Cosa c'è di nichilista nella blogosfera?

Veloci, leggeri e personali. I blog prendono il volo

I weblog o blog sono gli eredi della homepage personali degli anni ’90 e creano una commistione tra privato (diario online) e pubblico (pubbliche relazioni di se stessi). Secondo le ultime stime approssimative del Blog Herald, nel mondo esistono 100 milioni di blog ed è quasi impossibile fare dichiarazioni universali sulla loro “natura” e suddividerli in generi propri. Nondimeno farò un tentativo in questo senso. È di strategica importanza sviluppare categorie critiche di una teoria del blogging che tengano conto dello specifico mix di tecnologia, design di interfaccia, architettura del software e networking sociale.
Anziché osservare semplicemente il potenziale emancipatorio dei blog o enfatizzarne il folkore contro-culturale, li considero parte di un processo aperto di “massificazione”di questo medium ancora nuovo. Quello che Internet ha perso dopo il 2000 è stata l'”illusione del cambiamento”. Questo vuoto ha dato spazio a conversazioni interconnesse, su ampia scala, attraverso un software automatico disponibile gratuitamente.

Un blog è generalmente definito come una pubblicazione frequente, cronologica, di pensieri personali e link, un mix di ciò che sta accadendo nella vita di una persona e di ciò che accade sul web e nel mondo esterno. Un blog permette facilmente di creare pagine nuove: testo e immagini vengono inseriti in un modulo online (in genere con il titolo, la categoria e il corpo dell’articolo) e quest’ultimo viene successivamente sottoscritto. I template automatici fanno sì che l’articolo venga aggiunto alla homepage creando la nuova pagina (detta permalink) e inserendola nell’ archivio appropriato per data o categoria. Attraverso i tag che l’autore mette su ogni post, i blog ci permettono di filtrare le informazioni per data, categoria, autore o in base ad altre caratteristiche. Generalmente permettono all’amministratore di invitare e inserire altri autori, il cui accesso è facilmente gestibile.

Il blogger della Microsoft, Robert Scoble, elenca cinque elementi che rendono i blog molto eccitanti. Il primo è la “facilità di pubblicazione”, il secondo è ciò che lui definisce “scopribilità”, il terzo sono le “conversazioni tra siti”, il quarto è il permalink (che fornisce all’entry una url unica e stabile) e l’ultimo è l'”associazionismo”(la replica dei contenuti altrove). Lyndon dal Flock Blog dà qualche informazione per scrivere blog e mostra come idee, sentimenti ed esperienze possano essere trasformate in un format di informazione e quanto PowerPoint sia diventato dominante: “Far conoscere la propria opinione, linkare come pazzi, scrivere meno, 250 parole sono sufficienti, fare titoli brillanti, scrivere con passione, inserire elenchi numerati, editare il proprio post, fare in modo che sia facilmente scorribile, avere uno stile coerente, riempirlo di parole chiave”. (Tratto da www.problogger.net/archives/2005/12/30/tens-tips-for-writing-a-blog-post/). Se la cultura della mailing-list riecheggia la cultura postale di chi scriveva lettere e occasionalmente saggi, il post ideale si definisce attraverso brillanti tecniche di pubbliche relazioni.

Servizi web come quelli dei blog non possono essere separati dalla produzione che generano. La politica e l’estetica definite dai primi utenti caratterizzeranno il medium per decenni a venire. I blog sono apparsi negli ultimi anni Novanta, all’ombra della mania delle dot-com. La loro cultura non si è sviluppata abbastanza da essere dominata dal venture capital con la sua mentalità isterica del “demo-or-die-ora-o-mai”. I blog si presentavano inizialmente come conversazioni casuali che non potevano essere facilmente commercializzate. La costruzione di un mondo parallelo rilassato ne ha reso possibile la trasformazione in cristalli (un termine sviluppato da Elias Canetti) da cui sono cresciuti milioni di blog e che, attorno al 2003, hanno raggiunto una massa critica.

Nel periodo successivo all’11 Settembre, il blogging ha chiuso il divario tra Internet e la società. Laddove i dirigenti delle dot-com sognavano folle di clienti che invadevano i loro portali di e-commerce, i blog sono stati i reali catalizzatori che hanno compiuto la democratizzazione mondiale della rete. Se “democratizzazione”significa “cittadini impegnati”, essa implica anche la normalizzazione (ovvero la disposizione di leggi) e la banalizzazione. Non possiamo separare questi elementi e goderci soltanto i bit che ci interessano. Secondo Jean Baudrillard, viviamo nell'”universo della realtà integrale”. “Se nel passato c’era una trascendenza verso l’alto, oggi ce n’è una verso il basso. In un certo senso, questa è la seconda caduta dell’uomo di cui parla Heidegger: la caduta nella banalità, ma questa volta senza alcuna possibile redenzione”. Se non puoi sopportare alti livelli di irrilevanza, i blog non saranno la tua tazza di tè.

Il motore che spinge l’espansione della blogosfera è l’allontanamento dal codice verso il contenuto. Non c’è più alcuna necessità di un proto-design vuoto. I blog non sono un esperimento o una proposta. Esistono davvero. Da prestissimo, la cultura dei blog è stata la casa dei produttori di contenuti creativi e sociali. Esito a dire giornalisti e accademici perché, nonostante il fatto che molti di essi abbiano queste esperienze professionali, sarebbe sbagliato collocare i primi blogger all’interno di contesti istituzionali. Allo stesso tempo, non erano neppure anti-istituzionali. In maniera molto simile alla cybercultura degli anni ’90, la prima generazione di blogger aveva biografie variegate. Tuttavia, non è riuscita a emergere una cultura dominante, come quella dei techno-hippy californiani e, se esiste, è difficile da classificare. Bloggare si avvicina a quella che Adilkno descrisse una volta come “media vague”. La mancanza di direzione non è un fallimento ma il patrimonio centrale. I blog non sono emersi da un movimento o da un evento. Al più, si tratta di un effetto speciale del software, costituito, in particolare, dall’automazione dei link, una questione di design di interfaccia tecnica e non manifestamente complessa.

Si presume che i blog abbiano un rapporto simbiotico con l’industria delle notizie. Questa tesi non passa incontestata. Gli studiosi di ipertesti riportano le origini dei blog alle ipercard degli anni ’80 e all’ondata di letteratura online degli anni ’90 in cui la principale attività del lettore era cliccare da un documento al successivo. Per qualche ragione, l’elemento ipertestuale è scomparso e quello che resta è un’equazione quasi auto-evidente tra i blog e l’industria delle notizie.

