Islam, marxismo, nazionalismo

La formidabile capacità dell’islam di mantenere e rafforzare se stesso è uno degli eventi più straordinari del XX secolo. Molti esperti di scienze sociali hanno accolto la tesi della secolarizzazione – secondo cui, nelle società moderne o industriali, la funzione della religione sulle menti e sui cuori degli uomini è in declino. Ciò è più o meno vero, con una straordinaria eccezione, quella del mondo islamico, in cui l’influenza della religione sulla società e sugli uomini negli ultimi cento anni certo non è diminuita, ma anzi si è fatta più forte.

Il Novecento

Un evento altrettanto straordinario è il crollo inaspettato e totale del marxismo. Esso viene spesso, e a ragione, paragonato alla religione, e a volte persino descritto come religione secolare, poiché ne condivide molte caratteristiche, come ad esempio la visione totale o la promessa di una giustizia in terra. Ma quando una religione si è insediata, essa mantiene la presa sul cuore e sulla mente dell’uomo, e non crolla facilmente. E se crolla, c’è un certo margine di resistenza e di lotta; alcuni le restano fedeli. Il marxismo, al contrario, è riuscito a mantenere la fedeltà di un numero straordinariamente basso di persone (e forse di nessuno). Nel mondo postcomunista si verifica puntualmente il ritorno degli ex comunisti. Ma è gente che lotta solo per salvaguardare la propria posizione, per il mantenimento delle politiche sociali, per evitare un cambiamento radicale – di fatto, si tratta di conservatori. È molto interessante notare che nessuno di loro si è riproposto sotto la “bandiera del marxismo”. Nelle società dominate dal marxismo, i bolscevichi non sono riusciti a emulare i gesuiti o altri rappresentanti della Controriforma, che hanno invece lasciato tracce profonde nelle anime e nelle società dei loro seguaci.

Ci sono poi fatti un po’ meno sorprendenti, anche se non del tutto prevedibili: uno di questi è la forza del nazionalismo nel XX secolo. Certo, per lungo tempo il suo declino era stato ottimisticamente preannunciato. Il presupposto logico alla base della fine del nazionalismo ha due caratteristiche: è condiviso da marxisti e da liberali, ed è assolutamente convincente. Le premesse sono giuste, ma la conclusione non corrisponde al mondo reale. La questione è molto semplice: il nazionalismo dipende da differenze etniche, nazionali e culturali che esso trasforma in princìpi di appartenenza e di lealtà politica. Ciò è incontestabilmente vero. Ma non basta: le condizioni del mondo industrializzato, con la tendenza alla mobilità, alla disgregazione delle comunità locali, all’instabilità, alla standardizzazione della comunicazione, erodono quelle stesse differenze.

Si potrebbe perciò concludere che, nel mondo moderno, il nazionalismo crolla perché le fondamenta su cui poggia si sbriciolano gradualmente. Questa conclusione però non corrisponde ai fatti. Di conseguenza, ci devono essere altri fattori da considerare; cercheremo di determinarli.

La convinzione che il nazionalismo sarebbe infine crollato era condivisa sia dai marxisti che dai liberali, che erano in disaccordo solo sulle cause precise della sua fine: per i liberali, la divisione internazionale del lavoro e i vantaggi che ne derivavano; per i marxisti, invece, lo spaventoso melting pot del proletariato internazionale impoverito che, proprio attraverso l’impoverimento e l’alienazione, sarebbe stato strappato alle sue antiche radici etniche e sarebbe dunque rimasto fedele solo a se stesso. Nella sua nudità culturale ci sarebbe stato qualcosa di simile alla pura essenza dell’umanità, che si sarebbe riaffermata nel proletariato stesso.

Altra caratteristica del Novecento è il relativo successo delle “democrazie” semi-secolari, pluralistiche e liberali che hanno vinto le guerre in cui erano coinvolte; hanno vinto sia la guerra militare nel 1945 che quella economica nel 1989, che è stato uno dei conflitti più decisivi nella storia dell’umanità.

