Civic works

An interview with the architect Vittorio Gregotti

Arnaldo Bagnasco: La tua professionalità si è formata in dialogo continuo con filosofia, storia, letteratura, scienze sociali; ne è nata una visione originale e fortemente critica nei confronti della pratica dell’architettura contemporanea, della quale rendono conto il tuo lavoro professionale, ma anche molte pubblicazioni. Forse si può dire che non sei solo architetto…

Teatro degli Arcimboldi, Milan. Photo: Paolo Margari. Source:Flickr

Vittorio Gregotti: Forse è un po’ così. Tanto è vero che i miei amici, come sai bene, più che architetti sono “altri generi”… In un libro ho raccontato di essere nato dentro una fabbrica, che significa capire cosa vuol dire la produzione, il mondo operaio, i contrasti, ma anche le solidarietà [Recinto di fabbrica, Bollati e Boringhieri, 1996, N.d.R.]. Ho sempre lavorato con altre persone, e questo per me è un elemento molto importante. Il secondo aspetto importante è che per mia fortuna la mia famiglia era abbastanza ricca da mandarmi presto fuori dall’Italia. Avevo avuto dei professori di liceo molto intelligenti; entrando all’università, nel ’46, ho avuto qualche delusione, perché sembrava facessero solo corsi più generali, istituzionali. Mio padre allora mi ha detto: “Beh, adesso vai sei mesi fuori; dove vuoi andare?”. Ho scelto Parigi, perché allora, nel ’47, quello era il mondo. Adesso non è più così, ma quando andavi a Les Deux Magots e cercavi una zuccheriera, quello che te la passava magari era Camus o Sartre. Ho lavorato da Auguste Perret, grande precursore dell’architettura prima della guerra e ancora al lavoro, ma c’era una facilità e naturalità nei rapporti intellettuali assolutamente fantastica. Per esempio, sono andato a trovare Fernand Léger, ho suonato il campanello, lui mi ha aperto e gli ho detto: “Guardi, io sono interessato”; sono entrato, abbiamo chiacchierato, a un certo punto mi ha regalato un disegno e sono andato via. Era così anche quando nel ’51 sono andato per la prima volta in Inghilterra, poi nei primi anni Cinquanta negli Stati Uniti. Allora facevi davvero la scoperta di un mondo diverso, e quello degli architetti negli anni Cinquanta era davvero un mondo ridotto. La mia generazione ha avuto un contatto diretto con Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, e si è formata una solidarietà generazionale, derivata dal fatto che tutti avevamo una certa ammirazione e fedeltà per il movimento moderno, anche se molto critici: per esempio, il rapporto col contesto, con la storia, è un tema che abbiamo cominciato a discutere in quegli anni, anche se ognuno di noi poi ha dato risposte diverse; tuttavia ci si conosceva tutti, eravamo 50 o 60, diciamo la verità, adesso sono 50.000 o 60.000. Ci si vedeva sul modello del convegno internazionale delle scienze moderne, che poi è finito dopo gli anni Settanta. Ci si trovava in gruppo a discutere su alcuni argomenti per due o tre giorni e poi si tornava al lavoro. In modo del tutto informale, c’era questo tipo di solidarietà. Questo ha creato in me un doppio sistema: non pensavo al giudizio di quello che abitava di fianco a me, pensavo a cosa potesse pensare Gropius di quello che stavo facendo. Era un darci delle arie, ma anche un tentativo di collocarsi in una specie di internazionalismo critico, molto diverso dal globalismo attuale, che ha tutta un’altra natura.

AB: E questo è uno dei tuoi punti fondamentali, sul quale insisti nei tuoi libri.

VG: Sì, io sono abituato a rompere le scatole su questa storia, sulla differenza tra l’internazionalismo critico e il globalismo finanziario. C’è stato un salto, negli anni Ottanta. Conoscevo filosofi francesi e ne ho discusso proprio con loro all’inizio, con Derrida e con alcuni storici dell’architettura e delle arti visive.

