Le donne italiane e il mercato del lavoro

Il nostro non è mai stato un Paese facile, per le donne. E sfortunata­mente, la pandemia ha peggiorato le cose, intervenendo su un contesto che è sempre stato strutturalmente complesso. Perché? 

In parte, lo dobbiamo alla divisione per genere dei ruoli sia all’interno della famiglia che sul mercato del lavoro, in quanto riproduce una visione patriarcale del contributo che donne e uomini possono dare in ciascuno degli ambiti. Così, alle donne spetta il lavoro di cura non retribuito che si svolge nell’ambito domestico, agli uomini il lavoro retribuito che si svolge fuori casa. I dati della International Labour Organization parlano chiaro: in Italia (ahinoi, in linea con la media mondiale), il lavoro di cura non retribuito, che consiste in attività quali l’accudimento dei figli e degli anziani o la gestione della casa, pesa per il 75% del totale sulle spalle delle donne.

Ma una parte fondamentale della fatica che le donne sperimentano nel nostro Paese è determinata anche dal contesto normativo e istituziona­le. Pensiamo, ad esempio, alla genitorialità. In base alla normativa attuale, il congedo di paternità obbligatorio è fermo a 10 giorni (anzi, fino a pochi anni fa al padre venivano riconosciuti solo 7 giorni). Quello di maternità obbliga­toria, invece, ha durata di 5 mesi. Si dirà che la donna porta avanti la gestazione ed è indispensabile protagonista del parto. Si dirà che, nei mesi succes­sivi al parto, si occupa dell’allattamento. Ma anche qui: non tutte le donne allattano esclusivamente al seno e, anche se fosse, non c’è nemmeno un mo­tivo per cui la nascita di un figlio debba essere un evento in cui le donne ven­gono lasciate da sole (per non parlare dei primi mesi di vita del bambino, nei quali la presenza di un’altra persona in casa – peraltro, il padre – può davve­ro fare la differenza nello stato di serenità del nucleo famigliare). Quello dei congedi può magari sembrare un fattore secondario, ma non lo è.

Perché impatta sul mercato del lavoro e sulle modalità in cui alle don­ne, nel nostro Paese, è concesso di parteciparvi nei tre nodi fondamentali: l’accesso, la permanenza e la progressione.

In Italia, il tasso di occupazione femminile nel 2020 è pari al 49% (la media europea è al 63%). Detto in altri termini, lavora meno di una donna su due, con enormi disparità territoriali. Secondo il Rapporto sul Sud Ita­lia e il Piano nazionale di ripresa e resilienza del Centro studi di Confcom­mercio, mentre il tasso di occupazione delle donne nella fascia 15­64 anni al Sud è il 33%, la media del Nord Italia si aggira intorno al 60%. Rispetto al tasso di occupazione degli uomini, il differenziale è di ben 18 punti percentuali (in Unione europea, la media è del 10%, quasi la metà). La pandemia ha col­pito l’occupazione delle donne in una maniera così violenta da far parlare di she-cession, ovvero di una recessione quasi totalmente al femminile. Due dati su tutti: nel mese di dicembre 2020, a uscire dal mercato del lavoro sono 101 mila persone. Di queste, 99 mila sono donne. Ancora: le donne occupate sono passate da 9 milioni e 869 mila nel 2019 a 9 milioni e 516 mila a fine del 2020. Quindi, durante la pandemia, in un solo anno, abbiamo perso 421 mila don­ne occupate (e l’Italia è diventata ultima per occupazione femminile in Unio­ne europea, lontana anche da Grecia e Romania che la precedono). Però, for­se così è ancora più chiaro: nel 2020, i posti complessivi di lavoro persi sono stati 440 mila, il 98% di questo dato è rappresentato da donne. 

Peraltro, stando al Gender Policies Report dell’Inapp, la ripresa occupazionale del 2021, che viene stimata sui dati Inps relativi ai nuovi contratti attivati nel primo semestre 2021, rivela profonde differenze di genere. Un esempio su tutti: tra coloro il cui contratto viene stabilizzato (e che quindi passano a tempo indeterminato) sono donne solo il 38% del totale.

