Città jungle

In un gelido venerdì di dicembre del 1991 i londinesi si svegliano respirando un’aria che sembra venire dal passato. Durante la notte una fitta coltre di smog tossico si è ste­sa sulla città, riempiendo le strade ed allar­gandosi fino alle campagne, dove è stata trattenuta dalle colline di gesso che lambiscono le ultime propaggini della capitale.

Lo smog arriva in un momento inesorabilmente cupo per Londra. L’energia demoniaca degli anni ottanta si è prosciugata, lasciando una città in recessione profonda. La stam­pa nazionale, tra notizie di licenzia­menti e corruzione, si guarda ossessi­vamente indietro, celebrando una do­po l’altra le date simbolo della seconda guerra mondiale, delle quali ricorreva il cinquantesimo anniversario.

Nel frattempo, quella che sembra a tutti gli effetti una guerra – ma che non è stata mai chiamata così – si trascina, con i repubblicani d’Irlanda determi­nati a cacciare i britannici con le bom­be, liberando l’isola da un’occupazione secolare. Il lunedì, quando la nube di smog si sarà ormai dissol­ta, tre attentati dell’Ira colpiranno la capitale, por­tando a diciassette gli attacchi dell’anno. Londra sembra incapace di sfuggire al suo passato: una vec­chia mitologia patriottica che fa a cazzotti con la re­altà di una città postindustriale in cui si consumano gli ultimi fuochi di una guerra coloniale.

In quel fine settimana, però, le onde radio porta­no i primi scampoli del futuro, insinuandosi tra gli spazi vuoti della capitale e della campagna circo­stante. Dal venerdì alla domenica, tra i canali della Bbc e le stazioni commerciali in fm, la città ascolta una musica nuova, trasmessa illegalmente da studi improvvisati in appartamenti vuoti, su antenne piazzate in cima ai condomini popolari. È un sound unico, fatto di ritmi sincopati, parti vocali parlate e linee di basso. È la musica jungle.

Se la Londra della jungle sprofonda nel degrado, le origini di questo degrado sono tutte politiche. In dieci anni, il thatcherismo ha smantellato le istitu­zioni della socialdemocrazia del secondo dopo­guerra, cavalcando un nuovo modello economico basato sulla privatizzazione d’interi settori control­lati dallo stato, sulla deregolamentazione dell’im­presa e della finanza, sul taglio della spesa pubblica e delle tasse per i ricchi. Alla manodopera industria­le qualificata si sostituisce il lavoro non sindacalizza­to, sottopagato e non specializzato nel settore dei servizi, che si concentra nel sudest dell’Inghilterra. Molte di queste politiche prendono ispirazione da Enoch Powell, un ambizioso politico dei conservato­ri che, a partire dagli anni sessanta, le ha promosse sotto la bandiera dell’“economia di mercato”, oggi meglio nota come neoliberismo.

La visione economica di Powell – influenzata dal­la sua affiliazione alla Mont Pelerin so­ciety, una sorta d’incubatore neoliberi­sta – è ancora dura da digerire nella socialdemocrazia del secondo dopo­guerra. Di fatto, minaccia di distruggere la sicurezza e il benessere di un gran numero di persone. Gradualmente, però, ha cominciato a prendere piede, facendo leva sulla malinconia e sulle ansie del Regno Unito bianco per la fi­ne del dominio imperiale. Indossando le vesti del profeta, Powell insiste che le periferie delle città sono il terreno di coltura di una catastrofe imminente, che vedrà i mi­granti neri provenienti dai Caraibi e dall’Asia meri­dionale insorgere e rovesciare l’uomo bianco.

È Margaret Thatcher a raccogliere il testimone di Powell, evocando il mito razzista della periferia in rivolta per sobillare lo spirito intollerante del suo elettorato in gran parte suburbano e di provincia, e appellandosi a legge, ordine e ostilità contro gli emarginati e i contestatori per introdurre una serie di politiche che mirano ad accentuare le disugua­glianze nella società britannica.

Il lavoro organizzato è una barriera a questo pro­getto, e per abbatterla il governo Thatcher colpisce il settore manifatturiero e i suoi lavoratori. Il risultato è la disoccupazione di massa, con la devastazione delle comunità operaie in tutto il paese, comprese molte zone urbane. Al manganello economico si ag­giungono le violenze di una polizia sempre più mili­tarizzata contro le comunità urbane nere e operaie. Le rivolte nate in risposta a quella violenza diventa­no parte di un percorso di vita per tanti abitanti delle grandi città, oltre a essere raccontate quasi ogni gior­no in tv.