I due islam e la modernizzazione

Perché l’islam ha un successo così sconvolgente? Perché resiste alla secolarizzazione? Comincerò col proporre un modello dell’islam tradizionale (senza far riferimento alla storia più antica). Riassumendo, l’islam, almeno quello compreso tra l’Hindu Kush, l’Atlantico e la grande ansa del Niger, era diviso in una cultura alta e in una bassa – un alto islam e un basso islam – che convivevano in modo instabile. Erano tendenzialmente pacifici, ma scoppiavano conflitti a intervalli piuttosto regolari. La differenza principale tra i due è che l’alto islam non ammette mediatori (ha un nome speciale per il peccato di mediazione: shirk), mentre il mondo del basso islam ne è pieno. L’alto islam incoraggia un rapporto diretto tra l’unico Dio e il singolo credente; non è legato ai rituali, non concede molto alla magia e al soprannaturale, ed è fortemente moralista, scritturale, purista, monoteistico e individualistico; è l’islam dei dotti. L’alto islam è riconosciuto dai fedeli ma non praticato, perché non risponde ai bisogni delle classi inferiori e, soprattutto, a quelli dei musulmani rurali che per ovvi motivi necessitano di una religione molto più durkheimiana – ovvero, di una religione in cui il sacro ha i suoi mediatori, le sue incarnazioni, e che rispecchia la struttura sociale. Un islam di classe alta, urbano, individualistico, purista, “protestante” (in cui, stranamente, la forza unificante è costituita da giuristi e teologi, che sono i suoi principali depositari, nonostante l’assenza di un’organizzazione o di qualunque genere di gerarchia) coesisteva con un islam frammentario e “cattolico”, con le caratteristiche “cattoliche” di gerarchia, di ritualizzazione, di uso degli esercizi mistici e delle forme esteriori di religione. Le due forme di islam entravano in conflitto durante i tentativi periodici di auto-riforma, ma per la maggior parte del tempo coesistevano in armonia. Riguardo a questo, condivido la teoria di Hume, secondo il quale la vita dell’umanità oscilla tra religioni di tipo protestante e di tipo cattolico. Nei periodi di eccesso di fanatismo e di auto-riformismo, i puritani possono avere la meglio, ma le esigenze della vita sociale causano sempre un nuovo ritorno a una religione non scritturale, ritualizzata, gerarchica, personalizzata, che segue un’etica della lealtà piuttosto che un’etica delle regole. Quindi, l’islam è esistito in perpetua oscillazione tra riforme fallite e ritorni alle vecchie abitudini culturali.

Da questo punto di vista c’è una differenza specifica tra islam e cristianità dell’Europa occidentale: in quest’ultima l’etica della lealtà, gerarchica e ritualizzata, ha un ruolo centrale ed è incarnata in un’istituzione, non in una dottrina astratta; mentre la versione purista, scritturale, individualistica è frammentaria e relativamente marginale. Per l’islam è esattamente l’opposto: la tradizione centrale è individualistica e scritturale, e i deviazionisti sono gerarchici e ritualistici.

La mia teoria sulle ragioni della forza del fondamentalismo islamico è la seguente: il contesto moderno ha sconvolto il ritmo di questa oscillazione, e ha fatto scivolare definitivamente e permanentemente il centro di gravità lontano dal modello durkheimiano, organizzativo, gerarchico e pluralistico, avvicinandolo a quello dell’alto islam. Ovviamente ciò è avvenuto perché il processo di modernizzazione – la centralizzazione economica e politica innescata dagli stati coloniali e postcoloniali – ha distrutto quelle comunità che costituivano la base della versione bassa di islam.

Trasformando i membri di clan, tribù, villaggi in lavoratori emigranti costretti a vivere nelle baraccopoli, il processo di modernizzazione ha atomizzato la popolazione e l’ha spinta a cercare la propria identità in una religione alta, che ne fornisce una condivisa da tutti i musulmani, unendoli contro gli stranieri.

