La tolleranza, una strada in salita
Le società islamiche soffrono oggi in maniera duplice: anzitutto, in modo confuso, della frustrazione di non avere potuto interpretare correttamente e di non essersi appropriate attivamente della grande trasformazione della Modernità; poi, avendola subita in una battaglia all’ultimo sangue e a un costo esorbitante, di avere ancora enormi difficoltà nell’integrarne gli elementi costitutivi fondamentali. Per queste società è dunque vitale rifare a ritroso il cammino percorso, per tentare di comprendere le ragioni per le quali esse si trovano ancora oggi in una situazione d’indecisione, di confusione e d’incertezza, dopo due secoli di insuccessi, azioni velleitarie, d’una dipendenza dall’esterno che non è diminuita dopo la decolonizzazione, ma ha preso semplicemente nuove forme, meno visibili. Una tale riflessione è anzitutto compito dell’attuale generazione di intellettuali musulmani, ma essa è anche, allo stesso titolo per esempio della situazione africana, cinese o indiana, un problema della modernità come tale, che concerne gli uomini ovunque essi siano. Indagata in modo notevole dallo storico americano M.G.S. Hodgson, autore morto troppo giovane e sfortunatamente troppo ignorato di una storia dell’islam e di un tentativo incompiuto di storia mondiale, essa deve proseguire con più vigore e perseveranza.
Per quanto mi riguarda, e sempre a titolo provvisorio, vorrei sottolineare due ordini di cause che hanno condotto, a mio parere, alla situazione attuale nelle società islamiche. La prima, sul piano interno, presenta un carattere eminentemente politico e, si potrebbe dire, di banale gestione. Spinte a integrarsi nel processo mondiale dell’economia e delle comunicazioni, le società islamiche hanno visto progressivamente andare in frantumi le loro strutture sociali e economiche, i loro sistemi educativi, le loro forme d’organizzazione culturale, i loro valori, e persino le loro lingue. Soprattutto, nel corso degli ultimi quaranta o cinquant’anni, all’indomani della “decolonizzazione”, la ristrutturazione sociale si è accelerata, a volte in maniera brutale, svuotando le campagne, formando nuovi strati sociali di privilegiati rapaci, numericamente molto deboli, ma capaci di monopolizzare le energie dell’economia e del potere, e facendo della maggioranza della popolazione una massa di gente privata di mezzi e abbandonata a se stessa. Gli Stati, non pensando che alla loro sicurezza e alla loro eternità, non hanno saputo o voluto accompagnare questi sconvolgimenti sociali e culturali canalizzandoli, attenuandone gli effetti devastanti, introducendo riforme suscettibili di ridurli a poco a poco.
Rinforzati dagli aiuti tecnologici, militari e economici occidentali, rimessi a galla dai prestiti che sono stati loro facilmente concessi dagli organismi finanziari internazionali o dai paesi occidentali e, alcuni, approfittando delle manne petrolifere, gli Stati islamici si sono sentiti sufficientemente forti per non dover procedere con le riforme sociali, politiche e economiche che erano invece necessarie. In modo ancora più grave, hanno praticamente chiuso le porte dell’avvenire alla maggioranza delle loro popolazioni non prestando sufficiente attenzione ai settori vitali, ovvero l’educazione e la formazione. Invece di condurre le loro società verso la libera espressione e l’esercizio di più democrazia, essi le hanno mantenute nell’ignoranza e nell’irresponsabilità, e hanno favorito una visione della cultura e della religione islamica troppo legata a uno spirito di conservatorismo e priva di apertura e creatività.
Debolezza della società civile islamica
Una seconda causa interna della confusione, dell’incertezza e della mancanza di libertà che regnano oggi nelle società islamiche, conseguenza diretta della prima, è la debolezza drammatica della società civile e della classe intellettuale. Nella maggior parte dei paesi islamici, la società civile era un tempo organizzata su due livelli: per gli aspetti sociali e politici, essa si appoggiava alla famiglia e alla tribù, talvolta alle corporazioni dei mestieri; sul piano religioso essa si concepiva come comunità totale, senza tuttavia escludere forme d’associazione intermedie nel quadro delle confraternite o delle zaouia. Di fronte allo Stato trovava dei portavoce o dei difensori nel capofamiglia o nel capotribù, nei capi delle corporazioni, negli ulema, individualmente o collettivamente, e nei santi e nei riformatori religiosi. Oggi tutte queste strutture sono state spezzate e hanno perduto il loro antico ruolo, anche se a volte si tenta artificialmente di ridar loro vita, qua e là, con dei fini politici dubbi. La società civile non ha più dunque né difensori né voce sufficientemente forte davanti all’onnipotenza dello Stato. Le associazioni politiche, sindacali o altro, tentano con difficoltà di crearsi una via, ma si bloccano davanti ai fastidi e alle lungaggini amministrative e, soprattutto, alla mancanza di mezzi finanziari e umani che sono accaparrati dalle associazioni ufficiali.