Vale forse la pena di rammentare, a questo punto, che nel lontano 2000, la Strategia di Lisbona fissava come obiettivo da realizzare entro il 2010 un tasso di occupazione femminile pari al 60%. E siamo lontanissimi.

Già questi primi dati appaiono sufficienti per fotografare un divario profondissimo, ma anche una grave inefficienza del nostro sistema economico. Ad esempio, nel Mezzogiorno, il tasso di crescita del Pil è strutturalmente più basso rispetto al resto del Paese, così come lo è il tasso di occupazione femminile. Anzi, nel periodo compreso tra il 1995 e il 2020, il peso percentuale della ricchezza prodotta al Sud sul totale del Paese è passato dal 24 al 22%. Non è un caso. Il meccanismo è relativamente semplice: le donne non lavorano per­ché si prendono cura dei bambini (e non ci sono asili nido, come vedremo tra poco), le famiglie sono più povere, sul territorio si produce meno ricchezza.

Ma parliamo di inefficienza anche perché, stando ai dati del Rappor­to Almalaurea 2021, anche quest’anno si conferma che le ragazze si laurea­no prima e con una votazione media più elevata rispetto ai ragazzi (rispetti­vamente, 104 contro 102). Detto in altri termini, le donne rappresentano il principale capitale umano del nostro Paese, ma a livello sistemico non creia­mo le condizioni per valorizzarle perché preferiamo che rimangano a casa a prendersi cura della famiglia. In un Paese nel quale sulla narrazione (spes­so angelicata quanto irrealistica) della famiglia si costruiscono e si vincono le campagne elettorali, è importante sapere che è proprio la maternità a eser­citare l’impatto maggiore sulla permanenza delle donne nel mercato del la­voro. Stando ai dati presentati nel Bilancio di genere 2021, infatti, nel nostro Paese opera un meccanismo che in letteratura è noto come childhood penal- ty: una penalizzazione lavorativa e professionale delle donne nel momento in cui diventano madri. Il tasso di occupazione delle donne in età fertile, ovvero compresa tra i 25 e i 49 anni, ma che non hanno figli, è del 74%. Quello del­le donne che hanno un figlio di età inferiore ai 6 anni (per cui si prevedono attività di cura intensive, che ovviamente sono a carico della madre) scende drasticamente di 20 punti percentuali e si attesta al 54%. Se poi si è donna, in età fertile, con uno o più figli piccoli e si vive al Sud, il tasso di occupazio­ne scende ancora, arrivando al 35%. Di nuovo, centrale è il tema delle attivi­ tà di cura non retribuita. 

Secondo il Rapporto Bes 2021: il benessere equo e sostenibile in Italia redatto e pubblicato dall’Istat, nelle coppie di età compresa tra i 25 e i 44 anni, anche quando entrambi i partner lavorano, sono le donne a occuparsi prevalente­mente delle attività di cura, mentre gli uomini se ne fanno carico solo per il 37% del totale. E al Sud? Ancor meno: gli uomini si fanno carico del 30,1% di queste attività. 

Ovviamente è necessaria una rivoluzione culturale che porti gli uomi­ni di questo Paese a vedersi coprotagonisti di tutte le azioni e tutti gli impegni che ricadono nello spettro ampio della genitorialità. Ma senza dubbio poter usufruire di un servizio pubblico di asili nido potrebbe aiutare. Sfortunata­mente, anche qui i dati non sono incoraggianti. 

Già nel 2002, i target di Barcellona fissati dal Consiglio europeo prevedevano una copertura di posti in asili nido pari al 33% dei bambini aventi diritto, anche con l’obiettivo di sostenere la conciliazione della vita familiare con quella lavorativa e di promuovere una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Nel nostro Paese, nel 2019, solo il 27% dei bam­bini fino a 3 anni può beneficiare di un posto in asilo nido. Anche in questo caso, con enormi disparità territoriali: secondo Istat, mentre nel Nord del Paese si raggiunge in media il target del 33%, nel Mezzogiorno siamo bloccati al 14% (con il valore più basso pari all’11% che troviamo in Calabria).