In passato non esisteva un’identità nazionale nei paesi musulmani. Quasi tutti gli individui erano, prima di ogni altra cosa, membri di una comunità sotto la guida di un’autorità locale. Le nazioni musulmane moderne, e specialmente le ex colonie, sono semplicemente la somma dei musulmani presenti in un dato territorio. E questo significa che l’islam ha fornito loro l’identificazione contro l’altro. Non solo, esso ha ratificato il passaggio da un mondo rurale a uno urbano, e ha indicato la cifra del cambiamento di status: da quello di contadini ignoranti a quello di gente che aspira ai lussi della città; allo stesso tempo, ha fornito il mezzo per criticare chi li governa. Ha fornito anche una lingua a tutti coloro che, non essendo occidentalizzati, prendono sul serio la loro appartenenza all’islam contro i tecnocrati che detengono il potere grazie all’accesso alla tecnologia occidentale. Io credo che dobbiamo interpretare l’ondata di fondamentalismo islamico come la reazione dei musulmani appena urbanizzati, disorientati, strappati ai loro culti sacri e alle loro strutture locali, che hanno bisogno di definire se stessi in opposizione a una classe alta semi-occidentalizzata e sfruttatrice.

Nazionalismo: il legame tra cultura e Stato

A mio parere, l’emergere del nazionalismo in Europa non dovrebbe essere inteso secondo l’immagine che esso ha di se stesso. Esiste un rapporto inversamente proporzionale tra questa immagine e ciò che il nazionalismo è in realtà. Il nazionalismo è un fenomeno della Gesellschaft (“società”) che parla la lingua della Gemeinschaft (“comunità”). È il sottoprodotto di una situazione nuova, non dissimile da quella che ho descritto riguardo all’islam. Il ruolo principale della cultura in una società agricola è quello di sottolineare, di esprimere la condizione degli individui e dunque di proiettarli in una struttura globale stabile – cioè in una società estremamente gerarchica. L’identità degli individui è strettamente legata alla loro posizione nella società. La cultura rafforza tale posizione e la rende manifesta, limitando quindi i contrasti e contribuendo a far sì che i membri della società riescano a interiorizzarla e ad accettarla come parte integrante della condizione umana. La società stabile e gerarchica è stata sostituita dagli attori dell’industrializzazione, scienza e tecnologia incluse, con un’altra società mobile e anonima, priva di una gerarchia riconosciuta, nella quale il lavoro non è più fisico ma semantico (cioè il lavoro è comunicazione) e perciò culturalmente omogeneo. Nelle società avanzate non c’è più la divisione tra cultura alta e cultura bassa; piuttosto, la cultura alta è la cultura dell’intera società.

Non parlo di cultura “alta” in senso qualitativo, ma di cultura legata alla scrittura e trasmessa da un’istruzione convenzionale – non più dalla madre, quindi. Dev’essere diffusa il più possibile per permettere agli individui di comunicare a prescindere dalla singola situazione, perché il loro lavoro consiste nel comunicare con persone che non conoscono e che generalmente non vedono nemmeno. Il messaggio deve dunque veicolare il suo significato indipendentemente dal contesto. Per la prima volta nella storia, l’istruzione convenzionale permea l’intera società invece di essere privilegio di una ristretta cerchia specializzata di eruditi, talmudisti, burocrati o giuristi. È una situazione unica. La partecipazione sociale e l’effettiva cittadinanza culturale, economica e politica diventano perciò il presupposto per la gestione della cultura alta di cui abbiamo detto. Perpetuarla è molto costoso per lo Stato che deve farsene carico, o che, quanto meno, deve proteggerla. Tutto ciò conduce a quel legame tra cultura e Stato che è l’essenza del nazionalismo. È così che esso si impone all’uomo moderno. (Io rifiuto categoricamente la teoria convenzionale sul nazionalismo, che afferma che esso è l’espressione di qualcosa di intrinseco alla psiche e alla società umana). Il nazionalismo è sì intrinseco alle condizioni della vita industriale moderna, ma non è intrinseco a tutte le società. Certo, i nazionalisti sono convinti che il nazionalismo – che, secondo loro, sarà sempre e comunque presente – in passato fosse, per qualche strano motivo, “addormentato”, e che avesse bisogno di essere risvegliato per svolgere efficacemente la sua funzione politica (in Europa centrale e orientale questa convinzione si manifesta nella “teoria del risveglio”: Deutschland erwache! Germania, svegliati!). La verità è un’altra: il nazionalismo non poteva essere risvegliato perché non esisteva. È stato creato dalle condizioni moderne.