AB: Tutto questo ti porta ad avere un atteggiamento nei confronti dell’architettura contemporanea e dell’urbani
stica molto radicale. Una volta lo hai sintetizzato in termini di tre rinunce dell’architettura: al disegno di modificazione del presente come progetto di confronto critico con il contesto; alla capacità di vedere piccolo con precisione tra le cose; alla durata dell’opera di architettura come metafora di eternità.

VG: Queste tre rinunce sono la dimostrazione che l’architettura attuale di successo, di successo mediatico, diciamo, è coerente con la cultura del capitalismo finanziario globale. Noi eravamo critici nei confronti del capitalismo, ma il capitalismo globale ha cambiato radicalmente la situazione. E quindi anche il nostro tipo di critica di una volta è forse meno efficace: bisogna cambiare ma non desistere.

AB: No, magari lo è anche di più. Quella era comunque una società abbastanza solida, adesso è tutto fluttuante, altro che durata.

VG: Infatti, l’unico valore è proprio la trasformazione, il cambiamento. Anche sul piano pratico, la figura dell’architetto è enormemente cambiata in questi ultimi anni. Fino alla metà del secolo scorso avevi un cliente, un costruttore e tu facevi l’architetto: la discussione tra questi tre poli era molto chiara, con opposizioni, difficoltà e tutto quello che vuoi, ma i tre erano quelli. Adesso la posizione dell’architetto all’interno del percorso nella produzione edilizia è completamente diversa. Grandi real estate internazionali sono bravissimi perché si occupano di grandi spazi, anche se non hanno alcun tipo di interesse per il disegno urbano, si occupano di grandi interventi che sono così complessi dal punto di vista burocratico, finanziario, di tutti i tipi, per cui tu ti senti un accessorio dedicato al solo tema dell’immagine di mercato. Il cliente non lo conosci più, questo è assolutamente evidente, non è che puoi fare il ritratto di un cliente. Noi abbiamo anche lavorato poco con i clienti diretti in questi ultimi trent’anni, però in generale il cliente non lo conosci, è una figura che il marketing ti dà, e in generale il marketing poi non fa altro che fare il ritratto dell’opinione pubblica comune, la media, insomma. Ecco questo rappresenta una grande difficoltà nella ricerca di senso del progetto.

AB: Proviamo a parlare dei rapporti con la politica. La metterei così: in Italia si è riproposto, per via di un sistema politico inceppato, la questione del rapporto tra tecnica, cioè autonomia, responsabilità progettuale di specialisti – tu sei uno specialista di alcune cose – e politica in senso stretto. Parliamo un po’ di questo. Ti chiedo anche se hai mai avuto intenzione di entrare in politica.

VG: No, mai! Questo te lo dico subito! Ma rispondo alla questione più generale. C’è una corrente molto importante dell’architettura che è nata alla fine degli anni Sessanta, per cui la tecnologia è ciò che deve essere rappresentato, oltre che uno strumento. E quindi c’è una confusione tra mezzi e fini. Quindi, come dire, quello che alla fine gli architetti descrivono è l'”impresibilità”, cioè l’idea di qualcosa che in realtà non sai come funziona; quello che fai è dargli un aspetto, del tutto mitico, senza riferimento a bisogni e valori: io credo che la tecnoscienza sia una componente importantissima della società, ma non sia l’unico valore del futuro e non produca automaticamente un valore politico di libertà e di giustizia. Sì, è una componente estremamente importante di cui bisogna tenere conto, però è una componente del discorso politico. Resta poi il fatto che la politica è sovente diventata amministrazione, anzi autoamministrazione. Gli ideali adesso vengono sempre chiamati ideologie, quando secondo me bisognerebbe fare una distinzione…

AB: Torniamo alla capacità di progetto, che deriva dall’essere specialisti di qualche cosa, per esempio di città o di case: qual è lo spazio di questa autonomia, in un mondo in cui la politica non sa più esattamente cosa fare?