Non è facile rispondere alla domanda se i blog operino all’interno o all’esterno dell’industria mediatica. Posizionare il medium del blog al suo interno potrebbe essere considerato opportunista, mentre altri la ritengono una mossa astuta. C’è anche un aspetto “tattico”. Il blogger-uguale-giornalista potrebbe ottenere protezione grazie a questa definizione in caso di censura o repressione. Nonostante innumerevoli tentativi di caratterizzare i blog come alternativi ai media tradizionali, essi sono spesso descritti in maniera più precisa come “canali di feedback”. L’atto di esercirtare il “gatewatching”(Alex Bruns) [neologismo dal gatekeeping giornalistico, ndt. ] sugli sbocchi dei media tradizionali non produce necessariamente delle osservazioni ragionevoli di cui si terrà conto. Nella categoria “insensibile”, abbiamo un’ampia gamma che va dal divertente al pazzo, dal triste e al malato. Quello che la Cnn, i giornali e le stazioni radio in tutto il mondo non sono riuscite a fare – vale a dire integrare messaggi interattivi e aperti provenienti dai loro gruppi – lo fanno i blog.

“Bloggare”una notizia non significa che il blogger si siede e analizza in profondità il discorso e le circostanze, e lasciamo perdere il fatto di verificare i fatti in questione. Bloggare significa semplicemente puntare velocemente al fatto-news attraverso un link e poche frasi che spiegano perché il blogger abbia trovato questo o quel “fattoide”interessante o notevole, o perché è in disaccordo con l’opinione espressa nella pagina segnalata.

I messaggi dei blog sono riflessioni personali spesso scritte in fretta, scolpite attorno a un link o a un evento. Nella maggior parte dei casi, i blogger semplicemente non hanno il tempo, le abilità o gli strumenti finanziari per una ricerca adeguata. Ci sono blog collettivi di ricerca che lavorano su temi specifici, ma sono rari. Quello che i blog normali creano è un nube densa di “impressioni”su un argomento. I blog testano. Ti permettono di vedere se il tuo audience è ancora sveglio e ricettivo. In questo senso, potremmo anche dire che i blog sono i test-bed esternalizzati, promossi in outsourcing, privatizzati, o piuttosto delle test unit dei grandi media. [Test bed e unit testing sono due procedure utilizzate nell’ambito della programmazione al computer; esse servono per verificare il funzionamento di determinate applicazioni di software o sistemi informatici, ndt.]

I confini tra la mediasfera e la blogosfera sono fluidi. Un’analisi sociale dettagliata scoprirebbe, con grande probabilità, un’area grigia di operatori mediatici freelance che si muovono avanti e indietro. Da subito, i giornalisti che lavorano per “i vecchi media”gestiscono dei blog. Allora come si rapportano i blog al giornalismo investigativo indipendente? A una prima occhiata, sembrano pratiche opposte o potenzialmente complementari. Mentre il giornalista investigativo lavora per mesi, se non per anni, per scoprire una storia, i blogger sembrano più un esercito di formiche che contribuisce al grande alveare chiamato “opinione pubblica”. I blogger aggiungono raramente nuovi dati a una storia. Essi trovano bachi nei prodotti e negli articoli ma raramente “smascherano”lo spin, figuriamoci se vengono fuori con servizi ben ricercati.

Cecile Landman, una giornalista investigativa olandese che ha sostenuto i blogger iracheni con la campagna Streamtime, conosce entrambi i mondi. “I giornalisti devono guadagnarsi da vivere. Non possono pensare solo a mettere qualsiasi cosa online. Ai blogger la cosa non sembra interessare, e questo crea un conflitto”. Secondo la Landman, i blog stanno cambiando i modelli esistenti dell’informazione. “Le persone si stanno annoiando dei modelli dati, non colgono più la notizia, la quale non resta più impressa nella loro memoria cervicale. È come una canzone sentita troppo spesso o una pubblicità commerciale; la ascolti, ne canti persino le parole, ma sono prive di significato. I media tradizionali stanno iniziando a capirlo. Devono ricercare nuovi formati in modo da attrarre lettori (leggi: inserzionisti pubblicitari)”­ e i blog non sono altro che un piccolo capitolo di questa trasformazione.

Alla scoperta della ragion cinica

Un weblog è la “voce di una persona”(Dave Winer). È un’estensione digitale di tradizioni orali più che una nuova forma di scrittura. Attraverso i blog, le notizie vengono trasformate da lettura in conversazione. I blog echeggiano voci e pettegolezzi, conversazioni in caffè e bar, nelle piazze e nei corridoi. Registrano “gli eventi del giorno”(Jay Rosen). La “registrabilità”delle situazioni odierne è tale che non siamo più disturbati dal fatto che i computer “leggano”tutte le nostre mosse ed espressioni (suono, immagine, testo) e le “scrivano”in stringhe di zero e uno. In questo senso, i blog rientrano nella tendenza più ampia per cui tutti i nostri movimenti e le nostre attività vengono monitorate e raccolte. Nel caso dei blog, ciò avviene non grazie a un’autorità invisibile e astratta ma ai soggetti stessi che registrano le loro vite quotidiane.

La pubblicità dei blog non può tener testa all’isteria da dot-com della fine degli anni ’90. Il paesaggio economico e politico è semplicemente troppo diverso. Quello che mi interessava in questo caso era l’osservazione, che si sente spesso, secondo cui i blog sono cinici e nichilisti. Invece di ignorare questa accusa, ho fatto una prova e ho inserito entrambe le parole chiave nel sistema per testare se erano virtù cablate, consolidate all’interno della Blog Nation. Invece di rappresentare i blogger come “un esercito di David”, come suggerisce il titolo del libro del blogger Glenn Reynolds (An Army of Davids, How Markets and Technology Empower Ordinary People to Beat Big Media, Big Government, and Other Goliaths, Nashville), potrebbe essere meglio studiare la tecno-mentalità degli utenti e non presumere che i blogger siano dei perdenti in missione per sconfiggere Golia.

