Un'autentica truffa all'italiana

Come in altri casi, anche in quello Parmalat esiste una area grigia della coscienza,
che si è allargata grazie a due nefaste convinzioni: che un gigante industriale
non può fallire e che prima o poi “tutto si accomoda”; e che nell’azienda familiare l’ubbidienza al padre-padrone non può essere messa in discussione.

Impressionante è la quantità di livelli di controllo elusi: il consiglio di amministrazione,
il collegio sindacale, i revisori, gli analisti, le società di rating,
le banche finanziatrici, le banche che hanno organizzato le emissioni obbligazionarie,
la stampa, la Borsa Italiana, la Banca d’Italia, la Consob.

L’aspetto più clamoroso e preoccupante del crack Parmalat e che lo differenzia dagli altri scandali societari iniziati negli Stati Uniti con Enron non è la dimensione del “buco”, né l’importanza dell’azienda nel nostro tessuto industriale, ma il fatto che la truffa abbia potuto continuare indisturbata per quasi quindici anni, eludendo tutti i controlli (degli organi sociali, del mercato, delle autorità) e si sia anzi intensificata negli ultimi cinque anni, dopo che ci eravamo illusi di aver costruito regole più severe ed efficaci per la tutela degli investitori.
Le linee che sono state sbaragliate sono – a ben contare – sono dodici: il consiglio di amministrazione, e in esso il comitato di audit, il collegio sindacale, i revisori, gli analisti, le società di rating, le banche finanziatrici, le banche che hanno organizzato le emissioni obbligazionarie, la stampa specializzata, la Borsa Italiana, la Banca d’Italia, la Consob.
Eppure Parmalat, pur essendo considerata un esempio di successo industriale e una delle poche vere multinazionali italiane, aveva da sempre attraversato momenti difficili dal punto di vista finanziario. La quotazione, avvenuta in circostanze non del tutto limpide nel 1989, era stato l’atto finale di un salvataggio vero e proprio, benedetto dai protettori politici di Tanzi e in particolare da Ciriaco De Mita. Anche se adesso tutti sembrano ansiosi di iscriversi al club “l’avevo-sempre-detto-io”, è pur vero che le condizioni finanziarie del gruppo avevano sempre destato varie perplessità, aggravate negli ultimi anni da una serie di acquisizioni in America Latina rivelatesi non convenienti e aggravate dalla svalutazione delle monete locali.
Come è stato possibile che un’impresa da sempre considerata finanziariamente fragile abbia potuto ingannare tante persone per così tanto tempo? Se le linee di controllo sbaragliate sono tredici come detto sopra, ciò significa che nel corso del tempo qualche migliaio di persone si è occupata professionalmente dell’azienda ed era nelle condizioni se non di scoprire la truffa, almeno di lanciare qualche allarme. Non stupisce quindi che il Tribunale del riesame di Bologna abbia parlato (Corriere della Sera, 24 gennaio 2004) di “protezioni ambientali che hanno assicurato per anni l’impunità, nonostante le sfrenate condotte illecite realizzate dal principale responsabile”. Le anomalie erano tali e tante, si aggiunge, da non poter non “allertare l’interesse di un qualsivoglia e pur distratto controllore”.

Non sottovalutare le zone grigie

Solo quando saranno noti i documenti su cui stanno lavorando oggi i magistrati potremo sapere esattamente quali sono queste “protezioni ambientali” che hanno impedito il funzionamento dei normali meccanismi di controllo e quanto di illecito vi sia in esse. Bisogna però subito rifiutare due tesi opposte, ma ugualmente pericolose. La prima è che a tutti i livelli si possano rintracciare responsabilità dolose o comunque colpose. La seconda è che al di là della ristretta cerchia degli artefici della truffa, tutti gli altri siano pure vittime. Come in tante tragedie collettive, esiste invece una larga area grigia della coscienza, prima ancora che della responsabilità giuridica, di coloro che avrebbero potuto indagare di più e meglio e non lo hanno fatto, di coloro che hanno guardato solo al proprio tornaconto personale, di coloro che hanno voluto credere alla versione più rosea, rivelatasi poi falsa.