VG: La pratica artistica dell’architettura è sempre stata un confronto tra autonomia ed eteronomia. Ma questa autonomia non è cresciuta. Posso dare un’idea semplificando molto. L’ideale di una grande impresa è che tu proponga un edificio che sia trasformabile, cioè una specie di contenitore che oggi vale per abitazione, domani può diventare ufficio o un’altra cosa. E quindi il tuo apporto è tutto solo d’immagine, perché la struttura deve essere neutrale. Il fatto è che questo vale anche un po’ per la politica: è difficile rapportarsi con una disponibilità di progetto per possibilità diverse che la realtà presenta quando le idee politiche sono molto vaghe.

AB: Tu quindi non pensi che la politica riesca oggi ad avere un rapporto tale per cui è confortata dalla progettualità di tecnici di vario genere.

VG: No, assolutamente no. Ho avuto rapporti con la politica non solo in Italia, ma in Cina, in Nord Africa e in tanti altri posti: la mia conclusione è che da parte di politici o del potere ci sia contemporaneamente poca conoscenza delle cose che si hanno di fronte, quindi difficoltà di giudizio, e anche una certa indifferenza. Ne deriva che loro guardano sempre dal punto di vista della “proiettività”: la novità contro il nuovo.

AB: Parliamo di città. Io ho un’idea che vorrei verificare anche con te. Non credi che sia stato sottovalutato il peso delle città – di molte capitali regionali in particolare – per il buon funzionamento e la riuscita del modello europeo degli anni del dopoguerra? In fondo, città ben attrezzate, ben governate, sono state un tassello importantissimo dei meccanismi di regolazione di quegli anni.

VG: Io credo che vi sia una specificità delle “città europee”. In Europa si incontra una vera città ogni venti chilometri anche se è di solo 3.000 abitanti: ci sono la chiesa, la piazza, il portico, il commercio, anche il mercato. Inoltre vi sono solo Londra e Parigi che contano più di dodici milioni di abitanti. Questa fittezza insediativa esiste solo in Europa, non avviene in Sud America, Nord America, non parliamo della Cina, dell’India, dell’Africa. Una definizione delle grandi città che contano globalmente è quella di Saskia Sassen di “città mondiali”, un’altra è quella di postmetropoli riferita alla grandissima estensione e densità di popolazione. Questo è diventato anche per lo sviluppo europeo un modello da imitare senza senso e con conseguenze disastrose. Il nostro studio lavora in Cina dalla fine degli anni Novanta, ma abbiamo dovuto fare molti sforzi per capire qualcosa della loro storia, del modo di concepire l’universo, del sentirsi una civiltà anziché una nazione, della loro lontananza dal logos europeo. Differenze che naturalmente erano molto importanti per progettare una nuova città come abbiamo fatto: paradossalmente per i cinesi attuali assai meno, perché molti cinesi sono sovente oggi autocolonialisti, nonostante la loro straordinaria cultura. La Cina è una civiltà grandissima ma molto diversa da quella europea. E questa, come le altre diverse
civiltà, la ritengo una ricchezza con cui confrontarsi, non qualche cosa da omologare.

AB: Certo, ma torniamo alle città europee, che riuscivano a essere attori e integratori dello sviluppo del modello sociale europeo. A questo riguardo tocchiamo una grave carenza e un ritardo dell’Italia.

VG: Sì, è una grave carenza non aver culturalmente investito sul loro ruolo e sul loro disegno urbano. Per fare un esempio, il passaggio di Milano (per non parlare di Torino) da città industriale a città dei servizi, città terziaria o città della ricerca, non si è compiuto: e le responsabilità sono non solo politiche ed economiche, sono soprattutto culturali. Certo, oggi la crisi economica ha ovviamente aggravato una situazione in cui l’università o gli stessi architetti hanno la loro parte di responsabilità.

AB: Come sai ci sono nuove idee e politiche europee per la città, proprio perché se ne capisce la centralità per gli equilibri di un Paese; pensiamo ad esempio ai programmi “smart cities”, basati su tecnologie al servizio di sviluppo e coesione: forse possono aiutare per risalire la china, teniamo presente che in Italia non c’è una politica nazionale per le città.