All’inizio degli anni novanta quasi tutte le forme di resistenza organizzata al thatcherismo sono state sconfitte, ma il tessuto socialdemocratico regge an­cora, soprattutto grazie a un sistema assistenziale molto più generoso di oggi e un’ampia disponibilità di alloggi popolari. Questa residua rete di protezione permette a molti giovani londinesi di vivere in qual­che modo al riparo dalle esigenze pressanti del mon­do del lavoro e di ridefinire la loro esistenza intorno a legami sociali che spesso nascono da gusti cultura­li comuni. La jungle è la cultura musicale che defini­sce questa Londra giovane.

Per gli elettori conservatori suburbani che hanno appoggiato la Thatcher e il suo successore John Major, i tower blocks – i palazzoni popolari gestiti da consigli socialisti e abitati da comunità operaie mul­tietniche – sono il simbolo di tutti i mali del paese. Le radio pirata che trasmettono la jungle ribaltano com­pletamente questa simbologia, appropriandosi dei tower blocks e facendone il punto focale di un’infra­struttura culturale alternativa per il popolo delle pe­riferie demonizzato dalla politica benpensante.

Le radio pirata si lasciano alle spalle il grigiore dei primi anni novanta, schivano la Londra della finan­za, dei mezzi d’informazione e del potere politico per rivolgersi a un pubblico giovane e prevalente­mente operaio parlando la sua lingua. Diffondendo­si in tutta la città attraverso gli spazi privati di una generazione – automobili, camere, celle di prigione – le radio ridefiniscono la società urbana come una nuova realtà.

Non è la prima volta che nel Regno Unito nascono radio pirata per ri­spondere all’esigenza di una scelta musicale più varia rispetto a quella delle radio ufficiali: negli anni ses­santa trasmettevano dalle navi, più tardi da radiotrasmettitori illegali a terra. Nel 1990 il Broadcasting act, introdotto proprio per combattere la pirateria radiofonica, ha risposto in modo tipica­mente thatcheriano a questa domanda di diversifi­cazione, incoraggiando le aziende private ad aprire nuove stazioni finanziate dalla pubblicità. Il risultato è una proliferazione di suoni identici, ritagliati su misura per soddisfare le esigenze degli inserzionisti. Le radio pirata della jungle rifiutano questa logica commerciale, introducendo una forma di produzio­ne culturale che nasce dalle comunità e dai luoghi fisici, e che si rivolge a un pubblico che non attira i grandi inserzionisti pubblicitari.

La jungle emerge proprio nel momento in cui nuove tecnologie a buon mercato – i palmari e i tele­foni cellulari – permettono alle stazioni pirata di sta­bilire una connessione aperta con il pubblico, in quella che possiamo considerare un’anticipazione dei social network. Dai test per controllare la portata del segnale alla complessità dei dialoghi, questa nuova rete arriverà a definire la cultura giovanile: i saluti agli ascoltatori, il richiamo ai loro luoghi di provenienza e la creazione di codici di comunicazio­ne alternativi segnano l’emergere di una nuova co­munità, il massive, una parola che significa grande, potente, massiccio. Ogni stazione ha una sua identità specifica, che riflette le varie anime di Londra nord, sud, est e ovest.

La jungle è custodita come un bene prezioso. Le radio trasmettono in diretta, le frequenze vanno e vengono e il ministero del commercio e dell’indu­stria può spegnerle da un momento all’altro, quindi ogni programma è accompagnato da un’attesa spa­smodica. Ogni fine settimana, in tutta Londra, mi­gliaia di seguaci stanno con il dito pronto per regi­strare su cassetta Friday night slam, un programma trasmesso da Kool Fm. Il lunedì, prima di andare a scuola, s’infilano il prezioso nastro in tasca per con­dividerlo e farlo copiare agli amici. Il carattere effi­mero della radio dal vivo dà alle registrazioni, e alla cassetta come oggetto, un valore aggiunto.

A volte le cassette sono ascoltate in gruppo su im­pianti stereo tradizionali, ma più spesso vengono ri­prodotte su un dispositivo che, proprio come il that­cherismo, è stato lanciato nel 1979: il walkman. Il walkman è tascabile, funziona solo in cuffia e i primi modelli tendono a divorare le cassette, perciò spesso bisogna usare una matita per resuscitare i nastri ma­sticati dalla testina. Specchio della direzione politica dell’epoca, il lettore di cassette portatile favorisce la privatizzazione dell’ascolto della musica, un’espe­rienza un tempo collettiva, e l’oscillare della cassetta tra l’ascolto individuale e collettivo riflette lo stato transitorio della società urbana negli anni novanta.

In mezzo alla settimana non c’è altra scelta che ascoltare la musica disponibile. Le visite a casa degli amici sono un momento di formazione musicale e culturale: Stevie Wonder, Stan Getz, Jimmy Cliff, Dennis Brown, Fela Kuti, l’hip hop e il soul raccontano storie di famiglie e di circuiti culturali slegati. L’a­scolto dei vinili permette di ricostruire la mappa del­le migrazioni musicali che hanno trasformato la città e la sua periferia.