La responsabilità degli intellettuali
Gli intellettuali, che dovevano dare il cambio agli ulema, ai santi e ai riformatori religiosi, sono minati da diversi handicap. Anzitutto subiscono gli effetti della debolezza del sistema educativo e delle attrezzature culturali, il cui risultato è il mantenimento della maggioranza della popolazione nell’analfabetismo e nell’ignoranza. Vivendo in condizioni materiali insufficienti e precarie, sono sempre più screditati socialmente. Di solito manca loro la documentazione e l’informazione per fare della ricerca o per scrivere, perché le biblioteche sono rare o mancano del tutto o sono molto poco fornite, e l’informazione è a tutti i livelli e in tutti i campi male organizzata e male archiviata, ed è difficile o impossibile accedervi. Quando malgrado tutto arrivano a produrre qualcosa, trovano grandi difficoltà a far vivere delle riviste o a farsi pubblicare, e non ricevono che un minimo compenso materiale o morale per tutti i loro sforzi. Soffrono, però, di un altro handicap ancora più grave: una sorta di divorzio tra la funzione intellettuale come si esprime nella scienza, nell’arte e nella letteratura, e il potere. Quest’ultimo ha da tempo perduto di vista i vincoli fondamentali ricchi e complessi che legano funzione intellettuale e funzione politica per lo sviluppo della società. Affidandosi a una stretta visione tecnocratica e credendo di poter soddisfare i bisogni del suo funzionamento facendo appello alla “perizia” straniera, lo Stato si interessa agli intellettuali locali solo nella misura in cui possano fornirgli il supporto ideologico di cui ha bisogno sul piano religioso e politico, e per blindare il sistema educativo.
In questo modo la funzione intellettuale si trova ridotta e strumentalizzata a oltranza. Le scienze umane e sociali sono praticamente bandite, la filosofia è combattuta. Gli studi sulla cultura islamica, quando esistono, sono fatti il più sovente secondo metodi tradizionali, senza apertura sulle altre culture e civiltà. La ricerca nel campo delle scienze esatte, costosa e considerata poco utile a un’economia ancora troppo debole, è ridotta alle sue applicazioni nei campi che rispondono agli stretti bisogni dell’agricoltura o dell’industria. Date le lacune nella conoscenza dei fenomeni che agitano al suo interno la società – legati agli sconvolgimenti sociali, economici, politici e culturali – e l’indigenza della comprensione profonda di realtà molto complesse del mondo esteriore, i decisori agiscono perlopiù alla cieca, nell’improvvisazione e con una grande lentezza, lasciando che le occasioni si sprechino e i problemi si accumulino, non temendo affatto le contraddizioni e i voltafaccia spettacolari, affidandosi tutt’al più al senso dei loro propri interessi a brevissimo termine. Questa situazione di ignoranza dei fenomeni profondi che tormentano le società islamiche nel loro confronto con gli shock permanenti che fa subire loro un mondo esteriore – esso stesso in costante evoluzione – e che si aggiungono al soffocamento del pensiero, all’incoraggiamento dell’incultura e alle frustrazioni sociali e politiche, ha favorito l’emergere delle correnti islamiste che, ricordiamocelo, sono state anzitutto creazione dei poteri. Oltre alle loro debolezze a livello di contenuto delle dottrine, della loro conoscenza limitata dell’islam, della loro quasi-ignoranza del pensiero e della cultura moderne, la marca di questi movimenti è l’intolleranza. L’islam che hanno inventato per il proprio tornaconto appoggia la regolamentazione stretta e pignola di tutti i gesti della vita e mette l’accento sui divieti e sui tabù, in sfida alla libertà interiore del credente e di una vera religiosità.
Una storia occultata
Le molte sfaccettature della ricca cultura dell’islam, che avevano costituito un tempo il suo segno distintivo, sono semplicemente occultate; la storia politica delle società musulmane è ignorata. Occupando lo spazio lasciato vuoto dagli intellettuali, approfittando dell’incultura generale e del bisogno identitario, impolverando la loro azione di misure sociali pratiche e di un discorso ipercritico verso il potere e la dominazione economica e culturale straniera, le diverse correnti islamiste hanno una grande capacità di seduzione non solo nei confronti dei poveri e dei diseredati, ma anche, e sempre più, nei confronti degli insegnanti, dei piccoli imprenditori, dei funzionari medio-piccoli, dei medici e degli ingegneri. Il sostegno spontaneo della società ai valori islamici ancestrali a causa di una reazione identitaria comprensibile, il legalismo (che, rafforzatosi dal XV secolo allo scopo di saldare la società contro le correnti estremiste religiose, contro i tentativi d’occupazione straniera e contro l’anarchia politica, non aveva mai potuto essere ripensato e riadattato alle condizioni moderne), e il tabù su ogni discussione di ordine metafisico confortano le correnti islamiche nel loro autoritarismo intellettuale. Se i poteri li considerano pericolosi in quanto concorrenti politici potenziali, in realtà trovano in esse dei complici di cui si accontentano di neutralizzare certi eccessi.