VG: Forse agli albori dell’unità nazionale c’erano ragionamenti che riguardavano proprio questo problema di una politica nazionale sulla città, ma poi non c’è mai
stata. Alcuni tentativi di immaginare comprensori come elementi di organizzazione territoriale che tenessero conto in un modo non puramente amministrativo dei limiti della città non sono mai riusciti ad andare in porto. Anche perché se il vicino appartiene a un altro gruppo politico non si va d’accordo.

AB: La morale della favola sembra essere: il problema della città appare sempre smontato in problemi di genere diverso, non si riesce a pensare unitariamente, e le città non hanno regole sufficienti per pensarsi unitariamente. I diversi ambiti di azione rispondono a soggetti e razionalità settoriali diverse e spesso esterne.

VG: Torno al caso di Milano che conosco abbastanza bene, ma anche ad altri come Roma, che pure ha l’area comunale più grande di tutt’Europa, dove ci siamo occupati del progetto della centralità di Acilia, presso Ostia antica. Penso che la proposta delle centralità fosse molto interessante perché poneva il problema della ristrutturazione delle periferie in modo nuovo, un’idea di trasformazione sul modello del “centro storico”, cioè multifunzionale, con una composizione multisociale e con la presenza anche di alcuni servizi eccezionali, che rendano necessario il rapporto tra quel punto esterno e il centro. Questo sarebbe un modo ragionevole per trasformare le periferie delle città europee. Abbiamo sperimentato tutto questo, credo positivamente, nella realizzazione di Milano Bicocca.

AB: Parlavi di Milano, con cui hai avuto rapporti non sempre semplici. Mi hai già detto che per pensare a Milano come world city bisogna farlo a misura di Europa, in un modo un po’ diverso da quello che forse qualcuno immagina. Teniamo comunque presente che la Milano di riferimento ormai è molto più del comune di Milano di un milione e duecentomila abitanti. Guido Martinotti, ricordi, parlava della “recessione dei confini” delle città. La conurbazione di Milano è sui quattro milioni, e si estende in territori di quattro province. La Milano città, come unità da governare, e che può esprimere una unità di progetto di sviluppo, qual è in questo momento?

VG: Le dimensioni e i problemi che si incontrano al riguardo possono essere messi in evidenza con l’esempio del grande aeroporto di Malpensa (e delle sue disavventure), localizzato addirittura fuori della provincia di Milano. La questione si pone evidentemente per molti aspetti, e non ci sono strumenti legislativi adeguati. Così, quando ti parlavo prima dei comprensori, mi riferivo a un’idea seppur vaga, ma che gli urbanisti portano avanti da trent’anni, che non è mai riuscita a trovare una istituzione legislativa che permettesse di lavorare davvero. La dimensione del cosiddetto Pgt (Piano di governo del territorio, N.d.T.] di Milano è così assurda che ci sono delle strade che da un lato sono in un comune e di là sono in un altro. Se si arriva a queste assurdità, a regolare secondo una logica una parte di una facciata della strada e con un’altra logica l’altra, pensare a un lavoro comprensoriale diventa impossibile. Un ufficio di studio di un piano territoriale esiste ancora, dopo ben trent’anni, ma senza che abbia alcun effetto reale.

AB: Ci sono però stati molti cambiamenti legislativi che hanno interessato decentramento amministrativo e rapporti centro-periferia, la redistribuzione di funzioni. Si discute poi ancora sul futuro i tali assetti. Secondo te, si sta andando in una direzione plausibile?

VG: No, non stanno andando in nessuna direzione. E questo è il problema, perché gli esempi ci sono; pensiamo all’Olanda, con la sua pianificazione nazionale degli spazi, che capisco è più semplice da gestire, ma non è che non ci siano degli esempi in Europa. Il piano della Ruhr, che hanno rifatto, è di tutto rispetto, un rifacimento complessivo del sistema, pensato e progettato unitariamente. Lasciamo da parte provvisoriamente il problema della forma architettonica di un edificio (che è certo elemento strutturale della sua qualità e del suo senso), ma il piano e la realizzazione della Ruhr ha pensato l’insieme come un sistema complessivo: con un disegno territoriale dotato di senso questa possibilità non è stata utilizzata da noi da nessuna parte. A volte penso che cosa avrebbe potuto significare per Napoli una capacità d intervento simile.

