Le radici del declino economico italiano

A tutti gli osservatori attenti è noto che la difficile condizione
economica e sociale dell’Italia
non dipende, come una vulgata
autoassolutoria tende a sostenere,
solo dalle recenti crisi degli equilibri
finanziari internazionali. È
almeno dalla metà degli anni Novanta
che l’economia italiana ha
smesso di crescere: ma perché,
dopo circa quarant’anni di crescita
superiore alla media europea,
siamo entrati in un declino lento
e apparentemente inesorabile?
Questa domanda è tanto più rilevante
se si osserva che le riforme
approvate a partire dall’inizio
degli anni Novanta hanno toccato
praticamente tutti i settori, nel sostanziale
accordo bi-partisan: dal
1994 al 2008 si sono succedute
cinque alternanze di governo tra
centrodestra e centrosinistra, ma
nessun caso di profonda revisione
legislativa in campo economico.

Le riforme del mercato del
lavoro, del sistema bancario, del
diritto societario, della previdenza
sociale, le privatizzazioni sono
state confermate dai successivi
governi, al netto di piccoli interventi
per soddisfare marginali ragioni
elettorali.

La quantità e l’estensione di questi
cambiamenti – spesso salutati
positivamente – sono tali da lasciare
sconcertati se si pensa che
il risultato finale e quello dell’Italia
attuale: un Paese in cui nessun
indicatore economico e migliorato
e in cui i cittadini hanno la percezione
di un’inerzia invincibile.

A ciò va aggiunto che le ragioni
addotte più frequentemente per
spiegare il declino, anche se individuano
fattori reali di criticità,
non sembrano sufficienti.
È insufficiente focalizzarsi sul
Mezzogiorno e sul suo ritardo di
sviluppo. Infatti, negli anni del
declino, il Sud è cresciuto più del
Nord. Allo stesso modo, le rendite
monopolistiche, pur presenti
in dimensione eccessiva, non
sembrano in grado di spiegare la
stagnazione economica. Gli indicatori
sono concordi e mostrano
– dagli anni Novanta a oggi
– un indebolimento dei sindacati,
l’aumento della concorrenza nei
mercati e l’aumento del pluralismo
politico: dunque i poteri di
interdizione monopolista si sono
affievoliti – e non accresciuti – rispetto
al passato.

L’alibi più diffuso per chi non voglia guardare alle ragioni endogene
del declino italiano punta il
dito contro la globalizzazione. È
un argomento che si divide a sua
volta in due: alcuni sostengono
l’impossibilita di adattarsi a una
competizione “truccata” con Paesi
in via di sviluppo dal costo del
lavoro troppo basso. Altri sottolineano
l’incapacità del nostro Paese
di adottare riforme (di stampo
puramente liberista) che lo mettano
al passo con le economie più
moderne. Eppure, l’Italia della
Prima Repubblica – in particolare
negli anni Settanta e Ottanta – è stata capace
di svilupparsi proprio approfittando
di successive ondate di apertura agli
scambi internazionali. Inoltre, il
costo del lavoro nei distretti era
strutturalmente più alto che in
paragonabili realtà produttive. In
altre parole, la fonte della nostra
competitività era l’innovazione,
non i costi vantaggiosi, innovazione
la cui crisi è la causa “algebrica” più prossima del recente
declino.

