d’accordo nell’affermare che la distribuzione finale sarebbe dipesa dagli esiti del referendum sull’ingresso nella Ue. I risultati in realtà hanno seguito fedelmente le previsioni sul sondaggio: gli elettori per il “no” sono stati rappresentati principalmente dall’elettorato tradizionalmente comunista e gli indecisi non hanno preso alcuna decisione dell’ultimo minuto. Il Governo ha temuto che anche una importante fetta dei “pro-europeisti” potesse astenersi ma ciò non si è verificato. Più del 77% ha votato “sì” e, con il 55% di affluenza alle urne, ciò riflette il previsto 43% dell’elettorato. Quello che ancora rimane singolare e vantaggioso per i politici che promuovono l’integrazione è la totale assenza di una linea dura anti-europeista. Neanche un solo partito politico democratico ha cavalcato quell’onda, avendo tutti saldamente inserito l’integrazione europea nei loro programmi. I leaders cechi hanno finora condiviso con il resto della società un’ottica largamente consensuale, anche se tiepida, sull’allargamento dell’Ue.

Non è l’uomo giusto

Questo non implica una mancanza totale di criticismo o scetticismo sull’Europa tra i cechi. Vaclav Klaus, quando era ancora primo Ministro e Presidente del Partito Democratico Civico (Ods), era notoriamente propenso all’euro-scetticismo. Stratega eccellente, egli costruì la sua immagine euro-scettica per differenziarsi dagli altri leaders politici. Essendo un pragmatico, era sicuro del fatto che il Paese non avesse alternative; eppure all’interno del partito si possono tuttora osservare veri “galli da combattimento” anti-europei. Mentre l’Ods ufficialmente raccomandava ai suoi elettori di sostenere l’ingresso in Europa, uno dei Vice Presidenti del Partito annunciava pubblicamente il suo “no”, mentre altri tendevano più ad una sorta di “si, ma…”. Il motto ufficiale della campagna citava: “Se si entra in Europa, che sia con l’Ods”. Il più grande paradosso è che Ods, paragonato ad altri partiti politici, ha la maggior parte del suo elettorato pro-Europa: persone con un’istruzione di livello universitario, imprenditori, individui indipendenti, dinamici e altamente mobili che si considerano di successo. Klaus ha criticato l’Ue troppo spesso ed ha avuto ragione solo talvolta. Nell’ampio contesto politico, nondimeno, egli non è stato, per così dire, l’uomo giusto per avere ragione, dato che ha strumentalizzato il suo pubblico interno, fingendo di difendere gli interessi nazionali. Non era abituato ad unificare la società ma a polarizzarla. Nel futuro questo potrebbe rivelarsi il punto debole della sua presidenza.

La scacchiera politica ceca

La Repubblica Ceca deve molto alla reputazione in campo internazionale del suo primo Presidente Vaclav Havel. Il suo ultimo mandato è terminato nel febbraio 2003 ed egli può ora influenzare la politica ceca da osservatore indipendente e critico. Egli è, ed è sempre stato, un grande sostenitore dell’ingresso nell’Ue.

L’attuale Gabinetto della Coalizione sembra rispecchiare tutti i commenti e le raccomandazioni che arrivavano dalla Commissione e dal Primo Ministro socialista Spidla, come pure dal suo predecessore Zeman che hanno a lungo viaggiato esercitando pressioni politiche per il loro Paese tra le controparti europee. I restanti partiti di governo sono interamente pro-Europa e persino i cristiani democratici, che tradizionalmente rappresentano gli agricoltori, possono tirare un sospiro di sollievo: l’agricoltura ceca è alquanto efficiente ed impiega solo una piccola parte della popolazione. I Liberali (l’Unione della Libertà) sono abbastanza coraggiosi da mettere in mostra il loro profilo europeo in ogni occasione.
I Comunisti cechi, per lunghi anni all’opposizione, rappresentano un caso particolare: all’inizio sembravano sostenere l’integrazione, cercando uno Statuto Sociale che respingesse possibili eccessi capitalisti, ma alla fine si sono tirati indietro ed hanno suggerito ai loro elettori di votare contro.