Durante la pandemia, la condizione delle donne lavoratrici, tanto più se madri, si è ulteriormente aggravata: l’incertezza legata alla gestione dei figli e alla loro presenza a scuola, che poteva venir meno da un momento all’altro, hanno obbligato le famiglie a scegliere. E hanno scelto non neces­sariamente su presupposti maschilisti, ma su valutazioni di razionalità eco­nomica. Chi guadagna di più? Chi ha un posto più stabile? Chi ha più op­portunità di carriera? Nella maggior parte dei casi, il papà. E questo è parte del problema, perché quando le donne diventano madri perdono all’istan­te la qualifica di individuo che avevano sino a quel momento e si trasforma­no nell’essere mitologico della «Mamma». E la mamma, nel nostro Paese, è la principale (quando non l’esclusiva) fornitrice di cura.

La cura, quindi, è senza dubbio uno dei nodi fondamentali su cui fa perno la persistente diseguaglianza di genere nel nostro Paese e la struttu­rale sottorappresentazione del genere femminile sul mercato del lavoro che, come abbiamo detto, è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia e dalla crisi anche economica che ne è derivata.

Nel dettaglio, sugli effetti particolarmente aspri che questa crisi ha esercitato sulla forza lavoro femminile ha pesato anche la segregazione orizzontale, radicatissima nel nostro Paese. Quando parliamo di segregazione di genere, sul mercato del lavoro, usiamo distinguere tra segregazione verticale e segregazione orizzontale. La segregazione verticale è quella ormai ben più nota con l’espressione «soffitto di cristallo» e indica una serie di circostanze per le quali le donne non possono di fatto arrivare alle posizioni apicali (delle aziende, delle istituzioni, delle organizzazioni). Con segregazione orizzontale invece intendiamo la concentrazione settoriale di uomini e donne in ambiti che vengono socialmente ritenuti per loro adeguati o consoni (basti pensare che, nel nostro Paese, si fa ancora fatica a dire «ingegnera», ovvero a decli­nare alcune professioni al femminile, perché sono sempre state appannaggio del genere maschile).

Perché quindi la crisi pandemica ha colpito più duramente le donne? Perché in Italia oltre il 70% delle donne occupate è concentrato nel settore dei servizi, che la pandemia, per sua stessa natura, ha reso complicati, se non impossibili, da fornire. E quindi, la necessità di forza lavoro da parte delle imprese si è contratta. E le donne hanno fatto un passo indietro.

Il Report di Save The Children, intitolato Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2022, propone, tra gli altri spunti di grande interesse, i dati relati­vi alle dimissioni nel 2020, basandosi sulle evidenze raccolte dall’Ispettorato nazionale del lavoro. Non sorprendentemente, nel 2020 i provvedimenti di convalida delle dimissioni riguardano lavoratrici madri per il 77% del totale (nel 2019 erano il 73% dei casi). A rimarcare quanto sia la maternità il princi­pale fattore escludente delle donne italiane dal mercato del lavoro, i dati mo­strano che la situazione è particolarmente critica per quelle donne lavoratrici che sono madri di bambini di età compresa tra 0 e 3 anni: le dimissioni vo­lontarie nel 2020 riguardano per il 77% le madri e solo per il 23% i padri. In generale, nel 2020, il numero delle richieste di dimissioni delle donne è stato tre volte maggiore rispetto a quello degli uomini. Analizziamo le motivazioni addotte? Per le donne, nel 98% dei casi, la richiesta viene ricondotta alle dif­ficoltà di conciliazione rispetto ai servizi di cura; per gli uomini, è invece le­gata prevalentemente al passaggio a un’altra azienda. Gli uomini quindi con­tinuano a lavorare, ma altrove; le donne, semplicemente escono dal mercato del lavoro (per non farvi ritorno forse mai più). 

In alcuni casi, non mettendo mai e comunque in discussione il paradigma per cui debbano essere le donne a prendersi cura esclusiva della prole, alle donne non rimane che adottare una strategia di downshifting e scegliere un part-­ti­me. Nel primo semestre del 2021, i contratti part-time hanno rappresentato il 36% del totale, nuovamente con grandi disparità di genere: i nuovi contratti prevedono il part-­time per il 50% delle donne e per il 27% degli uomini. Non basta, perché nel 61% dei casi, il part­time delle donne è involontario e questo è particolarmente vero per le donne più giovani (che si può immaginare por­tino il peso della cura non retribuita verso i figli più piccoli): in questo caso, il part­time involontario sale al 73%. In Europa, in media si ferma al 22%.