Infine: molte delle riforme approvate
negli anni Novanta – dal
mercato del lavoro al diritto societario
alla ristrutturazione bancaria
– sono state market friendly.
È possibile che siano state insufficienti,
ma, data la loro ampiezza
e la chiara direzione nel senso di
una maggiore apertura dei mercati
alla concorrenza, ritenere che
tale insufficienza abbia causato
addirittura un declino economico
richiede l’individuazione di parametri
di confronto che non esistono.
Piuttosto che cercare nelle
mancate riforme la causa del declino,
e dunque interessante capire
perché, nonostante le riforme,
esso si sia comunque manifestato.
La versione sintetica della mia tesi
che ho esposto più diffusamente
in volume (Senza Alibi. Perché
il capitalismo italiano non cresce
più
, Marsilio, 2012) e che il
declino economico italiano sia il
frutto dell’assenza di una visione
politica compiuta da parte degli
schieramenti che si sono contesi
e hanno detenuto il potere in Italia
dai primi anni Novanta a oggi.
L’assenza di una visione chiara,
traducibile in un insieme coerente
di politiche pubbliche, ha portato
i governi che si sono succeduti
ad approcciare il tema delle
riforme economiche in maniera
frammentaria. Nei diversi ambiti i
cambiamenti sono stati negoziati
e discussi solo con le categorie
che erano direttamente interessate.
Questo approccio negoziale
e parziale ha avuto due conseguenze
negative: innanzitutto ha
fatto trascurare gli effetti che tali
riforme avrebbero avuto sugli altri
settori; in secondo luogo, ha
impedito di riflettere sull’effetto
complessivo delle riforme, sulle
loro interazioni.

In assenza di una visione politica
organica le negoziazioni erano
basate su modelli astratti, spesso
importati dall’estero, adattati al
fine di generare il minor dissenso
possibile. Ma avere come bussola
l’interesse dei singoli gruppi, anziché
la coerenza tra le diverse
riforme, ha generato un insieme
incoerente di interazioni tra le varie
“sfere istituzionali” economicosociali,
ossia tra le diverse istituzioni,
regole formali e prassi che
caratterizzano il nostro modello
di capitalismo.

L’incoerenza nelle misure adottate
ha generato un modello di capitalismo
ibrido, dunque lontano
sia dal modello liberale – di stampo
anglosassone – sia da quello
coordinato – di stampo tedesco.
Di fronte alla scelta se seguire un
modello liberale o uno coordinato,
l’Italia ha continuato a voltarsi
prima da una parte e poi dall’altra,
senza darsi un piano e soprattutto
senza chiedersi se non
valesse la pena piuttosto considerare
la realtà della propria economia
come base fondamentale per
far evolvere in modo coerente e
costruttivo le proprie istituzioni.

Questa tesi si basa su un approccio
teorico (introdotto da Peter
Hall e David Soskice in un volume
del 2001, Varieties of Capitalism,
Oxford University Press, e testato
empiricamente da Peter Hall
e Daniel Gingerich in un saggio
del 2009 pubblicato sul “British
Journal of Political Science”) che
sostiene che il successo o l’insuccesso
di un modello di capitalismo
non dipenda solamente dalla bontà delle singole istituzioni o
dal funzionamento dei meccanismi
operanti negli ambiti cruciali
del lavoro e del capitale. Di altrettanta
importanza e la coerenza
nella logica di funzionamento
dei diversi istituti, che non possono
essere considerati come un
insieme di norme slegate tra loro,
ma formano un set complessivo: interazioni ottimali danno luogo a sinergie positive e formano cil che si chiama un “vantaggio istituzionale comparato”.

Seguendo il proprio vantaggio
istituzionale, i Paesi si sviluppano
in modo diverso, inventano prodotti
o processi diversi a seconda
della loro dote di istituzioni. Se
tuttavia si combinano regole che
hanno logiche diverse o opposte,
i risultati positivi non si vedranno
perché il sistema economico sarà privo di
una logica dominante sulla
base della quale
gli attori possano
prendere decisioni e l’economia
possa trovare la propria
specializzazione innovativa. Questa
e, infatti, la storia economica
recente dell’Italia, che a seguito
di riforme incoerenti ha perduto
molto della specializzazione che
aveva raggiunto negli anni Ottanta
e ha pertanto visto precipitare
la propria capacità di innovazione,
e dunque di crescita.