Interessi e interessati

Dato che non esistono importanti segmenti della società che probabilmente risentirebbero dell’ingresso in Europa, non ci sono legittimi interessi anti-europei politicamente articolati. Un minor numero di interessi legittimi è ora in pericolo. Chi traeva vantaggio per i suoi interessi dal caos nelle dogane, nelle tasse, nel sistema bancario, che consentiva manipolazioni con benzina e petrolio, riciclaggio di proventi illeciti, movimenti di capitali dalle società di proprietà statale alle isole caraibiche? Era la criminalità organizzata sia locale che internazionale, che da una parte ascolta la celestiale musica dei Thatcheristi cechi, dall’altra conforta l’opinione pubblica con nenie sul potere curativo del libero mercato. Certamente tali gruppi di interesse sarebbero determinati a minare il processo di integrazione o a rallentarlo. I cechi temono la criminalità più di qualsiasi altro fattore sociale negativo e sono quasi disperati quando si tratta di corruzione. L’indice di corruzione elaborato da “Transparency International” ha collocato la Repubblica Ceca in venticinquesima posizione nel 1996, tra Belgio e Italia, ma da allora si è notato un rapido declino. Per questa ragione i cechi sono peraltro sempre molto sensibili agli scandali di corruzione dell’Europa Occidentale. Sono abituati a leggere di eterni scandali dei loro stessi avidi politici; gente come l’ex Ministro degli Affari Esteri socialista, Jan Kavan, che, nonostante abbia perso per sempre tutta la sua credibilità, tuttora presiede l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma della Commissione Delors ha drammaticamente danneggiato l’immagine dell’intera Unione, dando nuovi impulsi ai pregiudizi sull’Ue come un folle gigantesco progetto di ingegneria sociale, un avanzo del progetto socialista, un covo di vizi e ipocrisie e così via. Si deve ribattere a tutto ciò a livello di fatti, essendo abbastanza pazienti da spiegare che le voci di una messa fuori legge da parte dell’Ue di prodotti gastronomici tradizionali cechi sono infondate. Tuttavia, tutti ricordiamo quanto possa essere pericolosa l’irrazionalità e l’ignoranza unite al linguaggio dei simboli: ad esempio il secondo referendum norvegese sull’adesione all’Ue dette esito negativo a causa della paura irrazionale di un piccolo frammento di votanti di perdere la loro bandiera nazionale. Non esistono campagne esplicative inutili ma ci sono momenti in cui la forza convincente degli argomenti razionali si attenua, almeno per un momento.

Avversari corretti

Ci sono naturalmente anche dubbi leciti e seri, alla base dei quali ci possono essere piccole amarezze: il periodo di attesa troppo lungo, alcune decisioni della Comunità Europea che sono apparse arbitrarie, talvolta non trasparenti e sembravano più il risultato di una contrattazione politica che la visione di grandi menti. Non meraviglia a questo riguardo che gli ottimisti parlino di un matrimonio di convenienza ed i pessimisti si concentrino sui “sì, se …” e “sì, ma …”. Il Presidente Klaus convenne tuttavia legittimamente che le piccole Nazioni non sarebbero sufficientemente considerate dalla progettata Presidenza permanente dell’Ue.

Il decoro e la serietà fanno la differenza tra le correnti che si definiscono anti-europeiste. I giovani conservatori sono moderati nel loro uso del linguaggio e corretti nelle loro polemiche. Non ci si può aspettare niente del genere dai gruppi marginali nazionalistici militanti. Alcuni scettici temono il flusso di immigranti una volta che la Repubblica Ceca aderisca all’Ue. Ignorano che ci sia già e che l’immigrazione, sia legale che illegale, abbia trasformato la Repubblica Ceca e che abbia modificato un Paese di passaggio in un Paese di destinazione.

