Senza sfera pubblica che Europa è

Manca al Vecchio Continente uno spazio comune di scambio e di dibattito su temi transanazionali. E con esso la base per costruire una solida identità, politica e culturale, per l’Ue.

Un brano tragicomico ma ottimistico di Soll und Haben (Dare e Avere), romanzo epico tedesco del XIX secolo, scritto da Gustav Freytag, raffigura un giornalista di provincia orgoglioso, anche se di poco conto, mentre parla dell’articolo che ha appena scritto. Con estrema sicurezza di sé, il piccolo giornalista afferma di essere nuovamente riuscito a firmare un articolo che, appena andato in stampa, farà contorcere lo Zar. Quanti giornalisti o intellettuali nelle odierne province europee sono altrettanto convinti che le loro parole faranno tremare il potere costituito a Bruxelles o a Strasburgo – o farà tremare chiunque al di fuori del ristretto circolo dei loro compatrioti? Davvero troppo pochi. Gli intellettuali svedesi scrivono per i lettori svedesi, così gli intellettuali francesi scrivono per i francesi e gli estoni per gli estoni. Va bene, certo. Ma il peggio è che i temi e le prospettive di riflessione sono quasi sempre relative ai singoli Paesi: alla Svezia, alla Francia o all’Estonia.

Nonostante la riuscita adozione dell’euro da parte di molte nazioni, l’europeizzazione delle identità, degli stili di vita e dei sistemi di riferimento – ovvero l’avvento di uno spazio pubblico comune – sembra ancora un sogno lontano. Ma le prospettive di lungo termine per una comunità europea più ricca di significati dipendono proprio dall’emergere di questi fattori. In un recente articolo sulla costruzione dell’identità europea, Manuel Castells ha così formulato il problema: “la tecnologia è nuova, l’economia è globale, lo stato è un network europeo che negozia con altri attori internazionali, mentre l’identità del popolo è nazionale o addirittura, in alcuni casi, locale e regionale. In una società democratica, questo tipo di dissonanza strutturale e cognitiva può risultare insostenibile. Mentre l’integrazione dell’Europa senza la condivisione di un’identità europea è attuabile quando tutto va bene, una crisi rilevante, in Europa o in un dato Paese, può innescare un’implosione europea dalle conseguenze imprevedibili.”

Perciò, in assenza di un’identità comune, non esiste nessuna reale e sostenibile comunità europea. E nell’assenza di uno spazio pubblico paneuropeo, non può esserci nessuna identità comune. Uno spazio pubblico europeo sarebbe un regno in cui valori e principi transnazionali – o procedure transnazionali, se si vuole – possono essere definiti, modellati e riformati, e in cui istituzioni politiche sopranazionali possono acquisire legittimità.

Circa un anno fa, venne avviato uno dei tentativi in assoluto più ambiziosi per discutere il futuro comune dell’Europa a livello transnazionale. Il 31 Maggio 2003, sette quotidiani europei pubblicarono articoli di noti intellettuali che affrontavano il tema Che cos’è l’Europa?. Umberto Eco scrisse su La Repubblica, Gianni Vattimo su La Stampa, Adolf Muschg su Neue Zürcher Zeitung (Svizzera), Richard Rorty su Süddeutsche Zeitung (Germania) e Fernando Savater su El Pais (Spagna). Tuttavia, l’articolo che risultò essere più importante e largamente discusso fu quello scritto da Jürgen Habermas – che aveva dato il via all’intero progetto – co-firmato da Jacques Derrida. Sia il Frankfurter Allgemeine Zeitung (Germania) che La Libération (Francia) pubblicarono l’articolo.

Il fatto che due degli intellettuali europei più influenti degli ultimi decenni abbiano pragmaticamente messo da parte le loro differenze e parlato all’unisono è stato, in sé, un notevole passo in avanti. In genere i loro approcci filosofici sono mondi separati. Altrettanto sbalorditiva è stata la concrezione, politicamente carica, che ha caratterizzato la loro analisi.

Le discussioni riguardo la possibile fondazione di una comune identità europea tendono a perdersi nella nebbia della storia religiosa e culturale. Incerte nozioni di democrazia e libertà diventano ancora più amorfe quando i gruppi che ne chiacchierano suggeriscono che l’Europa abbia una certa esclusiva su di esse. La sfida identificata dalla gran parte delle persone che stanno cercando di individuare una caratteristica distintiva che tenga assieme l’Europa sembra sul punto di invocare una sorta di re-incantamento, un modo per attribuire un barlume mitologico e misterioso a un continente che è stato reificato e ridotto a un progetto economico. La vanità dei simboli che nascono da questi desideri colpisce virtualmente alla testa quando si guarda agli imprecisi motivi architettonici tratteggiati sulle euro-banconote. Dove si può trovare un’identità europea nell’indistinto viadotto della banconota da 5 euro? Ha qualche risonanza emotiva o un destino simbolico? Quali sogni collettivi invoca? Quali sogni può portare con sé?