Storicamente è sensato considerare il “cinismo di internet”come una risposta alla pazzia del millennio. Nel gennaio 2001, la rivista dot-com Clickz scrisse: “Tra gli investitori, i consumatori e i media, c’è un senso pervasivo che tutte le promesse di Internet siano un’enorme, sfacciata menzogna – e che oggi stiamo pagando per i peccati dell’eccessiva esuberanza di ieri”. In My First Recession (2003), mappai i postumi del post-dot-com. In questa luce, il cinismo non è altro che la maceria discorsiva di un sistema di credenze crollato di punto in bianco dopo il rush del mercato, gli anni della globalizzazione retrospettivamente ottimistico-innocente di Clinton (1993-2000), incarnati così bene nell’Impero di Hardt e Negri.

Sarebbe ridicolo denunciare i blogger collettivamente in quanto cinici. Il cinismo, in questo contesto, non è un tratto caratteriale ma una condizione tecno-sociale. La questione non è che i blogger sono perlopiù cinici di natura, o esibizionisti volgari incapaci di understatement. È importante notare lo Zeitgeist in cui il blogging è emerso come pratica di massa. Il cinismo della rete è uno spin-off culturale che proviene dal software per bloggare, legato a un’era specifica e risultato da procedure come quelle del logging, del link, dell’edit, del create, del browse, del read, del submit, del tag e del reply. Alcuni giudicherebbero il semplice uso del termine cinismo un affondo contro i blog. Che lo sia. Di nuovo, non stiamo parlando qui di un atteggiamento, per non dire di uno stile di vita condiviso. Il cinismo della rete non crede più nella cybercultura come provider di identità con relative allucinazioni imprenditoriali. Esso è costituito dall’illuminismo freddo come condizione post-politica e dalla confessione descritta da Michel Foucault. Alle persone viene insegnato che la loro liberazione richiede loro di “dire la verità”, di confessarla a qualcuno (a un prete, uno psicoanalista o a un weblog), e che , in qualche modo, questo dire la verità li libererà.

Nel bloggare c’è una ricerca della verità. Ma è una verità con un punto di domanda. La verità è diventata un progetto amatoriale, non un valore assoluto, sancito da autorità superiori. Al posto di una definizione comune, potremmo dire che il cinismo è il modo sgradevole di rappresentare la verità. Internet non è una religione o una missione di per sé. Per alcuni si trasforma in una dipendenza, che tuttavia si può curare come qualsiasi altro problema medico. La situazione post-dotcom/post-11settembre confina con un “conservatorismo appassionato”ma, alla fine, respinge i principi piccolo-borghesi delle dot-com e i loro doppi standard di imbrogliare e nascondere, manipolare i libri e poi essere ripagati con corpulenti assegni. La domanda perciò è: quanta verità può tollerare un medium? Conoscere è doloroso e i propugnatori della “società della conoscenza”non ne hanno ancora tenuto conto.

Il cinismo della rete è franco, prima e soprattutto, riguardo se stesso. L’applicazione dei blog è un prodotto online con una chiara scadenza di utilizzo.
Spokker Jones: “Tra quarant’anni quando Internet crollerà in una gigantesca implosione di stupidità voglio poter dire: io c’ero”. Si dice che il cinismo di internet abbia dato origine a siti come Netslaves.com che è dedicato alle “horror stories della rete”. È un valida bacheca per coloro che sono “bruciati dall’incompetenza, dalla pianificazione idiota e dal management isterico delle aziende di new-media”. Esibizionismo uguale conferimento di poteri. Dire a voce alta cosa si pensa o si prova, sulla scia di De Sade, non è solo un’opzione – nel senso liberale di “scelta”­ ma un obbligo, un impulso immediato a rispondere per esserci, assieme a tutti gli altri.

Nel contesto di internet, non è il male, come ha suggerito Rüdiger Safranski, ma invece la trivialità ad essere il “dramma della libertà”. Come afferma Baudrillard: “Tutti i nostri valori vengono simulati. Cosa è la libertà? Abbiamo una scelta tra comprare una macchina o acquistarne un’altra?”. Seguendo Baudrillard, potremmo dire che i blog sono un dono per l’umanità di cui nessuno ha bisogno. È questo il vero shock. Qualcuno ha ordinato lo sviluppo dei blog? Non c’è alcuna possibilità di ignorare semplicemente i blog e vivere lo stile di vita confortevole di un “intellettuale pubblico”del ventesimo secolo. Come Michel Houellebecq, i blogger sono intrappolati dalle loro stesse contraddizioni interne nella “Terra della Non Scelta”. Il London Times ha notato che Houllebecq “scrive dall’interno dell’alienazione. I suoi eroi maschili lividi, dimenticati dai loro genitori, ce la fanno privandosi delle interazioni d’amore; essi proiettano la loro freddezza e la loro solitudine sul mondo”. I blog sono campi di proiezione perfetti per un’impresa di questo genere.

Il teorico italiano Paolo Virno offre indizi su come utilizzare il termine cinismo in mondo non-derogativo. Virno ritiene che il cinismo sia connesso all’instabilità cronica delle forme di vita e dei giochi linguistici. Alla base del cinismo contemporaneo, Virno nota che uomini e donne inizialmente fanno esperienza delle regole, ben più spesso dei “fatti”e ben prima di sperimentare eventi concreti; “fare esperienza delle regole direttamente significa, tuttavia, anche riconoscere la loro convenzionalità e la loro infondatezza. Così, non si è più immersi in un ‘gioco’ predefinito partecipandovi con vera fedeltà. Al contrario, ci si coglie in ‘giochi’ individuali che sono destituiti di tutta la serietà e l’ovvietà, essendo divenuti niente più che un luogo per l’immediata affermazione del sé – un’auto-affermazione che è tanto più brutale e arrogante, in breve, cinica, quanto più è basata, senza illusioni ma con perfetta fedeltà momentanea, su quelle stesse regole che caratterizzano la convenzionalità e la mutevolezza.”