Si obietterà che, dal punto di
vista del disegno istituzionale
complessivo, l’Italia è sempre stata
un Paese ibrido rispetto alle
economie coordinate del Centro
e Nord Europa e alle economie
liberali anglosassoni. Tuttavia,
fino all’inizio degli anni Novanta,
i potenziali problemi derivanti da
un disegno imperfetto avevano
trovato adeguate soluzioni.
Nel primo dopoguerra è stata
fondamentale l’azione dell’Iri
come “supplente” di coordinamento
strategico. In assenza di
una rete istituzionale coerente,
una generazione di manager e
imprenditori che ruotava attorno
al sistema delle partecipazioni
statali fu garante di accordi formali
e informali che sostennero
l’industrializzazione con strategie
di lungo periodo. Una volta entrato
in crisi quel sistema – già
alla fine degli anni Sessanta incompetenza
e clientelismo stavano
segnando la sorte della nostra
grande industria – il luogo dello
sviluppo si spostò nei distretti industriali,
anch’essi esempi sui generis
di coordinamento strategico
di lungo periodo.

Dal 42% di inizio anni Settanta,
all’inizio degli anni Novanta quasi
il 60% della forza lavoro nel settore
manifatturiero era impiegato
nei distretti: grappoli di piccole
imprese operanti in un territorio
circoscritto che si concentravano
su una singola classe di prodotti.
Le diverse istituzioni del territorio
contribuirono al loro successo.
Questo modello di capitalismo basato
su un coordinamento strategico
organizzato in forme diverse
rispetto ai Paesi del Nord Europa
venne profondamente riformato
a partire dall’inizio degli anni
Novanta. Erano cambiati gli equilibri
internazionali, avanzava la
globalizzazione ed erano dunque
necessarie riforme adeguate. Tuttavia,
in assenza di un disegno
organico, le riforme fecero rapidamente
crollare i meccanismi di
un tempo, senza crearne di nuovi.
Per osservare il carattere erratico
e contraddittorio dei cambiamenti
intervenuti è sufficiente concentrarsi
sugli ambiti del lavoro e
del capitale, comprendendo nel
secondo gruppo il sistema finanziario
e le discipline societarie.
La stagione delle riforme economiche
cominciò con il sistema
bancario nel 1990, quando ancora
la Prima Repubblica sembrava
in buona salute. A seguito di una
stagione di fusioni e acquisizioni
favorite da ondate di privatizzazioni,
in un decennio appena
il numero di banche in Italia fu
dimezzato, passando da 44 a 27
istituti. La presenza straniera divenne
corposa, raggiungendo circa un terzo del totale, e con essa
il tasso di concorrenza, prima sostanzialmente
assente. La presenza pubblica passò infatti dal 70%
al 10% a seguito di ingentissime
privatizzazioni, arrivando a zero
se consideriamo solo le banche
quotate.

Questo processo da un lato irrobustì
il sistema bancario nello
scenario internazionale, dall’altro
diminuì drasticamente la capacità
dell’attore pubblico di intervenire
nelle decisioni di investimento.
Tuttavia l’intervento pubblico
non fu sostituito organicamente
da altre logiche, ma reso ancora
più discrezionale ed episodico.
Nel frattempo, le banche locali –
uno dei pilastri del sistema dei
distretti – vennero acquisite da
grandi multinazionali. Questo
ebbe l’effetto di asciugare rapidamente
la disponibilità di credito
per l’innovazione delle piccole e
medie imprese – proprio in un
momento in cui c’era particolare
bisogno di innovare per far fronte
alle mutate caratteristiche della
competizione globale.

Uno studio di Pietro Alessandrini
e altri, pubblicato nel “Journal of
Economic Geography” nel 2010,
ha infatti mostrato che l’aumento
della distanza tra il quartier generale
della banca – ossia il luogo
in cui si prendono le decisioni di
credito – e la sede delle aziende
che richiedono i finanziamenti fa
diminuire la provvigione di credito
per l’innovazione.

A rendere critico questo cambio
di paradigma – la scomparsa di
un sistema di credito locale basato
su reputazione e informazione
che, essendo fondato su
banche troppo piccole, rischiava
di collassare sotto la spinta della
concorrenza internazionale – è il
fatto che esso non fu sostituito da
una organica disciplina in senso
liberale.