Perché il passaggio dalle comunità locali, con la loro espressione gerarchica del sacro, alle società mobili, anonime e semanticamente standardizzate, si traduce in nazionalismo in Europa e in fondamentalismo nel mondo islamico? Non saprei dire. La storia del nazionalismo in Europa è, naturalmente, legata al protestantesimo. Sembra che le due cose siano allineate. George Bernard Shaw, nella sua prefazione a Santa Giovanna, coglie perfettamente il problema quando dice che gli inglesi bruciarono Giovanna d’Arco in quanto nazionalista, la Chiesa la condannò in quanto protestante, mentre lei era entrambe le cose. Il legame tra i movimenti protestanti, o proto-protestanti, e la coscienza nazionale era particolarmente manifesto nel movimento hussita della Boemia del XV secolo. Ma nel suo progressivo affermarsi, il nazionalismo si separava dalla religione, o la usava per meri scopi opportunistici. I polacchi usavano il cattolicesimo perché i loro nemici e vicini non erano cattolici: essere cattolico significava quindi essere polacco; e, naturalmente, questo stesso principio sarebbe diventato successivamente il fondamento dell’opposizione esemplare al regime comunista. Col passare del tempo, nazionalismo e dottrina religiosa si sono separati.

Nel mondo islamico non è andata così. Per un periodo non è stato chiaro se sarebbe prevalso il fondamentalismo o il nazionalismo arabo, e quale dei due fosse al servizio dell’altro. Ma oggi è assolutamente evidente che il fondamentalismo è molto più forte del nazionalismo. Non capisco come mai il legame tra una cultura alta, individualistica e universalizzata, e la dottrina che l’ha ispirata debba conservarsi nell’islam e spezzarsi in Europa. Forse si tratta semplicemente di una congiuntura storica. La mia analisi dei due movimenti è analoga, ma non saprei spiegare perché le forme che essi hanno assunto nelle loro rispettive società siano tanto diverse.

Il marxismo e l’ideale messianico

Quale spiegazione dare dell’altro evento straordinario del Novecento, cioè il crollo del comunismo, che intere schiere di studiosi dell’Unione Sovietica non erano state in grado di prevedere?

Tentiamo una risposta. Ci sono gli ex comunisti, ma nessuno di loro è attaccato all’ideologia. Piuttosto, sono attaccati alla continuità e ai privilegi, ma non alla dottrina. Perché? Ecco la mia teoria: ciò che ha distrutto il marxismo non è il laicismo, ma, al contrario, il panteismo che esso aveva ereditato da Spinoza attraverso Hegel. L’ideale messianico alla base del marxismo – che esercitava una particolare influenza sull’anima russa – era quello di abolire la separazione tra sacro e profano nella vita umana. L’idea che il mondo fosse destinato a essere miserabile e che la realizzazione umana fosse da cercare in un altro regno era solo il riflesso di una società divisa. Il futuro stava nella compiuta realizzazione nel mondo terreno.

È quasi un luogo comune sostenere che l’uomo non possa vivere senza religione. Io dico, invece, che non può vivere senza il profano. Il fallimento del marxismo nel mantenere la presa sul cuore e sulla mente degli uomini, anche se soggetti sistematicamente alla sua propaganda monopolistica, è dovuto alla sua abolizione del profano. La cosa singolare è che sembra che la fede marxista non sia stata distrutta dai massacri del periodo staliniano, ma piuttosto dal periodo successivo di stagnazione, relativamente tranquillo e, tutto sommato, accettabile. Basta leggere le memorie di Andrej Sacharov, ottima testimonianza del mondo sovietico. Sacharov era un uomo profondamente intelligente, che disprezzava la maggior parte delle singole tesi del marxismo. Nondimeno, come scrive nelle sue memorie, ne condivideva la visione globale che implicava la trasformazione radicale della condizione umana; e se tale trasformazione esigeva che fosse pagato un prezzo – assassinio di massa, soppressione della libertà, sfruttamento di manodopera schiavizzata – ciò era spiacevole ma necessario. Non ci si può aspettare un cambiamento radicale della condizione umana senza che scorra un po’ di sangue.