I dati Inps sono molto utili anche per analizzare misure specifiche legate alla contingenza della pandemia. Ad esempio, il congedo Covid per i minori, di cui entrambi i genitori potevano beneficiare nel caso in cui i figli conviventi minori di 14 anni fossero affetti dal Covid­19, in quarantena da contatto o con attività didattica o educativa in presenza sospesa. Indovinate un po’? Per l’80% dei casi, il congedo Covid è stato richiesto dalle madri. Il terremoto che la crisi da Covid ha scatenato nella vita delle madri lavora­trici ha fatto sì che negli ultimi tempi si parli sempre più frequentemente di mom-cession, oltre che di she-cession.

È importante ricordare, ancora una volta, che non sarebbe certo cor­retto imputare l’attuale condizione delle donne (e delle madri) in Italia uni­camente alla pandemia. Come abbiamo affermato in apertura, il problema che l’Italia ha con la forza lavoro e con il talento femminile è, in realtà, un problema strutturale di lungo corso. E anzi, a questa contingenza dobbiamo forse riconoscere di aver scoperchiato il vaso di Pandora. Perché bisogna dire che, nel corso degli ultimi due anni, in Italia si parla di diseguaglianze dige­nere come non si era mai fatto prima. 

Il tema occupa quotidianamente giornali, riviste, approfondimenti in tele­visione, rafforzando un processo di incremento della consapevolezza collet­tiva e supportando iniziative, anche legislative, che vadano nella direzione di una maggiore equità. Non sarà un caso se, nel novembre del 2021, è stata promulgata la legge Gribaudo sulla parità salariale. La nuova normativa in­troduce l’obbligo per le aziende sia pubbliche che private, che abbiano più di 50 dipendenti, di redigere un rapporto basato su dati disaggregati per genere rispetto alla situazione del personale, dalle assunzioni alle promozioni, alle retribuzioni. La Legge Gribaudo prevede anche l’introduzione di una certi­ficazione della parità di genere che viene legata a un meccanismo premian­te, per le aziende che se ne dotino, consistente in un esonero dal versamen­ to dei contributi previdenziali nel limite dell’1% e di 50 mila euro annui per ogni azienda. Il Report deve essere inviato ogni due anni entro il 31 dicem­ bre, a pena di sanzioni e verifiche ad opera dell’Ispettorato del lavoro. Unico punto debole? Che per le aziende che occupano meno di 50 dipendenti, il Re­port è facoltativo e, secondo i dati Istat per il 2019, su 4,4 milioni di imprese, sono solo 29 mila a occupare più di 50 dipendenti. 

La legge e le sue sanzioni si applicano quindi solo allo 0,7% del tota­le delle imprese del Paese. E questo è un gran peccato, perché secondo i dati Inps, nel 2019, la media delle retribuzioni per gli uomini italiani è ammonta­ta a 16.297 euro, mentre quella delle donne si è fermata a 11.260 euro. Il diva­rio retributivo medio è quindi pari a circa il 31%, nuovamente, presentando differenziali territoriali. I dati sul Mezzogiorno riportano un gender pay gap pari al 33%, dato che fa riflettere in quanto al Sud l’occupazione femminile si concentra soprattutto nel settore pubblico, in cui gli scarti retributivi di ge­nere sono pressoché nulli. Ciò parrebbe indicare un gender pay gap nel setto­re privato particolarmente elevato. 

Il tema, come stiamo vedendo, è davvero ampio, perché le disparità di genere sul mercato del lavoro sono pervasive. E purtroppo, nel nostro Paese, non riguardano solo l’ambito lavorativo. Basti pensare che, solo per fare un esempio, le donne ai vertici degli organi decisionali (come la Corte costituzionale, il Csm, la Consob, le ambasciate, per non parlare delle Authority varie) rappresentano solo il 20% del totale e che la presenza femminile in questi ruoli apicali sta crescendo a un ritmo lentissimo, registrando un incremento di soli 7 punti percentuali nell’arco di 9 anni. 