Come si legano ragione cinica e criticismo? La cultura cinica dei media è una pratica critica? Finora non si è dimostrato utile interpretare i blog come una nuova forma di criticismo letterario. Un’impresa di questo genere è destinata a fallire. La “crisi del criticismo”è stata annunciata più volte e la cultura dei blog ha semplicemente ignorato questa strada senza uscita. Non c’è alcun bisogno di un clone “new-media”di Terry Eagleton. Viviamo ben dopo la caduta della teoria. Il criticismo è diventato un’attività conservativa e affermativa, in cui la critica si alterna tra le perdite di valore celebrando, allo stesso tempo, lo spettacolo del mercato. Sarebbe interessante indagare sul perché il criticismo non sia divenuto popolare e si è allineato con pratiche dei nuovi media come i blog, mentre i cultural studies hanno reso popolare ogni cosa tranne che la teoria. Non incolpiamo l'”Altro che blogga”per la bancarotta morale della critica postmoderna. Al posto della profondità concettuale abbiamo associazioni ampie, un’ermeneutica popolare degli eventi-notizia. Le osservazioni computabili di milioni di individui possono essere ricercabili ed essere visualizzate, per esempio a gruppi. Se queste mappe ci offrono una qualsiasi conoscenza o meno è un’altra questione. È facile giudicare regressiva la crescita dei commenti a paragone in confronto alla chiara autorità della critica. La ristrettezza di vedute e il provincialismo hanno preteso il loro tributo. Il panico e l’ossessione riguardo allo status professionale della critica sono stati tali che il vuoto creato è stato ora riempito dai blogger amatoriali. Una cosa è sicura: i blog non spengono il pensiero.

Gli enciclopedisti amatoriali di Wikipedia descrivono i cinici come “coloro che sono inclini a non credere nella sincerità umana, nella virtù o nell’altruismo: individui che sostengono che il comportamento umano sia motivato solo da interessi privati. Un cinico moderno in genere ha un atteggiamento profondamente sprezzante nei confronti delle norme sociali, in particolare di quelle che assolvono uno scopo più rituale che pratico, e tenderà a congedare come sciocchezze irrilevanti o obsolete una parte sostanziale delle convinzioni popolari, della moralità convenzionale e del buonsenso comune.”In un ambiente di rete, una definizione di questo genere diventa problematica perché ritrae l’utente come un soggetto isolato, opposto a dei gruppi o alla società nel suo insieme. Il cinismo della rete non è un via d’accesso alle droghe o a niente di disgustoso. Parlare del “male”come categoria astratta è irrilevante in questo contesto. Non esiste alcun pericolo immediato. Va tutto bene. L’idea non è creare una situazione dialettica. C’è solo l’impressione di una stagnazione nel mezzo del cambiamento costante. Lo definiremmo “il romanticismo a occhi aperti”. Secondo Peter Sloterdijk, il cinismo è la “falsa coscienza illuminata”. Un cinico, così dice Sloterdijk, è qualcuno che fa parte di un’istituzione o di un gruppo la cui esistenza o i cui valori egli stesso non può più considerare assoluti, necessari o incondizionati, e che è infelice a causa di questo illuminismo, perché lui o lei si attengono a principi in cui non credono.

La sola conoscenza lasciata a un cinico è la fiducia nella ragione la quale, tuttavia, non può offrirgli (o offrirle) una solida base per agire, ma un’altra ragione per essere infelice. Seguendo Sloterdijk, il cinismo è un problema comune. La questione se sia universale o se si limiti alle società occidentali è troppo vasta per essere discussa in questa sede, ma indubbiamente la osserviamo su scala globale nei settori knowledge-intensive.

Operiamo nel mondo della post-decostruzione in cui i blog offrono un flusso senza fine di confessioni, un cosmo di micro-opinioni che tentano di interpretare gli eventi aldilà delle ben note categorie del ventesimo secolo. L’impulso nichilista emerge come risposta ai crescenti livelli di complessità all’interno di tematiche interconnesse. C’è poco da dire se tutti gli eventi possono essere spiegati attraverso il post-colonialismo, l’analisi di classe e le prospettive di genere. Ma i blog nascono contro questo tipo di analisi politica attraverso cui non si può più dire molto.

I blog esprimono paura, insicurezza e disillusioni personali, ansie in cerca di complici. Raramente vi troviamo passione (fatta eccezione per l’atto di bloggare in sé). Spesso i blog svelano dubbio e insicurezza su cosa si prova, si pensa, si crede e così via. Confrontano attentamente le riviste e passano in rassegna insegne stradali, nightclub e magliette. Questa incertezza stilizzata circonda la tesi generale secondo cui i blog debbono essere biografici e, allo stesso tempo, parlare del mondo esterno. La loro portata emotiva è molto più ampia degli altri media per via della loro atmosfera informale. È essenziale mescolare pubblico e privato. Quello con cui i blog giocano è il registro emozionale, che varia dall’odio alla noia, dall’impegno appassionato, all’indignazione sessuale e poi, di nuovo, alla noia quotidiana.

Bloggare non è né un progetto né una proposta ma una condizione la cui esistenza deve essere riconosciuta. “Noi blogghiamo”come dicono Kline e Bernstein. È un a priori di oggi. Il teorico culturale australiano Justin Clemens spiega: “Il nichilismo non è semplicemente un’altra epoca in mezzo al succedersi delle altre: è la forma finalmente compiuta di un disastro che è accaduto molto tempo fa”. Per tradurre tutto questo nei termini dei nuovi media: i blog testimoniano e documentano il potere decrescente dei media tradizionali, ma non hanno consapevolmente sostituito la loro ideologia con una alternativa. Gli utenti sono stanchi di una comunicazione dall’alto verso il basso – tuttavia ancora non hanno un’altra direzione verso cui tendere. “Non esiste un altro mondo”potrebbe essere letto come una risposta allo slogan anti-globalizzazione “Un altro mondo è possibile.”

Presi dal meccanismo quotidiano dei blog, c’è la sensazione che la Rete sia l’alternativa. Non è corretto giudicare i blog esclusivamente sulla base del loro contenuto. La teoria dei media non ha mai utilizzato questo modo e, anche in questo caso, dovrebbe guardarsi bene dal farlo. Bloggare è un’avventura nichilista proprio perché la struttura della proprietà dei mass media è messa in dubbio e poi attaccata. Bloggare è una strategia del dissanguamento. Implosione non è la parola giusta. L’implosione implica una tragedia e uno spettacolo che qui non sono presenti. Bloggare è l’opposto dello spettacolo. È piatto (eppure significativo). Il blogging non è un clone digitale delle “lettere al direttore”. Anziché lamentarsi e litigare, il blogger si mette nella posizione perversamente piacevole dell’osservatore dei media.