Questa area grigia si è allargata a macchia d’olio grazie a due convinzioni profondamente radicate nella vita economica e politica italiana. La prima è la generalizzata consapevolezza che un gigante industriale (soprattutto in un panorama come quello italiano in cui abbondano i nani) non può fallire e che quindi prima o poi “tutto si accomoda”. La seconda è che nell’azienda familiare l’accentramento di poteri e l’ubbidienza al padre-padrone sono principi fondamentali che non possono in alcun modo essere messi in discussione, anche quando costui mette nell’azienda tutto tranne i capitali.

La storia industriale italiana è costellata di episodi in cui alla fine si è arrivati al salvataggio dell’azienda (spesso anche dell’imprenditore) e ad una sostanziale tutela delle ragioni di credito dei finanziatori. I risultati hanno dimostrato che non si è trattato di soluzioni convenienti: si sono impiegati capitali pubblici in quantità e si è finito per trasformare istituti pubblici ancora efficienti come l’Iri in autentici lazzaretti costretti ad occuparsi del “panettone di Stato”. Quella stagione è definitivamente tramontata, senza rimpianti, per la semplice ma decisiva ragione che le casse dell’erario sono ormai vuote e che l’Unione europea esercita un’occhiuta vigilanza sull’estensione di aiuti di Stato alle imprese. Nonostante ciò, anche negli addetti ai lavori, rimane come una sorta di speranza inconscia, che prima o poi si arrivi ad una soluzione che tuteli gli interessi dei creditori.

Lo sviluppo del mercato dei capitali degli anni recenti non ha eliminato il problema, ma lo ripropone sotto nuove forme e su scala globale. Prima, quando il finanziamento era assicurato solo dalle banche, la crisi portava a ristrutturazioni del debito che solo in un numero ristretto di casi (Ferruzzi è il più significativo) infliggevano perdite dolorose ai bilanci bancari. In tutti gli altri casi soluzioni più o meno benedette dal potere politico e dalla Banca d’Italia limitavano fortemente le perdite per le banche, che infatti hanno continuato a macinare risultati positivi negli ultimi trenta anni. Oggi, la capacità di reperire capitali in qualunque parte del globo ha scatenato l’interesse anche delle grandi banche internazionali. Non c’è più da preoccuparsi dell’eccesso di debiti perché c’è una lunga fila di nomi prestigiosi della finanza pronti, dietro pingui commissioni, ad organizzare operazioni sofisticate di ogni tipo, capaci di tenere in piedi anche il debito più complesso.

Un solo interesse

Il secondo elemento che ha reso così ampia l’area grigia della coscienza riguarda più direttamente i meccanismi di funzionamento dei controlli interni all’azienda. Il codice civile, il Testo Unico della Finanza e il codice di autodisciplina delle società quotate disegnano un reticolo di norme che dovrebbe escludere ogni possibilità di condotta illecita. Il consiglio di amministrazione vigila “sul generale andamento della gestione, con particolare attenzione alle situazioni di conflitto di interessi” e “verifica l’adeguatezza dell’assetto organizzativo ed amministrativo generale della società” . All’interno di esso deve essere nominato un congruo numero di amministratori indipendenti, che devono formare la maggioranza del comitato di audit al quale sono affidate particolari responsabilità, fra cui quella di essere l’interlocutore principale del sistema di controllo interno, definito come “l’insieme dei processi diretti a monitorare l’efficienza delle operazioni aziendali, l’affidabilità dell’informazione finanziaria, il rispetto di leggi e regolamenti, la salvaguardia dei beni aziendali”.