AB: Ritorno a quanto si diceva prima sulle condizioni per un buon rapporto fra progetto professionale e politica. Abbiamo esempi importanti di questo in passato, con una durata della cooperazione sufficiente a impostare la trasformazione in modo tale che altri dovevano necessariamente tenerne conto.

VG: Si possono fare molti esempi. Lione è stata una città che ha avuto non solo un grande sindaco all’inizio del Novecento, ma un grande architetto come Garnier, il quale si è reso disponibile a diventare l’architetto della città. Berlage ha fatto l’architetto di Amsterdam per anni e ne ha fatto il piano. Wagner ha fatto la stessa cosa con Vienna. Dopo la rottura delle mura, l’ente pubblico gli aveva assegnato un ruolo importante che aveva accettato. L’epoca di Weimar è stato un periodo in cui pianificazione, disegno urbano, architettura si sono parlati e hanno avuto delle relazioni positive che hanno prodotto indirizzi, realizzazioni, idee complessive riguardanti la città; è stata una durata breve e frammentaria, ma significativa. Un ceto dirigente meno frammentato e più responsabile rispetto a oggi, una garanzia di realizzazione e una cultura come quella delle avanguardie sono state le condizioni nei casi di successo. Non voglio adesso fare il vetero-marxista, però, voglio dire, oggi c’è una logica del tutto diversa che, come dicevo all’inizio, connette la cultura del capitalismo finanziario globale ai suoi prodotti. È una logica contro la quale noi dovremmo combattere, che rappresenta una forma diversa di potere, di un’altra natura, che non è più quello che noi pensavamo ancora negli anni Settanta come politica. Certo abbiamo sopravvalutato le capacità rivoluzionarie dell’architettura, e così oggi gli architetti di successo sono quelli che rispecchiano con la bizzarria delle loro forme il globalismo finanziario, ben lontani da ogni distanza critica dal sistema.

AB: Comunque sia, forse anche per diverse ragioni, dici che progetti capaci di puntare sulla durata di un’architettura si scontrano con una politica frammentata e fluida.

VG: Questa è una delle caratteristiche non solo italiana. Ho lavorato per esempio in Algeria, Paese ricco di risorse, ma dove ogni volta che c’è un cambio di un ministro – neanche del presidente del Consiglio, solo di un ministro! – ricominci tutto da capo. E anche di sovente il successo è il risultato di un complicato sistema di convenienza o l’imitazione delle forme stravaganti dell’architettura del globalismo male inteso, per essere alla moda.

AB: Allargando ancora la scala, cosa immagini di questa storia della macroregione del Nord che qualcuno propone? E più in generale della questione settentrionale, di cui oggi si parla?

VG: Ho una grande passione per la Storia, e per me quello della Storia è un terreno di confronto importante per capire su cosa si cammina. Ma come si fa a pensare che una macroregione del Nord abbia un’unità storica di qualche tipo? Sono civiltà completamente diverse, sovrapposte, cambiate molte volte, è una società la cui unità culturale è completamente inventata: vale solo l’elemento dell’efficienza produttiva.

AB: Si potrebbe però dire che c’è un problema di governo più complessivo, di interconnessione fra zone limitrofe.