Buone ragioni per cui….

I sostenitori dell’Ue sono meglio preparati a spiegare i motivi per cui desiderano l’integrazione nel più vasto progetto internazionale democratico della storia. Il loro profilo sociologico è l’esatto opposto di coloro che temono l’Unione e degli indifferenti. Molti oppositori non hanno argomentazioni ideologiche. Di solito hanno raggiunto solo un livello di formazione basso, non sono specializzati, si sentono insicuri, temono l’ignoto e lŒestraneo, hanno sempre rifiutato e rifiutano tuttora ogni tipo di cambiamento. L’indifferente replicherebbe: “Non parlo le lingue, non intendo viaggiare o lavorare all’estero, quindi non m’importa”. Le persone favorevoli all’Unione sono generalmente più educati, di successo o perlomeno soddisfatti della loro professione, attivi, di mentalità aperta, con progetti a lunga scadenza – essi sosterrebbero: “Difficilmente trarrò profitto personalmente dall’adesione all’Ue, ma cerco di pensare al futuro dei miei figli e dei miei nipoti”.

La campagna

La campagna educativa che ha preceduto il referendum ceco è stata organizzata dal governo, strettamente osservato da sospettosi giornalisti e politici dell’opposizione, ed è stata spesso criticata, giustamente o ingiustamente. Il governo ha lasciato cadere le critiche: ciò che importava erano i risultati e dopo anni di stagnazione, la volontà dei votanti di partecipare al referendum era iniziata a crescere. Alcuni media, come il quotidiano liberale “Lidove Noviny” dichiararono il loro sostegno apertamente, altri preferirono rimanere più distaccati e considerare i pro ed i contro della cosa. La colonna portante della campagna fu la pubblicità, inclusi non solo le affissioni, gli spot radiofonici e televisivi, gli annunci sui giornali ma anche i quiz ed i concorsi a premi per i lettori. Una gran quantità di lavoro invisibile fu anche effettuato da organizzazioni non governative, volontari, club pro-Europa ed associazioni civiche. Non vi furono tuttavia né eventi spettacolari né mega concerti. Agli organizzatori di un concerto per l’Europa sulla piazza della città vecchia non fu dato il permesso dal Municipio di Praga – ancora guidato da una maggioranza dell’Ods – forse scoraggiato dall’annuncio della presenza dell’ex Presidente Havel.

I partiti politici non parlamentari poterono esprimere tutta la loro libera immaginazione. I Verdi invitarono Daniel Cohn-Bandit, membro del Parlamento Europeo, mentre i Democratici Europei dell’ex Sindaco di Praga Jan Kasl mostrarono la loro privilegiata auto-definizione politica. I partiti della coalizione di governo furono in qualche modo presi in trappola dato che i Democratici sociali e cristiani non furono sempre sicuri dell’opinione dei loro stessi membri. L’Ods fu impegnato a trovare nuovi modi di esprimere le proprie riserve nei confronti del referendum sull’Ue. Il nuovo leader del più forte partito di opposizione Topolanek osò suggerire che si sarebbe anche potuto effettuare un referendum sulla qualità del Governo.

I comunisti hanno un elettorato disciplinato ed il Comitato Centrale, quando ha raccomandato il voto negativo, non ha seguito alcuna ragione ideologica, ma piuttosto un conservatorismo indispensabile ai suoi maturi componenti. Il “no” comunista successivamente fece votare “si” a parecchi indecisi.
Tutti erano impazienti di conoscere la posizione del Presidente Klaus. Questi, formalmente una figura super partes, non sorprese: in primo luogo, liquidò la campagna come provocatoriamente superficiale e convocò, due settimane prima del referendum, un dibattito profondo e sostanziale. In secondo luogo differentemente dalle controparti in Slovacchia o in Polonia, non chiese alla popolazione del suo Paese di votare “sì”. Ciò che in realtà fece fu raccomandare la partecipazione alle urne. In una reazione al ruolo di Klaus, il commentatore politico Jiri Pehe ricordò giustamente al pubblico che i politici cechi avevano avuto per lo meno un periodo di sette anni per spiegarsi in tempo; le loro lamentele dell’ultimo minuto altro non erano che pura ipocrisia.