La jungle incarna questa esperienza. Nati negli anni sessanta e settanta, molti personaggi chiave del movimento – Dj Hype, Congo Natty, Fabio & Grooverider – hanno suonato reggae, dub, hip hop, rave, soul e funk sulle stazioni pirata della generazio­ne precedente, oltre che dal vivo usando degli im­pianti stereo. La jungle è una commistione tra questi suoni prevalentemente neri e i gusti della città e del­le comunità suburbane, sovrapposti in un beat che unisce tutte queste fonti frammentarie in un flusso continuo che scorre alla velocità della città del futu­ro. I campionamenti citano vecchi telefilm di fanta­scienza, western, film statunitensi adolescenziali e di gangster, oltre a una serie di pellicole straniere che sono proposte molto di rado in tv, dai film di kung fu di Hong Kong ai rigurgiti ribelli della Giamaica di The harder they come. Tra campionamenti di colpi di pistola e titoli che evocano le sparatorie, la jungle è una celebrazione della mascolinità ribelle. A questa si aggiunge, soprattutto sulle radio pirata, la fissazio­ne per un immaginario maschile in cui i film di Mar­tin Scorsese si alternano alle imprese di Michael Jordan e ai risultati del campionato di calcio.

Una delle prime radio pirata che trasmettono la jungle è Weekend Rush (il casino del fine settima­na), un nome ironico nella Londra degli anni novan­ta, dove la noia domenicale è ancora imposta per legge dalla chiusura obbligatoria dei negozi e dei pub. Lo studio si trova al confine nord di Hackney Downs, nel Nightingale estate, un tipico complesso di case popolari di fine anni sessanta con palazzoni di ventuno piani circondati da costruzioni più basse. Fatiscente, semiabbandonato e mal gestito, il complesso è un relitto dell’ultimo tentativo di moderniz­zare il Regno Unito urbano, trent’anni prima. Tra gli anni ottanta e novanta la zona è stata devastata dalla recessione e dai suoi postumi. La disoccupazione supera il 20 per cento; tra i residenti neri è addirittu­ra il doppio.

Ma se la Londra degli anni novanta è cupa, di si­curo non lo è Weekend Rush: dà voce a un gruppo di giovani maschi che cazzeggiano in studio e si pren­dono in giro tra loro, riflettendo lo stesso senso dell’umorismo dei loro ascoltatori.

A luglio del 1993, le tv e i giornali diffondono la notizia di un’irruzione nello studio della radio pirata organizzata dalla polizia, dal consiglio municipale di Hackney e dal ministero del commercio e dell’indu­stria. Nel servizio in tv, un agente della stazione di polizia di Stoke Newington dice che Weekend Rush è stata usata come copertura dalla criminalità orga­nizzata per lo spaccio di droga. Il weekend successi­vo, un’altra stazione pirata di Hackney, Kool Fm, ri­sponde: “Un giornale come la Hackney Gazzette dovrebbe avere qualcosa di meglio di cui scrivere. Anche l’Evening Standard. Invece con tutte le cose orrende che succedono nel mondo scrivono queste stronzate. Siete una massa di buffoni!”.

Due mesi dopo la polizia è costretta ad ammette­re che alcuni agenti corrotti del commissariato di Stoke Newington hanno montato accuse false ai danni di residenti neri innocenti e che molti poliziot­ti sono coinvolti in attività di spaccio di eroina e crack a Hackney.

Verso la fine dell’anno, la serie di documentari Arena della Bbc trasmette Radio night. In mezzo a varie celebrazioni della radio nazionale, ci sono quindici minuti dedicati a Weekend Rush (nell’in­troduzione, il conduttore David Attenborough quan­do la nomina sospira). Il regista Nigel Finch smonta un servizio televisivo sul raid della polizia e passa a un remix jungle che ne campiona i suoni e le imma­gini, squarciando il velo della disonestà dei mezzi d’informazione e della polizia per dare voce ai pirati. Un intervistato spiega: “In giro non c’è neanche una radio che dà alla gente quello che vuole. Nessuna ra­dio legale mette la musica che vogliamo suonare noi. Se facessi un sacco di soldi con la criminalità orga­nizzata, tanto per cominciare non mi vestirei così. E poi non vivrei in questa zona. Anzi, non ci verrei proprio mai”.