Il fare commenti sulla cultura tradizionale, sui suoi valori e i suoi prodotti, dovrebbe essere letto come un aperto calo di attenzione. Gli occhi che un tempo guardavano pazientemente a tutti gli articoli e gli annunci sono entrati in sciopero. Secondo la filosofia utopistica dei blog, i mass media sono rovinati. Il loro ruolo verrà rilevato dai “media partecipativi”. La diagnosi terminale è stata fatta e dichiara: le organizzazioni chiuse, dall’alto verso il basso, non funzionano più, il sapere non può essere “gestito”, il lavoro di oggi è cooperativo e in rete.

Comunque, nonostante i continui segnali di avvertimento, il sistema continua con successo a (dis)funzionare. È davvero dall’alto verso il basso? Da dove viene la certezza hegeliana che il paradigma dei vecchi media verrà rovesciato? Esistono poche prove concrete di ciò. Ed è questo stato corrente dei fatti a causare il nichilismo, e non le rivoluzioni.

Come afferma giustamente Justin Clemens: “il nichilismo spesso passa senza essere sottolineato, non perché non sia più un tema per la filosofia e la teoria contemporanee, ma – al contrario – perché è proprio così poco circoscrivibile e dominante.”Il termine è uscito quasi completamente dal discorso politico dell’establishment. La ragione potrebbe essere la “banalizzazione del nichilismo”(Karen Carr). O secondo una riformulazione: l’assenza di arte alta che possa essere etichettata come tale. Le cose potrebbero essere cambiate con l’emergere di scrittori come Michel Houellebecq. Andre Gluckmann ha spiegato le rivolte degli immigrati avvenute nei sobborghi francesi nel 2005 come una “risposta al nichilismo francese”. Quello che i giovani in rivolta stavano attuando era un'”imitazione della negazione.”Il “problema del nichilismo”, come nota Clemens, è la natura complessa, sottile e auto-riflessiva del termine. Storicizzare il concetto è una via d’uscita, sebbene la lascerò agli storici. Un’altra via potrebbe essere occupare il termine e ricaricarlo di energie sorprendenti: il nichilismo creativo.

Cosa c’è di nichilista nella blogosfera?

I blog provocano declino. Si suppone che ogni nuovo blog si aggiunga alla caduta del sistema dei media che un tempo dominavano il ventesimo secolo. Questo processo non è paragonabile a un’esplosione improvvisa. L’erosione dei mass media non può essere facilmente tracciata in base alle cifre delle vendite stagnanti e del lettorato in declino dei giornali. In molte parti del mondo, la televisione è ancora in crescita. Quello che è in declino è la “fede nel messaggio”. Questo è il momento nichilista e i blog facilitano questa cultura come nessun’altra piattaforma ha fatto prima. Venduti dai positivisti come cronaca fatta dai cittadini, i blog assistono gli utenti nel loro passaggio dalla Verità al Niente. Il messaggio stampato e teletrasmesso ha perso la propria aura. Le notizie vengono consumate come un prodotto con valore di intrattenimento. Anziché lamentarci del colore ideologico delle notizie, come ha fatto la generazione precedente, noi blogghiamo come segno del riconquistato potere dello spirito. Come un atto micro-eroico, nietzschiano, del popolo del pigiama, i blog emergono da un nichilismo di forza, non dalla debolezza del pessimismo. Invece di presentare le entry dei blog come auto-promozione, dovremmo interpretarle come artefatti decadenti che smantellano a distanza il potere vigoroso e seducente dei media radio-televisivi.

I blogger sono nichilisti perché sono “buoni a niente”. Postano nel Nirvana e hanno trasformato la loro futilità in una forza produttiva. Sono “nullisti”che celebrano la morte delle strutture di significato centralizzate e ignorano l’accusa secondo cui produrrebbero solo rumore. Sono disingannatori la cui condotta e le cui opinioni sono considerate inutili. Justin Clemens nota che il termine nichilismo è stato rimpiazzato da appellativi come “anti-democratico”, “terrorista”e “fondamentalista”. Tuttavia, nel corso degli anni si è assistito a una notevole rinascita del termine, sebbene, in genere, non si tratti di niente di più di osservazioni di passaggio. Una teorizzazione significativa della “situazione”venne compiuta a metà del ventesimo secolo,e includeva la rielaborazione di fonti del diciannovesimo secolo come Kierkegaard, Stirner e Nietzsche. L’esistenzialismo, dopo le due Guerre Mondiali, teorizzava che i gulag, Auschwitz e Hiroshima fossero manifestazioni del Male Organizzato che avevano dato origine a una crisi generale delle credenze esistenti. Per coloro che fossero ancora interessati alla teoria, The Will to Technology and The Culture of Nihilism (2004) di Arthur Kroker è una lettura indispensabile che mette Heidegger, Nietzsche e Marx in una prospettiva contemporanea, tecno-nichilista.

Ci troviamo di fronte a un “nichilismo compiuto”(Gianni Vattimo) per il fatto che i blogger hanno capito che la realizzazione del nichilismo è un fatto. Gianni Vattimo sostiene che il nichilismo non è l’assenza di significato ma un riconoscimento della pluralità dei significati; non è la fine della civiltà ma l’inizio di nuovi paradigmi sociali, tra cui quello dei blog. Generalmente associato alla convinzione pessimistica secondo cui tutta l’esistenza è priva di significato, il nichilismo sarebbe una dottrina etica in base alla quale non esistono più assoluti morali o leggi naturali infallibili e la “verità”è inevitabilmente soggettiva. In termini mediatici, vediamo che questo atteggiamento si traduce in una sfiducia crescente per la produzione di grandi organizzazioni commerciali di news e per lo spin che i politici e i loro consulenti generano. Mettere in dubbio il messaggio non è più un atto sovversivo dei cittadini impegnati ma l’atteggiamento a priori, che precede anche l’accensione della tv o del pc.