La prima riforma contraddittoria
consentì alle banche, a partire dal
1993, di partecipare direttamente
al capitale di aziende non finanziarie,
sul modello del capitalismo
tedesco. Una riforma dunque che
avrebbe portato a sostenere decisioni
di credito basate sulla
reputazione e sull’informazione
privilegiata, e che avrebbe dovuto
favorire proprio quelle logiche
strategiche di lungo periodo che,
nello stesso tempo, si stavano abbandonando
a livello locale.

Ad approfondire questa schizofrenia
riformatrice intervenirono
due riforme del diritto societario,
una relativa alle imprese quotate
e una a tutte le società private. A
motivare la prima, che seguì
esplicitamente il modello anglosassone
mentre si seguiva quello
tedesco per le banche, era la volontà di favorire
la mobilità e la dispersione
del controllo delle imprese, e con
esse aumentarne la dimensione
media. A questo fine si rafforzarono
notevolmente i diritti degli
azionisti di minoranza portandoli
dal livello tedesco a quello inglese
(o americano), facilitando dunque
le acquisizioni ostili che
avrebbero dovuto aumentare il
controllo di mercato sull’operato
dei manager. Eppure, la presenza
delle banche nelle società avrebbe
avuto il senso di lasciare in
capo agli istituti finanziari l’onere
di tale controllo, in una condizione di “immunità”, per così dire,
dalle fluttuazioni di mercato.

La ciliegina sulla torta di queste
riforme contraddittorie è la riforma
del diritto societario del 2003.
Essa diede a ogni azienda la facoltà
di scegliere il proprio modello
di governance da un bouquet che
comprendeva il modello italiano
tradizionale, il modello anglosassone
e il modello tedesco. Il legislatore
italiano, in altre parole, ha
scelto di non scegliere tra diversi
schemi istituzionali, come se tale
scelta non fosse cruciale per costruire
interazioni positive con le
altre istituzioni economiche.

L’insieme di queste riforme
nell’ambito del capitale doveva
avere l’effetto di sbloccare un
capitalismo che appariva troppo
ingessato e non in grado di
fronteggiare l’epoca della globalizzazione
dei mercati. Il loro
effetto complessivo è – al contrario
– riassunto
bene dal titolo
di un saggio del 2007 di Pepper
Culpepper pubblicato su “West
European Politics”: Eppur non
si muove
. Come
vent’anni fa, l’Italia
ha una dimensione
media delle imprese molto al di sotto di
quella europea. Allo stesso tempo,
“l’Italia era nel 1995, e rimane
nel 2007, un sistema nel quale
un numero ristretto di azionisti
continua a esercitare il controllo
sulla maggior parte delle imprese
quotate in borsa”. La combinazione di istituti diversi ha generato
incentivi perversi in capo agli attori.
Il legittimo perseguimento
dell’interesse personale non concorre
più a consolidare l’interesse
collettivo, al contrario di quanto
accade in un sistema capitalista
funzionante.

Il mercato del lavoro ha conosciuto
tre principali ondate di riforme.
La prima durante i governi
tecnici del 1992-93, la seconda
durante il governo dell’Ulivo dal 1998 al 2000, la terza durante il
governo di centrodestra nel 2002.
Tutte hanno toccato i settori fondamentali:
contrattazione collettiva,
regole dei contratti di lavoro,
flessibilità.

In maniera simile a quanto visto
per il mercato dei capitali, i cambiamenti
hanno per alcuni aspetti
aumentato il livello di coordinamento
– in particolare modo nella
contrattazione collettiva dei salari
– e per altri l’hanno completamente
azzerato – con la flessibilità totale dei contratti precari – con l’effetto di spaccare il mercato del lavoro come una mela.

Oggi qualsiasi media e simile a quella
di Trilussa, secondo cui se una
persona ha mangiato due polli
e una nessuno, in media hanno
mangiato un pollo a testa: una
sintesi incapace di descrivere una
realtà troppo eterogenea.

A inizio anni Novanta l’aumento
del coordinamento salariale nei
contratti collettivi ebbe l’effetto di
ridurre il costo del lavoro, e sostenere la svalutazione della lira.
Alla fine del decennio, regole di
assunzione facilitate hanno fatto
diminuire il numero di disoccupati
e dunque sono state salutate
positivamente e ulteriormente
flessibilizzate nel 2002.