VG: Ovviamente sì, ma questa è un’altra cosa, e non vedo perché dovrebbe essere limitato al Nord. Questa interconnessione può essere più articolata, e più ampia. Poi ci sono delle interconnessioni anche transnazionali: tra il Piemonte e la Francia, fra Trieste e la Croazia e prima con l’Austria, e così via. Sono appena stato a Barcellona per il venticinquesimo del premio Mies van der Rohe; a parte che m’ha fatto un’impressione fortissima; erano dieci anni che non ci andavo: nonostante la crisi si senta moltissimo, nei dieci anni dal 1995 al 2005 hanno lavorato tantissimo, per cui Milano sembra una piccola città di provincia al confronto con Barcellona, è impressionante. Bene, anche lì c’è questa fissa per l’indipendenza. È una fissazione un po’ più ragionevole di certe versioni nostrane, perché è almeno un’unità linguistica relativa. Discuto sempre con i miei amici di questo problema del regionalismo, perché deriva, come per il Nord da noi, dal fatto che la spinta viene dalla regione più ricca ed efficiente, che ha più possibilità; i Paesi baschi oggi sono molto meno aggressivi proprio perché non hanno questo tipo di rapporto di forza che invece i catalani hanno nei confronti della Spagna.

AB: Questo porta a pensare che effettivamente ci sono dei problemi nel governo e nei rapporti di aree più vaste, che vanno però affrontati senza complicazioni ideologiche.

VG: Ma certo, questo è importantissimo, perché se tu metti di mezzo un’ideologia, in questo caso cioè una falsa coscienza, assolutamente sorda, si creano ostacoli ancor più insormontabili.

AB: Una certa progettualità si è riuscita a esprimere in una finestra, aperta negli anni scorsi, prima della grande crisi, in concomitanza con innovazioni come l’elezione diretta del sindaco, in un momento in cui c’è stato il collasso di un sistema politico, per cui si stabiliva un rapporto tra risorse che esistevano fuori dalla politica e politica che si stava ricostituendo; è stata l’epoca della “pianificazione strategica” delle città. Un tipo di collaborazione, attivata dalle amministrazioni comunali, fra istituzioni pubbliche di vario genere, enti di rappresentanza degli interessi, università, fondazioni, associazioni, camere di commercio, in cerca di una visione unitaria, per quanto possibile, di un processo di sviluppo e coesione sociale. I risultati non sono stati ovunque positivi e duraturi. Ti sembra comunque che strumenti di questo genere siano da coltivare, una volta che il potere pubblico sia rafforzato nella sua capacità di regia e controllo?

VG: Mi sembrano strumenti indispensabili. Poi si può andare anche al di là, ma esperienze di questo tipo provano a rompere gli ostacoli di cui parlavamo prima, di confini amministrativi e ideologici, che tengono l’Italia indietro di secoli.

AB: Un’ultima domanda, per uno sguardo alla casa. Te la faccio in un modo un po’ provocatorio, come si dice, perché riguarda la casa ma è anche un po’ uno sguardo alla società nazionale e al suo governo, attraverso la casa. Cosa pensi di tutta la faccenda dell’Imu, cioè della sua eventuale cancellazione, che ormai sembra diventata una discussione per il ripristino di una pietra angolare dell’identità nazionale?

VG: È un’idea del tutto “politichese”, anche se gestita con grande ingiustizia. Tutta l’Europa ha questo tipo di tassa: si tratta di articolarne in modo ragionevole le parti, ma questo è un discorso completamente diverso. Tra l’altro, quello che si ricava da questi risparmi non è così rilevante. Bisogna però tenere conto che in Germania, ma anche in Francia o in Spagna, ci si orienta più che da noi verso l’affitto, poiché consente anche una maggiore flessibilità nel lavoro. Con conseguenze in termini di mobilità e di dinamismo sociale. Qui da noi se uno non ha la casa sembra non possa sopravvivere. Credo che l’idea di proprietà sia un’idea di difesa, non so come dire, è un segnale un po’ del fatto che tu sei sempre lì, che ti metti nell’angolo e cerchi di non farti prendere alle spalle. Questo della proprietà della casa è un elemento molto ostile a un maggior dinamismo sociale, per molti aspetti, a partire dalla mobilità in cerca di occasioni, e non dovrebbe essere sollecitato oltre misura.

Published 24 September 2013
Original in Italian
First published by Il Mulino 4/2013 (Italian version)

Contributed by Il Mulino © Arnaldo Bagnasco, Vittorio Gregotti / Il Mulino / Eurozine

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