Il nichilismo designa l’impossibilità di opposizione – uno stato di cose che, in maniera per nulla sorprendente, genera una grande ansia. Il nichilismo non è un sistema di credenze monolitico. Non “crediamo”più nel Nulla, come nella Russia del diciannovesimo secolo o nella Parigi del dopoguerra. Il nichilismo non è più un pericolo o un problema, ma la condizione postmoderna predefinita. È una caratteristica della vita comune, persino banale, come scrive Karen Carr, che non è più legata alla Questione Religiosa. I blog non sono né religiosi né secolari. Sono “post-virtù”. Oggi la temporalità paradossale del nichilismo è quella del no-quasi-già-ora. Sulla scia di Giorgio Agamben, Justin Clemens scrive che “il nichilismo non è semplicemente un’altra epoca in mezzo al succedersi delle altre: è la forma finalmente compiuta di un disastro che è accaduto molto tempo fa”. Nel contesto mediatico questo sarebbe il momento in cui i mass media perdono la loro rivendicazione della Verità e non possono più operare come autorità. Non datiamo questo evento nel tempo, dato che un momento così significativo può essere sia personale che storico-culturale. È lo spostamento dal McLuhan festivo al Baudrillard nichilista che ogni utente dei media sta attraversando, e che si basa nell’infondatezza del discorso in rete con cui gli utenti giocano.

Traslando l’intuizione di Karen Carr nella situazione odierna, potremmo dire che il blogger è un individuo “che vive nel confronto auto-cosciente con un mondo privo di significato, rifiutando o di negare il suo potere o di soccombervi.”Eppure ciò non produce un gesto eroico. I blog non nascono dalla noia, né da qualche vuoto esistenziale. Carr sottolinea giustamente che “per molti postmodernisti, la presenza del nichilismo evoca non il terrore ma uno sbadiglio”. In confronto ai secoli precedenti, la sua crisi di valori è diminuita. Se i blogger sono classificati come nichilisti significa semplicemente che hanno smesso di credere nei media.

“La conversazione pubblica globale, sempre accesa, sempre collegata, sempre immediata”accelera la frammentazione del panorama dei media. Kline e Burnstein qui si trovano in disaccordo (non sono affatto nichilisti). “Piuttosto che vedere la proliferazione di blog specializzati come un indicatore della frammentazione della nostra società, dovremmo pensare che questa tendenza offre a esperti-cittadini un modo per emergere e riunire gruppi globali in molti campi disparati”. Dalla prospettiva della classe politica, una selezione di blogger può essere strumentalizzata come fossero “indicatori di opinione”. Tuttavia, quegli stessi blogger possono essere, altrettanto facilmente, liquidati il giorno dopo come “giornalisti in pigiama”e finire ignorati come “rumore”. Siccome ogni inganno necessariamente deve crollare, l’ondata di pr negative è pre-programmata. I blogger potrebbero comunicare ai media su quali questioni le persone dicono di voler riflettere. Ma una volta svanita la foga, a chi importa? Il nichilismo inizia lì, dopo la caduta dei blog, il laptop rubato, il server fracassato, i file di back-up illegibili, il service provider scomparso, i “comments (0)”. È allora che possiamo veramente mettere in risalto i nostri Pathos des Umsonst, l’atto dell’Essere Invano.

Lo scrittore David Kline non può proprio fare a meno di assumere il suo tono new age quando spiega che nonostante tutto il nichilismo esistente, i blog non sono invano. “La verità è che non sono solo tediosi discorsi sconnessi di scritti noiosi per annoiati. Sebbene perlopiù siano scrittori non professionisti, i blogger sono spesso eloquenti cosicché coloro che non sono consapevolmente impeccabili risultano spesso grezzi, senza censure e stimolati dal suono delle loro voci appena risvegliate. Tenendo un diario quotidiano dei loro riti di passaggio, i blogger spesso danno una forma e un significato alle fasi e ai cicli delle loro vite che non verrebbero altrimenti colti nella confusione dell’esistenza moderna”(dal libro Blog!, Sperling & Kupfer).

Gli allievi di Foucault direbbero qualcosa di simile, ovvero che i blog sono “tecnologie del Sé”. Ma se il “Sé”avesse finito le batterie? Potremmo dire con Dominic Pettman che bloggare è una ricerca incessante nell’età della spossatezza. I blog esplorano ciò che accade una volta che si è distrutta l’illusione che ci sia una “persona”dietro la valanga di scelte di stili di vita e identità popolari simili all’interno delle reti sociali online.

Non importa quanto si parli di “comunità”o di “mob“, resta il fatto che i blog sono usati principalmente come strumento per auto-gestirsi. Con gestione mi riferisco qui tanto alla necessità di strutturare la propria vita, di rimettere in ordine, di dominare gli immensi flussi di informazione, quanto alle pubbliche relazioni e alla promozione delle Ich-AG, come vengono dette nella Germania oppressa dalla crisi. I blog sono parte di una cultura più ampia che fabbrica celebrità a ogni livello possibile.

Alcuni lamentano il fatto che i blog sono troppo personali, persino egocentrici, mentre la maggior parte dei lettori dei blog si lasciano andare a penetrazioni esibizioniste e non riescono ad averne abbastanza. Claire E. Write avverte gli scrittori di blog di non dare la possibilità di lasciare commenti. “Pochi blogger sostengono che i blog che non permettono commenti da parte dei lettori non siano ‘veri’ blog. La maggior parte dei blogger non segue questa linea di pensiero e ritiene che i commenti dei lettori trasformino un blog in una bacheca. L’essenza di un blog non è l’interattività del mezzo: è la condivisione dei pensieri e delle opinioni del blogger. Inserire i commenti nel proprio blog solleva una serie di problemi: si trascorrerà molto tempo a controllare i post, a eliminare spam e trolls e a rispondere alle infinite domande tecniche poste da coloro che si registrano”. Questo consiglio ovviamente va contro i valori essenziali della cosiddetta A-list dei blogger. Non è interessante che i servizi di blogging offrano la possibilità di eliminare i commenti dopotutto? Per esempio, David Weinberger, guru del Cluetrain Manifesto, afferma che “i blog non sono una nuova forma di giornalismo e neppure sono costituiti principalmente da adolescenti che si lamentano dei loro insegnanti. I blog non sono neppure principalmente una forma di espressione individuale. Si definiscono meglio come conversazioni.”

I blogger sono persone che corrono rischi? Ovviamente la cultura dei blog è diversa dal culto del rischio imprenditoriale incarnato da guru del management come Tom Peters. In maniera molto simile alla definizione di rischio data da Ulrich Beck, i blogger affrontano rischi e insicurezze indotti dalle continue ondate di modernizzazione. Ciò che è bloggato è l’incessante incertezza del quotidiano. Mentre gli imprenditori colonizzano il futuro, stimolati da allucinazioni collettive, i blogger espongono il presente in cui si trovano presi.