Per quanto riguarda le cause esteriori che possono spiegare la situazione che prevale oggi nelle società islamiche, la più importante è a mio parere lo squilibrio di fatto tra l’Occidente, incluso il Giappone, e il resto del mondo. Le statistiche di ogni tipo che rendono conto di questo squilibrio sul piano economico, tecnologico, scientifico ecc., sono note e sufficientemente eloquenti per non dovervi qui tornare. L’ideologia dominante, quando sembra abbandonare il tema grossolano dello “scontro di civiltà”, continua a cristallizzare e a rafforzare le dicotomie: tra i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud, l’Occidente e il resto del mondo, la civiltà e la barbarie. Eludendo le basi del problema storico, che risiede nella complessità e nelle difficoltà inerenti al processo di modernizzazione e nell’ineguaglianza d’accesso ai fondamenti della Modernità, trattando superficialmente le questioni della povertà, della democrazia, dell’educazione e della cultura, ricadendo costantemente nella concezione fondamentalmente erronea del relativismo culturale, le discussioni attuali sulla mondializzazione sono, in realtà, al di qua del potenziale d’universalismo della rivoluzione moderna.
Modelli calati dall’alto
Situazioni risultanti da un processo storico complesso sono trasformate in realtà essenziali. Modelli rigidi sono proposti – democrazia e liberalismo per esempio – senza che nulla sia fatto per preparare le basi indispensabili alla loro messa in pratica. Così, l’incapacità delle società non europee ad adattarsi al mondo moderno può apparire lampante e, in qualche modo, naturale; lo squilibrio nei loro rapporti con l’Occidente può essere presentato come obiettivo; e la possibilità di soppressione del divario può allontanarsi all’infinito. L’orientamento imperialista della politica degli Stati Uniti accentua ancora questa tendenza. Al cuore stesso della Modernità c’è la libertà di pensare e di creare. Per tutti gli esseri umani, oggi, ovunque si trovino, è la condizione stessa per esistere degnamente, esistere molto semplicemente in quanto esseri umani. Ebbene, a questa libertà di pensare e creare sorgono limiti di ogni sorta. Si potrebbe dire che non vi è nulla di anormale: la tolleranza non è sempre stata un margine, senza alcun dubbio vitale, ma che si negozia e rinegozia costantemente nel corso di processi storici più o meno lunghi? La differenza, oggi, è doppia: da una parte la tolleranza, intesa come riconoscimento del pluralismo dei punti di vista sulla verità e la realtà, è diventata, come si è visto, un elemento strutturante della società moderna, soprattutto nel momento in cui una dinamica profonda tendente verso una prospettiva d’unificazione e d’universalizzazione – che non deve assolutamente escludere la diversità – sembra prendere una svolta decisiva; dall’altra parte, lo squilibrio si accentua tra due parti dell’umanità: una in cui vengono assicurate le condizioni della negoziazione in vista di una più grande tolleranza, e una in cui queste mancano crudelmente.
È forse nei paesi islamici che il blocco è più evidente: lì gli Stati, troppo preoccupati della loro sicurezza e della loro eternità, non hanno ancora compreso a sufficienza che la propria sorte dipende in realtà dalla loro capacità di intraprendere le riforme sociali, politiche, educative e culturali che mettono in pratica le libertà di pensare, creare e organizzarsi, indispensabili a ogni società; lì i movimenti detti “islamisti” erigono contro queste stesse libertà delle barriere tanto più insuperabili quanto più sono rivestite d’un velo di sacralità e, dando le spalle alla dinamica di universalizzazione della cultura umana, coscientemente o meno, vogliono ridurre le loro società alla chiusura e all’autoesclusione. Ma in realtà il blocco non è paradossalmente minore nelle società occidentali, con conseguenze molto più gravi per l’avvenire del mondo: esso si situa al livello della mutazione della democrazia, che è vitale per l’ordine attuale del mondo. Da un lato, alle esigenze interne di questa mutazione è opposta una timida – sebbene inconfessata – resistenza, sotto l’egida di poteri economici sempre più distaccati dai quadri nazionali; dall’altro lato la prospettiva di una estensione logica e legittima della democrazia alla totalità del mondo si scontra con dei residui di eurocentrismo e con tentazioni imperiali e egemoniche in scala planetaria, miasmi di un’altra epoca.
Al di là di queste difficoltà, resta una speranza: che il potenziale di libertà e creatività del sistema moderno, che è maggiore che in ogni altra epoca della storia umana, sia messo al servizio del rafforzamento di una coscienza e di una responsabilità universale.
Published 29 January 2007
Original in French
Translated by
Daniele Castellani Perelli
First published by Reset 99 (2007); Esprit 11/2005 (French version)
Contributed by Reset © Abdesselam Cheddadi/Reset Eurozine
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