Non basta. Il Testo Unico della Finanza assegna al collegio sindacale il compito di vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, nonché sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo-contabile nonché sull’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione.
Nessuno di questi precetti sembra essere stato rispettato, fondamentalmente perché nessuno all’interno dell’azienda (e nemmeno all’esterno) ha mai osato pensare che dall’applicazione di queste regole potesse derivare una sia pur minima riduzione del potere del padre-padrone. Il Testo Unico della Finanza e il codice Preda hanno quindi lasciato scarse tracce sugli assetti societari: il consiglio di amministrazione ha continuato ad essere imbottito di membri della famiglia; il comitato di audit (composto da tre membri) era presieduto da Luciano Silingardi, colui che aveva dato un contributo determinante alla crescita dell’indebitamento del gruppo e comprendeva il principale controllato potenziale, cioè il direttore finanziario Fausto Tonna.
Se a ciò si aggiunge che Parmalat non rispettava anche un’altra raccomandazione del codice Preda, quella di separare la carica di presidente da quella di amministratore delegato e si ricorda che con un gioco dei quorum nell’assemblea del 2003 si era evitato di far eleggere un sindaco dalle minoranze, si capisce che l’intero apparato dei controlli interni alla società poteva diventare, come in effetti è diventato, una pura finzione. Lo slogan che tanto piace agli imprenditori (“un uomo solo al comando”) ha continuato ad essere la regola, mentre i sistemi di checks and balances, che sono quelli che fanno funzionare le democrazie e le imprese sono stati ridotti a pura forma. Insomma, non solo la società era da molti considerata finanziariamente fragile, ma era anche sotto gli occhi di tutti che i meccanismi di controllo erano piegati agli interessi del padrone.

Niente a che fare con Enron

Tutto questo è continuato nonostante che il gruppo aumentasse costantemente il ricorso al pubblico risparmio: la quotazione avvenne attraverso una scatola cinese, per non tradire i vizi antichi del capitalismo italiano, ma ai limiti della maggioranza assoluta. Inoltre, come è noto, nel corso degli ultimi anni sono esplose le emissioni obbligazionarie che hanno raggiunto rapidamente la quota prevalente del passivo. A coloro che mettevano nella società la stragrande maggioranza dei mezzi finanziari, non rimaneva che sospirare come Zerlina: “non temere, nella mani son io di un cavaliere”. Purtroppo, il cavaliere si è dimostrato ancora più depravato di Don Giovanni.

Per questi motivi, Parmalat è diversa dallo scandalo Enron: lì un’impresa che aveva cavalcato in modo dissennato la bolla speculativa aveva creato una rete estesa di complicità basate sulla avidità dei manager e sui conflitti di interesse di revisori, analisti e banche di investimento, ma passando attraverso alcune maglie larghe della normativa (in particolare il mancato consolidamento delle società – veicolo in cui erano state occultate le perdite). Qui invece non c’è stato neppure bisogno di trovare qualche sofisticata scappatoia: truffa pura, basata come nella miglior tradizione di Totò sulla contraffazione casalinga di documenti. Una truffa che la Sec ha definito smaccata (“brazen”) ma in cui una cerchia ristretta di truffatori e una, presumibilmente non larghissima, di complici diretti, sono stati attorniati da un’autentica folla di potenziali controllori che hanno rinunciato a svolgere fino in fondo il loro compito.
Per questi motivi, i rimedi alla crisi Parmalat sono in parte diversi da quelli individuati dagli Stati Uniti alla crisi Enron. Lì infatti sono state rafforzate tutte le regole a cominciare dai controlli sulle società di revisione che, ironia della sorte, paesi come l’Italia avevano introdotto venticinque anni fa. Qui invece il problema è quello di evitare per il futuro fallimenti plateali dei controlli, a cominciare da quelli interni e di mercato, cioè a cominciare dai comportamenti di tutti i soggetti responsabili del buon funzionamento delle imprese e dei mercati.

È bene non accontentarsi di generici richiami all’etica nella vita economica. Con tutto il rispetto per le buone intenzioni dei pastori di anime (si veda l’intervista al Cardinale Tettamanzi su Il Sole- 24 Ore del 28 gennaio) non si può dimenticare che Callisto Tanzi era sempre stato dipinto come uomo pio, timorato di Dio e dedito al bene. È dunque sul versante laico delle sanzioni e dei controlli preventivi che occorre agire per il futuro.

Published 10 March 2004
Original in Italian

Contributed by Reset © Reset Eurozine

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