Secondo una delle maggiori agenzie di ricerche, Stem, la quantità di informazioni sull’Europa era stata sufficiente. Il problema era stato la sua distribuzione. I media pubblici avevano la tendenza a parlare in modo sofisticato rivolgendosi a coloro che già erano convinti. Chi aveva invece bisogno di essere informato erano gli ascoltatori della principale tv commerciale “Nova”. Emersero voci riguardo ad un inganno al limite del ricatto: Nova doveva trasmettere annunci pubblicitari a favore dell’adesione all’Unione in cambio di un occhio più benevolo nell’osservare la sua non proprio trasparente gestione.
La Ue come tale ebbe a Praga un giocatore importante. L’ambasciatore della Delegazione Ue Ramiro Cibrian, spagnolo basco, divenne estremamente popolare imparando a fondo il linguaggio ceco durante la sua permanenza. Egli parlava all’uomo della strada – sui tram, nelle scuole, nei villaggi e persino nelle fogne municipali, insegnando alle autorità ceche cosa avrebbero dovuto fare – e non esitava ad “interferire negli affari interni”, ogniqualvolta riteneva ce ne fosse bisogno, pubblicando sui giornali locali articoli fortemente critici sull’indolenza dei funzionari cechi.

Soldi

Il denaro è l’argomento favorito – e non sorprende – non solo nei discorsi nei pub cechi. La dimensione economica dell’allargamento dell’Unione Europea preoccupava sin dall’inizio sia i cittadini che i politici. I negoziati, che si chiusero con successo a Dicembre 2002 a Copenaghen, erano pieni di accordi, appuntamenti ed impegni puramente tecnici e finanziari e l’esito finale fu inevitabilmente un compromesso. Cattive notizie: gli agricoltori non possono aspettarsi più di un terzo dei pagamenti che ricevono i loro colleghi nella Ue. Buone notizie: la somma che essi riceveranno li renderà una classe privilegiata nel loro Paese con uno stipendio medio di 500 euro. Cattive notizie: dopo il 1° maggio 2004 l’iva per molti servizi passerà dall’area del 5 per cento all’area del 22 per cento. Non è certo il periodo migliore per un tale emendamento appena prima del referendum. Buone notizie: l’euro più forte sarà pari alla più forte corona ceca. Infine, la notizia migliore ed una ragione molto buona: l’aiuto totale dell’Ue già fornito alla Repubblica Ceca ammonta a 46 miliardi di corone ceche (1,5 miliardi di euro).

Un progresso lento

La Repubblica ceca non ha solo compiuto dieci anni di indipendenza ma anche dieci anni di avvicinamento alle strutture europee ed euro-atlantiche, dieci anni di lotte, errori ed umili vittorie. Il primo bilancio non è negativo: i cechi somigliano sempre più a qualsiasi altra normale e noiosa democrazia europea. Le relazioni con gli Slovacchi sono migliori che mai. Persino le relazioni tra i cechi ed i tedeschi sono le migliori che si siano mai avute nella storia. Il problema dei Sudeti non è in discussione né a Berlino né a Praga ma lo è a Monaco e nel cuore di alcuni circoli di militanti cechi della vecchia generazione che hanno sofferto di più durante la Seconda Guerra Mondiale. I Sudeti vorrebbero negoziare e cercano partner che però, per ovvie ragioni, non possono trovare nel governo ceco. Per molti versi il problema dei Sudeti non è più una questione bilaterale. I crimini compiuti dai cechi dopo la guerra in una esplosione del desiderio di rappresaglia rappresentano una problema di cattiva coscienza esclusivamente ceco. Sta ai cechi affrontare il loro stesso passato, esattamente come è stato per i tedeschi condurre dopo la guerra il processo di denazificazione.