Sembrerebbe tutto perduto. E invece no, perché le donne italiane da qualche anno stanno mostrando una strategia di reazione le cui ricadute sono estremamente positive non solo per loro stesse, ma per il sistema economi­co tutto. Come si risponde a un sistema che non ti valorizza adeguatamente, che ti relega al ruolo della maternità, che non ti consente di progredire nella tua carriera perché pervaso dagli stereotipi? Le donne italiane hanno trovato la propria risposta nella creazione di impresa. 

Un dato su tutti: secondo le ricerche Eurostat, siamo il primo Paese europeo per numero di imprenditrici femminili. Va bene, le imprese femminili rappresentano solo il 22% del totale, ma dal 2014 al 2020 hanno mostrato tassi di crescita impressionanti: in valori assoluti, pari a 3,5 volte rispetto a quelle maschili. E anche dalla pandemia sono state colpite solo marginalmente: secondo i dati di Unioncamere, nel 2020 il numero delle imprese fem­minili si è contratto solo dello 0,29%. Quasi nulla.

Se poi consideriamo che quello davvero è stato l’annus horribilis del lockdown, della cura non retribuita che per le donne italiane è aumentata di circa 2 ore al giorno, dell’incertezza che ha governato le nostre giornate sia a livello individuale che a livello sistemico, comprendiamo quanto quel­lo 0,29% rappresenti quasi un’affermazione di resistenza, da parte delle im­prenditrici italiane. Le quali, peraltro, hanno mostrato di saper reagire alla pandemia mettendo in atto iniziative e strumenti che potessero essere loro di supporto. Lo dimostra uno studio redatto dall’Osservatorio medie e piccole imprese della Confartigianato Lombardia, il quale ha registrato che, anche se le donne sono state i soggetti più colpiti dalla crisi derivante dalla pandemia, le imprese femminili italiane (in particolar modo, lo studio si è incentrato sul settore dell’artigianato) hanno mostrato una maggiore capacità reattiva. Tra gli strumenti di cui si sono dotate, ad esempio, figura la creazione di un pia­no strategico, che è stato adottato con maggiore frequenza rispetto alla media complessiva (il 61% contro il 55%). Ma i dati dell’Osservatorio evidenziano anche un’altra peculiarità di questa visione delle imprese femminili italiane, che è una visione già proiettata nel futuro valoriale delle aziende di successo. Ovvero, le azioni di sviluppo intraprese sono state incentrate in maniera prioritaria sulle persone che lavoravano nell’impresa, sulla loro valorizzazione, sulla loro formazione. 

Da quanto abbiamo osservato sinora ricaviamo una profonda consapevolez­za: i divari di genere che operano massicci nel nostro Paese non sono soltanto ingiusti per i talenti femminili, ma causano inefficienze che sono prima di tutto economiche, poiché le donne sono il capitale umano più formato e po­trebbero contribuire a creare ricchezza per tutto il sistema economico, per il bilancio dello Stato e, attraverso la spesa pubblica, per l’intera collettività.

Da dove iniziare per avviare una strategia di equità di genere? Se do­vessi indicare tre misure, in primo luogo partirei da una normativa che pre­veda un eguale congedo di genitorialità. In Spagna è stato fatto circa un anno fa, in Finlandia nel mese di settembre 2022: non è impossibile. Equiparare il congedo di paternità a quello di maternità consentirebbe non solo di agevo­lare una transizione culturale quantomai necessaria, ma anche di eliminare gran parte delle motivazioni che determinano la discriminazione delle donne sul mercato del lavoro. In seconda istanza, suggerirei un impegno serio sugli asili nido e sul tempo lungo nelle scuole, oltre che sul calendario scolastico: l’assenza di assistenza scolastica per i bambini di età inferiore ai 3 anni, l’o­rario corto per cui i bambini escono da scuola alle 13, il calendario scolastico che prevede oltre 3 mesi di vacanza sono tutti fattori che poggiano neppure tanto implicitamente sul lavoro di cura non retribuito delle donne.

Infine, occorrerebbe supportare massicciamente l’imprenditoria fem­minile. Il Fondo impresa femminile, previsto dal Pnrr con questa finalità, ha terminato i finanziamenti disponibili in circa 30 secondi. Se non è un dato questo.

Published 20 March 2023
Original in Italian
First published by Il Mulino (Italian version); Eurozine (English version)

Contributed by il Mulino © Azzura Rinaldi / il Mulino / Eurozine

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