Bloggare è la risposta all'”individualizzazione della diseguaglianza”. Una risposta che si muove non tanto con l’azione collettiva, ma con il collegamento massiccio iper-individuale. Questo è il nuovo paradosso della rete: allo stesso tempo, ci sono a portata di mano costruzione e distruzione del sociale. La timida internazionalizzazione finisce e si trasforma in rivelazione radicale. Nessun sito web anticipa questa pratica meglio di quello della Fucked Company, un precursore della cultura dei blog in cui gli impiegati delle aziende della New Economy postano in forma anonima voci e lamentele, e cosa ancora più interessante, le circolari interne.

I blogger disturbano coloro che disturbano. Essi prevalgono sulla discussione costante sul “cambiamento”. È assai facile attaccare la grande azienda post-moderna, dato che essa dipende esclusivamente da un’immagine pubblica vuota, sviluppata da consulenti terzi. I diari online, le offese e i commenti sconfiggono molto facilmente l’armonia artefatta a cui l’ingegneria di comunità aspira.
In Democracy Matters di Cornel West (2004) c’è un capitolo intitolato “Nichilismo in America”. L’Occidente distingue tra il nichilismo evangelico dei neo-conservatori che ruotano attorno a Bush e una versione paternalistica praticata da democratici come John Kerry e Hillary Clinton. Una terza forma, il cosiddetto “nichilismo sentimentale”preferisce rimanere sulla superficie dei problemi piuttosto che ricercare la loro profondità sostanziale. Esso dà un’adesione puramente formale alle questioni anziché ritrarne la complessità. Questa tendenza a restare in superficie, toccare un argomento, additare un articolo senza neppure dare un’opinione adeguata a riguardo – aldilà della citazione -, è una pratica diffusa e fondativa del blogging. Quanti post, possiamo chiederci con Cornel West, sono domande socratiche? Perché la blogosfera è così ossessionata dal misurare, dal contare e dal feeding, e così poco dalla retorica, dall’estetica e dall’etica? Non dovremmo terminare con questioni morali. La speranza di superare il nichilismo rimanda a Nietzsche ed è rilevante anche nel contesto dei blog. La sfida posta dai milioni che bloggano è come superare la mancanza di significato senza ricadere nelle strutture di significato centralizzate.

Annegare in un arcipelago di link

“Cerca di edificare te stesso e costruirai un rudere”(Sant’Agostino). Questo vale anche per i blog. Quello che sembra essere un mezzo comune eppure personalizzato, user-friendly, dimostra di essere inaffidabile sul lungo termine. L’io liquido potrebbe aver pensato di trovare rifugio in provider come blogger.com o blogspot.com, ma la maggior parte dei servizi di blogging si dimostrano instabili quando si tratta di archiviare i milioni di blog che ospitano. L’età media di una pagina web è di sei mesi, così si dice, e non c’è alcuna ragione per credere che questo non sia vero anche nel caso dei blog. Come scrive Alex Havias: “molti blog hanno vita breve e, a ogni modo, possiamo presumere che è probabile che tutti i blog vengano mantenuti operativi per un tempo finito. Questi archivi locali devono essere duplicati altrove. Al momento non c’è niente di così semplice come l’RSS che ne permetta la duplicazione.”Il detto popolare secondo cui Internet ricorderà ogni cosa si sta trasformando in un mito: “Se non è semplice aggiornare il tuo sito, non lo aggiornerai”. Questo era il problema degli anni ’90. Il problema ora è: “Se non aggiorni il tuo blog, noi lo cancelliamo”. Anche se il corpo del blog può essere ricostruito, per esempio attraverso archive.org, resta il problema del contenuto multimediale che viene duplicato. Alex Halavias suggerisce che invece di un server centralizzato, la soluzione potrebbe essere un archivio modello peer-to-peer.

Come può la cultura dei blog trascendere l’accusa vera, pure se noiosa, di essere interessata solo a se stessa? Avere una scena prosperosa di persone anonime, come in Iran, è emozionante, ma non è una reale alternativa per il resto del mondo. Neppure i giochi di ruolo ci offriranno una via d’uscita, anche se potrebbe essere interessante indagare su come i blog e i MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Games) si rapportano tra loro. Al momento si tratta di ampi universi paralleli. Invece potremmo parlare, sulla scia di Stephen Greenblatt, di self-fashioning online. La posa teatrale viene esplicitata da questo termine e riunisce elementi del sé (diario, introspezione) con lo spettacolo dei pochi blogocrati che si combattono l’attenzione dei milioni. Nel contesto dei blog, Matthew Berk parla di “self-fashioning digitale”. Secondo Berk: “Le persone online si costituiscono come raccolte di documenti e altri dati pensati per essere letti dalle persone e per stabilire dei rapporti. Più c’è struttura all’interno e tra questi contenuti, maggiore è la loro potenzialità di azione.”Il sé è definito in maniera normativa come la capacità di elaborare legami tra frammenti di contenuto.

Nicholas Carr ha definito”amorale”l’inganno del Web 2.0 – blog compresi. “Ovviamente i media tradizionali considerano la blogosfera un competitor. È un competitor. E, data l’economia della competizione, potrebbe ben trasformarsi in un competitor maggiore. I ridimensionamenti a cui abbiamo assistito ultimamente nei principali giornali potrebbero essere solo l’inizio, e dovrebbero essere ragione non di risate compiaciute ma di disperazione. Nella visione estatica del Web 2.0 è implicita l’egemonia del dilettante.”

Questa mossa di concessione di potere politico è presa come una calcolata “saggezza delle folle”. Quello che i proprietari dei singoli blog considerano orgogliosamente un grande post, visto dalla più ampia prospettiva di internet, con il suo miliardo di utenti, è una raccolta in continuo cambiamento di nugoli di tecnicismi, che consistono in trilioni di click e micro-opinioni. Più sappiamo di questo metalivello, attraverso strumenti di software sofisticati, più possiamo deprimerci riguardo alla direzione generale. I blog non nascono da movimenti politici o da interessi sociali. Essi si “focalizzano ossessivamente sulla realizzazione del Sé”, dice Andrew Keen del Weekly Standard. Keen prevede una svolta pessimistica: “Se si democratizzano i media, allora si finisce per democratizzare il talento. La conseguenza involontaria di tutta questa democratizzazione, per parafrasare l’apologo del Web 2.0 Thomas Friedman, è l”appiattimento’ culturale.”E Nicholas Carr aggiunge: “Alla fine veniamo lasciati con niente più che ‘il sordo rumore dell’opinione’ – l’incubo di Socrate.”Interessante vedere come cambia velocemente l’animosità all’interno delle comunità del Web 2.0.