Alla fine degli anni Novanta, alcuni politici austriaci hanno mostrato la loro ritrosia a condividere con i loro vicini meno privilegiati i benefici dell’appartenenza all’Ue. Perché questa riserva? In parte, potrebbe trattarsi della sindrome da nuovo arrivato nello scompartimento del treno: si sente a disagio e diventa pienamente accettato solo quando potrà porsi in contrasto con un altro nuovo arrivato. Un altro motivo del comportamento austriaco potrebbe essere una combinazione di fraintendimenti, disinformazione e mancanza di reciproca buona volontà, il tutto filtrato ed amplificato attraverso i media. Ma se si guarda nel dettaglio ai sondaggi di opinione austriaci (Marzo 2001, Sommario: Neues Volksblatt) si nota come l’80 per cento degli Austriaci creda che una politica comune con i vicini del Centro-Europa sia possibile o che comunque valga la pena provarci.

Gli Austriaci credono che l’Ungheria fosse maggiormente preparata per una tale partnership (87 per cento), mentre la Repubblica Ceca era molto più indietro (47 per cento). Ma se si esamina la breve lista austriaca delle “paure preferite”, si vede come in cima alla classifica vi sia la paura del nucleare (86 per cento). La paura che nuovi membri dell’Ue offrano sottocosto la forza lavoro e causino disoccupazione si colloca solo terza con il 45 per cento. Ciò significa che la maggior parte delle persone non temono per il loro lavoro; è l’impianto nucleare di Temelin (e in certa misura i decreti post bellici cechi che esiliarono i Sudeti, Austriaci inclusi) ad essere responsabile dell’atteggiamento sfavorevole dell’opinione pubblica nei confronti dei cechi. A dispetto di tutte le riserve, gli Austriaci non erano per principio contro l’allargamento, ma una ristretta maggioranza (52 per cento) condivideva l’opinione che l’allargamento avrebbe portato numerosi svantaggi all’Austria.

I politici cechi non furono molto di aiuto durante il processo di integrazione; analogamente ogni tentativo di includere la Repubblica Ceca nelle operazioni di sicurezza internazionale ed umanitarie immediatamente diventava l’oggetto di un dibattito interno di mentalità ristretta. Ogniqualvolta invece partecipassero ad una missione, i cechi si comportavano bene; di qui le loro buone possibilità di entrare nella Nato. Non si sono mai lasciati spingere ad accettare posizioni anti-statunitensi e specialmente i diplomatici francesi non ne hanno mai capito il motivo. Durante tutti questi anni, i cechi hanno combattuto i loro stessi complessi di inferiorità così come l’arroganza di alcuni loro rappresentanti (Vaclav Klaus ha la sua buona reputazione in proposito a Bruxelles: si comportava come se fosse l’Ue a presentare la richiesta di adesione alla Repubblica Ceca e non viceversa, come fece notare un alto funzionario della Commissione Europea). Dopo tutti questi anni, l’Europa non è una romantica aspirazione per i cechi, ma piuttosto una realtà concreta. I sogni dei cechi sono diventati più misurati ed i loro dubbi meno profondi. Si è fatto giorno ed i loro sogni sono ora realtà. Eppure molti cechi, che ricordano la loro terra come era appena quattordici anni fa, guardano a tutto ciò che è successo come ad un miracolo.

Published 16 February 2004
Original in English
Translated by Silvia Volpi

Contributed by Caffè Europa   © Tomas Vrba / Caffè Europa / Eurozine

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Read in: EN / DE / IT

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