Ripreso sullo sfondo delle sei torri di Nightingale, Mc Gaffa di Weekend Rush dice ai telespettatori: “Per tanti di noi che vivono qui a Hackney, c’è solo la musica. A Hackney il talento ce l’hanno tutti, ma in concreto nessuno ha niente. Ci sono un sacco di musicisti, ci sono un sacco di dj, ci sono un sacco di cal­ciatori, ci sono un sacco di sportivi, ma siccome non ci danno la possibilità di fare niente, ora che faccia­mo qualcosa di nostra iniziativa, di tasca nostra, ci danno addosso e dicono che stiamo in mezzo alla droga e alle multinazionali. Sono tutte balle. Balle”.

Le radio pirata hanno ormai delimitato un nuovo territorio nell’etere londinese, ma è ai rave che il massive istituisce un nuovo ordine sociale in carne e ossa, quando i party – legali e illegali – spuntano co­me funghi nelle zone morte della capitale. Magazzi­ni per la carne abbandonati, ex case di riposo, vecchi cinema e sale da ballo (posti che una volta erano de­stinati all’industria, all’assistenza e al tempo libero) sono occupati in aperta sfida alla visione della peri­feria di Thatcher e di Powell. Il rave, come la radio pirata, è l’incubatore di una Londra collettiva, che sovverte l’individualismo con musica a 160 battiti al minuto.

Al suo meglio, il rave introduce un nuovo model­lo di coesistenza urbana, indifferente alle differenze, capace di unire il massive della jungle in un ritmo ca­tartico ed edonistico, più veloce del capitalismo dell’epoca. Questa energia collettiva è spesso (ma non sempre) rafforzata dall’ecstasy, che amplifica l’empatia e restringe l’ego. Così il rave agisce come un palliativo per il dolore di una società che sta pas­sando dalla dimensione collettiva a quella indi­viduale.

Con il trascorrere degli anni novanta, la celebrazio­ne jungle della Londra non amata dal mainstream diventa onnipresente. Poi, alla fine degli anni novan­ta il territorio urbano comincia a cambiare. I tower blocks, parte integrante delle trasmissioni delle radio pirata, vengono progressivamente demoliti. Come spiega senza mezzi termini un rappresentante del consiglio municipale di Hackney nel documentario di Arena del 1993, uno degli obiettivi è eliminare la pirateria: “Abbiamo dei progetti per il complesso di Nightingale, abbiamo dei progetti di riqualificazio­ne. E temo che da queste parti le stazioni radio pirata avranno vita breve”.

Nel 1997 il Partito laburista di Tony Blair vince le elezioni, promettendo di salvare le periferie dal de­grado. La demolizione delle case popolari e delle ex aree industriali continua, in ossequio a una politica della tabula rasa in cui i costruttori privati sono inco­raggiati a guadagnare dalla prossimità con la cultura giovanile, dalla sanificazione della città e dall’au­mento costante dei prezzi delle case. Il mito della rinascita e il potere simbolico di un urban chic a mi­sura d’uomo e senza rischi attirano le classi medie, con il risultato di smussare quella stessa esuberanza che ne costituisce il fascino. Con la trasformazione del tessuto urbano, il popolo delle periferie, cioè il massive della jungle, viene sparpagliato e messo ai margini dall’afflusso di giovani professionisti prove­nienti dai sobborghi e dalla provincia.

I negozi di dischi, i bar, i club e i locali per i rave che hanno formato il braccio imprenditoriale del massive sono sostituiti da una serie di nuove oppor­tunità online, che separano luogo fisico e cultura gra­zie alla diffusione dei materiali culturali. Eppure ancora oggi la memoria delle radio pirata è viva, co­me testimonia il rapper Stormzy, nato nel 1993: “So che un sacco di artisti grime hanno cominciato con leradio pirata, ma quell’epoca me la sono persa, sono troppo giovane. Facevo l’Mc per gli amici, sputando rime nei telefonini: il Sony Ericsson Walkman W810, il Nokia Teardrop, tutti quei telefoni lì. Erano stru­menti fondamentali! Non ho mai fatto un dj set dove c’era un dj che metteva i dischi e io ci rappavo sopra”.

La jungle ha elettrizzato la vita a Londra negli an­ni novanta. Il massive esprimeva un senso di mutua­lità, carico della velocità della città che cambiava. Mentre oggi lo zombi del powellismo si rialza ancora una volta, possiamo piangere la dipartita della jun­gle senza desiderare il suo ritorno. Piuttosto, dobbia­mo cercare di assimilare le alternative al pensiero dominante che questo movimento ha creato e colti­vare quelle che sono nate dopo. La jungle è stata l’accordo in minore degli anni novanta. Il nostro compi­to ora è cambiare la sintonia per trovare un nuovo crepitio rivelatore.

Published 20 December 2021
Original in English
First published by Soundings 77 (English version); Internazionale 1431 (Italian version)

Contributed by Internazionale © James Cordell / Malcolm James / Internazionale / Soundings / Eurozine

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