Lo squallore e la miseria del periodo di stagnazione di Breznev, quando i compagni comunisti smisero di uccidere e si dedicarono attivamente alla corruzione, hanno di fatto portato a un’erosione definitiva della fede, tanto che, quando Gorbacev l’ha denunciata, questi si sono improvvisamente resi conto che la loro ideologia non era altro che una favola.

Secondo me, la differenza tra l’ascesa dell’islam e il fallimento del marxismo è che quest’ultimo era unitario, panteistico e teso alla realizzazione assoluta in questo mondo. Il marxismo sacralizzava il mondo reale e disdegnava l’antica abitudine di cercare consolazione nel divino. Ciò corrisponde all’essenza stessa della personalità di Marx, che era un borghese per antonomasia. La sua visione del mondo era una generalizzazione della visione borghese che ravvisava l’essenza dell’uomo nel lavoro – non nell’aggressività, non nella virilità, non nello status. La realizzazione individuale sta nel lavoro e il lavoro è la ricompensa. I borghesi lavorano non soltanto perché sono pagati. Questo li distingue dagli aristocratici o dagli operai – l’aristocratico non lavora affatto e l’operaio lavora per il suo salario. La borghesia ha sempre sperato in un mondo in cui, ai governi ipocriti o criminali, rossi o neri, si sostituissero governi fatti di persone piene di voglia di lavorare.

E, dunque, Marx ha semplicemente ribadito ciò che i borghesi avevano sempre sperato. Il vero segreto della storia è la trasformazione dei rapporti di lavoro. Il rapporto tra gli uomini e i loro strumenti di produzione è ciò che determina gli eventi. La violenza è solo un’ancella del cambiamento radicale. Il marxismo è una fantasia borghese: il lavoro è l’essenza dell’uomo, i rapporti di lavoro determinano la storia, nel lavoro sta la realizzazione.

L’islam ha i suoi meriti. Si concilia con il mondo moderno per il suo rifiuto, purista e unitario, del magico. Allo stesso tempo regola la vita. E, comunque, non ha mai sostenuto che il lavoro sia sacro. Nelle fasi storiche di minore fanatismo, i musulmani si dedicano agli affari, senza pensare che siano sacri. E se gli affari non sono tutto, che cosa importa? Nessuno ha mai detto che lo fossero.

Per ora, le società che hanno avuto maggior successo sono quelle plurali e liberali, quelle che definisco “le profane alleanze dei consumisti miscredenti”. Approvo le società che si strutturano in nome del consumo, dell’aspettativa condivisa di prosperità, e che privatizzano le nozioni di salvezza e di virtù. L’essenza del marxismo era contrapporre una risposta laica al precedente assolutismo teologico, alla salvezza totale – cioè a un ordine sociale che intendeva essere la realizzazione di una morale assoluta. Le società plurali si astengono da questo; vivono in una sorta di ambiguo cono d’ombra, in cui prevale il compromesso tra fedi ereditate – che non vengono più prese sul serio – e considerazioni pragmatiche e consumistiche più o meno diffuse ma prive di qualsiasi ascendente ancestrale. Una società del genere potrà mantenersi, potrà sopravvivere alla saturazione del consumismo? Non saprei dire.

 

Published 6 November 2006
Original in English
Translated by Giulia Tiradritti
First published by Internationale Zeitschrift für Philosophie 1/1996 (English version) and Lettera Internazionale 86 (2006) (Italian version)

Contributed by Lettera Internazionale © Internationale Zeitschrift für Philosophie / Lettera internazionale / Eurozine

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