Tuttavia, nel medio periodo, la
combinazione tra accresciuto
coordinamento e accresciuta flessibilità
ha avuto l’effetto di diminuire
la produttività del lavoro,
indebolendo la crescita. Il passaggio
chiave è proprio nell’incoerenza
e dunque parzialità delle
riforme: la flessibilità ha riguardato
solo una parte del mondo del
lavoro, mentre il lavoro “tipico”
conosceva un aumento del coordinamento
contrattuale; anche
a conseguenza di ciò, al mondo
del lavoro flessibile sono mancati
i complementi necessari, ossia le
misure di protezione e promozione
delle competenze (formazione
professionale) e quelle di protezione
del reddito (ammortizzatori
sociali).

Un mercato del lavoro flessibile
ha bisogno di un sussidio di disoccupazione
non solo per ragioni
legate alla tutela delle necessità
individuali, ma anche per ragioni
di efficienza.

Infatti, la protezione
del reddito consente al lavoratore
d’investire tempo e risorse in formazione,
sapendo che, in caso di
disoccupazione, avrà tempo a sufficienza
per trovare un lavoro simile
perché coperto dal sussidio. Un terzo dei lavoratori italiani e assunto oggi con contratti a termine di varia natura.
A uno stipendio
più basso e a costi per
l’azienda più contenuti, si aggiungono
l’assenza di qualsiasi
tutela contro i licenziamenti, anche
i più odiosi, e l’assenza di
tutela del reddito. La flessibilità
ha generato dunque una forte
mobilità che riguarda però solo
una parte dei dipendenti, quelli
più giovani; dunque l’incentivo
per l’azienda e per il lavoratore a
investire nelle competenze è stato
drasticamente ridotto. Inoltre,
esso non e sostituito da un incentivo
orientato alla massimizzazione
dei risultati di breve periodo
– tipico delle economie flessibili
– perché, come abbiamo visto, la
proprietà delle aziende, in Italia,
rimane molto concentrata e sostanzialmente
schermata dal controllo
di mercato.

Questa è la ragione per cui la
flessibilità in Italia – a differenza
della quasi totalità dei Paesi europei
in cui è stata introdotta – è
diventata sinonimo di precarietà:
la situazione di fragilità contrattuale
dei lavoratori flessibili convive
da un lato con colleghi dal
contratto stabile e dal reddito
protetto in caso di licenziamento,
e dall’altro con una struttura proprietaria
rigida, in un contesto
poco competitivo. In assenza di
potere negoziale, i lavoratori flessibili
non possono far altro che
accettare le proposte dei datori di
lavoro ed essere i primi a soccombere
in caso di ristrutturazioni.

A detrimento dell’economia è
il fatto che in nessuna di queste
fasi – assunzione, lavoro, licenziamento
– considerazioni di crescita
e produttività aziendale trovino
spazio tra le priorità per i
destini individuali e collettivi. Per
queste ragioni il dualismo del
mercato del lavoro ha avuto effetti
negativi sulla produttività.
In questo contesto, se tutto ciò
non bastasse, i lavoratori più giovani
ricevono segnali contraddittori:
e bene formarsi in un settore
specifico, sperando
di trovare uno dei pochissimi
posti a tempo indeterminato,
o iscriversi all’università e
sviluppare competenze generali
adattabili a diversi contesti in un
quadro di flessibilità? Il sistema
italiano, al momento, non fornisce
una risposta. Questo, purtroppo,
contribuisce a spiegare perché l’Italia è tra i Paesi europei
con il più alto tasso di giovani
che né studiano, né stanno sul
mercato del lavoro (i cosiddetti
Neet): un talento che stiamo lasciando
andare alla deriva.