George Gilder, il Carl Schmitt dei new media, ha dichiarato una volta: “Mentre rilascia energie creative ovunque, il capitalismo conduce a una diversità assai maggiore, che comprende anche i media. L’intera blogosfera è un esempio di come trascendere i modelli gerarchici della tecnologia dei vecchi media – dall’alto verso il basso – attraverso la tecnologia dei nuovi media produca diversità e voci e creazioni nuove.”

A questa opinione generale secondo cui la diversità è un bene, possiamo contrapporre la perdita che deriva dalla scomparsa di familiarità e riferimenti comuni. “Blogging alone” (dopo il Bowling Alone di Robert D. Putman) è una realtà sociale che non può essere liquidata facilmente. La maggior parte del blogging è ciò che Bernard Siegert definisce una “comunicazione fantasma”. “Il net-working inizia e finisce con la pura auto-referenzialità”, scrive Friedrich Kittles, e questa autopoiesi non è mai così chiara come nella blogosfera. I protocolli sociali di opinione, inganno e convinzione non possono essere separati dalla realtà tecnica delle reti, e nel caso dei blog, questa si trasforma in un lavoro ingrato.

Una volta, nel febbraio 2004, si metteva in risalto il fatto che internet fosse una “camera per l’Ego”. Searls, Weinberg, Ito, e BoydŠ erano tutti lì. Danah Boyd scriveva: “Uno dei motivi principali per cui molti si collegavano al web negli anni ’90 era trovare persone simili. L’obiettivo non era solidificarsi o diversificarsi, ma sentirsi convalidati. Suggerire la solidificazione/diversificazione implica che la motivazione primaria dell’andare online è partecipare a un dialogo intenzionale, per essere educati ed educare. Francamente, non credo che ciò sia vero.”Rispetto al blogging Shelly Parks aveva notato precedentemente: “si scrive per essere parte di una comunità? O si scrive per scrivere, e la parte della comunità o capita oppure no?”In questo contesto, Danah Boyd si riferisce ai network sociali e al concetto di omofilia. Sembra che nell’ambito del blogging, la costruzione esplicita di gruppi auto-referenziali sia ancora un concetto nuovo. I blog creano arcipelaghi di link interni ma questi legami sono troppo deboli. In cima a tutto ciò, non solo, in genere, i blogger si riferiscono e rispondono solo ai membri della loro tribù online, ma non hanno alcuna idea complessiva di come potrebbero cercare di includere i propri avversari. I Blogrolls (le liste di link) presuppongono inconsapevolmente che se si include un blog si è d’accordo o almeno si simpatizza con il suo creatore. Linkiamo quello che è interessante e bello. Questo è il problema chiave del modello Google e Amazon, in cui i link vengono scambiati come raccomandazioni.

A causa della sua vastità, la distesa dei blog non è uno spazio inconteso. Innanzitutto, le differenze di opinione devono esistere già e non piovono dal cielo. Fabbricare opinioni è l’arte della creazione dell’ideologia. Il dibattito non dovrebbe essere confuso con uno stile propagandistico in cui le lotte (politiche) esistenti vengono giocate nella Rete. Il tono troppo intraprendente è ciò che rende i blog così poveri dal punto di vista retorico. Quello che manca nell’architettura del software è l’esistenza stessa di un partner di dialogo paritario. Il risultato è una militarizzazione, espressa da termini come “blog-swarm“(sciame di blog), che viene definita dal blogger cristiano di destra Hugh Hewitt come “un primo indicatore di un’imminente tempesta di opinioni che, quando scoppierà, altererà profondamente la comprensione del pubblico generale di una persona, un luogo, un prodotto o un fenomeno”. È la comunalità del pregiudizio, o diciamo della convinzione, a guidare la crescita del potere del blogging e la sua visibilità sugli altri media.

Possiamo parlare di una “paura della libertà dei media”? È troppo facile dire che c’è libertà di parola e che i blog materializzano questo diritto. L’obiettivo della libertà radicale – si potrebbe sostenere – è creare autonomia e superare il predominio delle media corporation e del controllo statale e non essere più disturbati dai “loro”canali. La maggior parte dei blog mostra una tendenza opposta. L’ossessione per le notizie-fattoidi confina con l’estremo. Invece dell’appropriazione selettiva, ci sono una sovra-identificazione e una dipendenza chiara e tonda, in particolare dalla velocità della cronaca in tempo reale. Come Erich Fromm (autore di Paura della Libertà), potremmo interpretare tutto questo come “un problema psicologico”perché l’informazione esistente è semplicemente riprodotta, in un atto pubblico di internalizzazione. Gli elenchi dei libri che devono essere ancora letti, una caratteristica comune dei blog, conducono nella stessa direzione. Secondo Fromm, la libertà ci ha messo in un isolamento insopportabile. Di conseguenza ci sentiamo in ansia e privi di potere. O fuggiamo in nuove dipendenze o realizziamo una libertà positiva che si fonda sull’ unicità e individualità dell’uomo”. “Il diritto di esprimere i nostri pensieri significa qualcosa solo se siamo in grado di avere pensieri nostri.”La libertà dai monopoli mediatici tradizionali porta a nuovi legami, in questo caso il paradigma dei blog, dove c’è poca enfasi sulla libertà positiva, su cosa fare della funzionalità schiacciante e della mancanza del vuoto, della finestra bianca per le entries. Non sentiamo parlare abbastanza della tensione tra l’io individuale e la “comunità”, gli “sciami”e i “mob“che si suppone siano parte dell’ambiente online. Quello che invece vediamo accadere dal punto di vista del software sono i progressi quotidiani degli strumenti di misurazione (quantitativa) e di manipolazione sempre più sofisticati (nei termini dell’inbound linking, del traffico, della scalata più in alto di Google, ecc.) Nei contesti esistenti, non è il documento a evidenziare ciò che non è incapsulato? La verità non si trova laddove non ci si può collegare?

Published 10 July 2007
Original in English
Translated by Martina Toti
First published by Lettre Internationale 73 (German version)

Contributed by Reset © Geert Lovink/ Caffè Europa Eurozine

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