Una delle caratteristiche più evidenti
del dibattito politico economico
degli ultimi anni è l’assenza
di un compromesso tra capitale
e lavoro in grado di regolarne i
naturali conflitti. Nonostante i
confini di queste due categorie
siano profondamente mutati nel
corso degli ultimi trent’anni e non
rispecchino più le dicotomie novecentesche, esse continuano ad
avere forza descrittiva perché il
conflitto distributivo non è certo
scomparso. Tuttavia la caratteristica
dell’Italia uscita dalle riforme
degli anni Novanta è che tale
conflitto non trova forme salutari
in cui esprimersi. Questa è la conseguenza
più chiara, dal punto di
vista politico, della ibridizzazione
del nostro modello di capitalismo.
Dal punto di vista economico, invece,
la conseguenza principale è
stata il collasso della capacità di
innovazione, che ha portato giù
con sé produttività e quindi crescita.
L’assenza di un compromesso
salutare è evidente dal paragone
tra il caso Fiat e quello dei lavoratori
precari. Nel primo caso, le
diatribe si sviluppano con toni
e contenuti etico-morali anziché
economici, un dibattito che
non consente prese di posizione
che non siano totalizzanti e che
pertanto non è in grado di prefigurare
soluzioni condivise, ma
solo altri scontri. Al contrario, nel
mondo del lavoro precario il conflitto
è completamente assente,
per la debolezza e l’isolamento di
cui soffrono i lavoratori con contratto
flessibile.

Questa sproporzione tra un conflitto
così acceso da non consentire
dialogo e l’assenza di conflitto
è una patologia dell’economia
italiana, frutto di numerose riforme
che non hanno costituito un
quadro condiviso uguale per tutti,
ma hanno frantumato il mondo
del lavoro e con esso un ambito
di compromesso condiviso nel
quale si possa esprimere il conflitto
in maniera utile per le parti,
senza traumi ma anche senza
sconti.

Dal punto di vista strettamente
economico, l’effetto diretto più
chiaro è da riscontrarsi nel collasso
della capacità di innovazione
dell’economia italiana. Un paragone
tra i principali Paesi avanzati
mostra una correlazione stabile
tra livello di specializzazione
innovativa e livello complessivo
di innovazione. In altre parole,
durante il periodo della globalizzazione
– dunque in presenza di
scambi commerciali crescenti – la
capacità di aumentare la quantità
totale di innovazione prodotta
in ogni Paese sembra dipendere
dall’aumento della specializzazione.
Il tipo di specializzazione innovativa
a sua volta dipende dal
modello di capitalismo.

In Italia, l’ibridizzazione del modello
ha avuto la conseguenza
di impedire la specializzazione e
quindi di far diminuire la capacità
di innovazione. Quest’ultimo fenomeno
ha poi, inevitabilmente,
condotto alla stagnazione economica.
La capacità di un Paese di riformare
la propria economia avendo
come bussola la propria realtà
produttiva e sforzandosi di far
lavorare in maniera armonica le
diverse componenti del proprio
modello di capitalismo e dunque
la chiave per svilupparsi e crescere.
Si sente spesso dire che l’Italia
e, di per sé, un marchio che
permette di esportare all’estero
i propri prodotti.

Questa verità,purtroppo, e un altro alibi che
finisce per far passare sotto silenzio
l’enorme sforzo d’innovazione
che e stato necessario compiere
nelle aziende che, nonostante
tutto, continuano a mietere successi,
pur in presenza di un quadro
istituzionale così distorto.
Anche in settori tradizionali, come
l’alimentare o il tessile, la tenuta
del Made in Italy e dipesa proprio
dalla capacità di aggirare limiti
strutturali e continuare imperterriti
a innovare in tutti gli ambiti:
i prodotti, le tecniche di management,
i mercati di riferimento,
i processi di produzione, e così
via. Sarebbe ora che questi sforzi
venissero compresi meglio e che
riforme economiche puntassero
a rendere l’innovazione possibile
ovunque, non solo nei casi in
cui tenacia e capacità imprenditoriale
riescono a supplire ai limiti
strutturali che noi stessi ci siamo
costruiti.

Published 8 May 2013
Original in Italian
First published by Il Mulino 2/2013

Contributed by Il Mulino © Marco Simoni / Il Mulino / Eurozine

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