Da questo punto di vista, l’articolo di Habermas e Derrida è stato un miracolo di vera storia contemporanea. Tuttavia, almeno altrettanto interessante rispetto all’analisi e alle conclusioni dell’articolo, è il fatto in sé. Si è trattato di un tipo di intervento, un’azione-manifesto che lamentava il bisogno di ciò che il testo è e, allo stesso tempo, di ciò che il testo supplica: una discussione europea sull’Europa, uno spazio pubblico europeo.

Lo spazio pubblico, nella sua accezione più ampia, include i movimenti popolari tradizionali e le nuove Ong, che spuntano alla stessa velocità vertiginosa, dal momento che le istituzioni costituite si provano incapaci di adempiere al loro compito originario. Da un lato, Habermas ha visto nelle manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio 2003 l’apertura di uno spazio per una sfera pubblica che comprenda la strada, dall’altro il manifesto è stato anche un tentativo di far rivivere il suo complemento mediatico. Ma l’iniziativa appare un fallimento se guardata da questa punto di vista. Una discussione ampia e transnazionale ha dato nell’occhio soprattutto per la sua assenza. Invece ci è stata offerta una nuova dimostrazione del modo in cui il discorso pubblico cade in ostaggio delle divisioni nazionali e linguistiche.

La Spagna ha focalizzato la sua attenzione sull’articolo di Savater, l’Italia su quelli di Eco e Vattimo. Anche se più sensibile rispetto alle altre, la stampa tedesca ha mostrato scarso interesse per ciò che era stato scritto in italiano e spagnolo. I Paesi che non erano stati direttamente coinvolti nella pubblicazione degli articoli sono apparsi ancora più disinteressati: un esempio, neppure una parola a riguardo è stata scritta sul Financial Times.

A dispetto delle grandiose ambizioni, l’iniziativa di Habermas è diventata un esempio lampante delle difficoltà che si incontrano nello stabilire uno spazio transnazionale discorsivo e deliberativo di un qualche valore nella moderna Babilonia che porta il nome di Europa. Ci sono molti altri esempi.

Che tali aspirazioni possano essere costose è dimostrato dal destino di The European, un progetto naufragato e attivato dal magnate della carta stampata Robert Maxwell nel 1990, sotto il motto “Primo Quotidiano Nazionale d’Europa”. Al suo apice, The European ebbe una diffusione di 180.000 copie, più della metà delle quali in Gran Bretagna. La diffusione in Svezia – uno dei paesi europei dove il giornale aveva attirato più attenzione – non superò mai le 5000 copie, per esempio, mantenendosi al livello di riviste affermate ma “piccole” ed “elitarie”come Ord&Bild e Arena. A metà anni Novanta, Andrew Neil trasformò The European in un settimanale che poteva tranquillamente essere chiamato anche “The Anti-European”. E alla fine il progetto fallì, compianto da pochi e distante anni luce dalla visione originaria di un newsmagazine tutto europeo che aspirava a un lettorato più vasto. L’avventura, che stentò a durare un decennio, costò 70 milioni di sterline.

Quando la nota stazione televisiva bilingue franco-tedesca Arte recentemente ha compiuto il suo decimo anniversario, certo poteva crogiolarsi nella gloria di aver ricevuto non meno di 1260 premi. Ma era ancora lontana dal suo obiettivo di ritagliare un magro 1% di share. Anche se l’orgoglioso slogan di Arte è “l’Europa guarda la Tv”, la speranza di trovare un terzo partner – oltre Francia e Germania – appare una possibilità remota. Neppure in questi due Paesi il canale è riuscito a creare un profilo o un marchio sufficientemente forti e attraenti per lanciare le basi di un qualcosa che possa rassomigliare a uno spazio pubblico europeo.

Non è un caso che a impegnarsi per rendere disponibili gli articoli di Habermas e degli altri per i lettori svedesi, turchi, sloveni e – recentemente – polacchi siano stati i giornali politici e culturali. Essi rappresentano, infatti, il segmento dei media che più si è avvicinato all’ideale di uno spazio pubblico europeo. Diffondono idee politiche, filosofiche, estetiche e culturali da una lingua all’altra, sia all’interno che all’esterno dei network editoriali transnazionali. Le Monde diplomatique, che è ampiamente gestito dalla Francia, ha edizioni in 20 diverse lingue. Anche se meno sincronizzato, Lettre international è un altro esempio. Il network Eurozine è formato da circa 50 pubblicazioni partner, e da altre 60 legate però in maniera più blanda, per lo scambio di articoli e idee. Ma mentre i singoli articoli che vengono tradotti e distribuiti all’interno e all’esterno del network di Eurozine possono raggiungere una diffusione superiore al milione, il cosmopolitismo dei giornali culturali è di piccola scala. Essi possono rappresentare uno spazio pubblico parziale, ma il loro raggio d’azione è troppo limitato per alimentare un forum che possa formare l’opinione pubblica e temprare i desideri della gente, un luogo in cui questioni fondamentali possano essere elaborate e discusse seriamente. Uno spazio pubblico attraverso il quale e nel quale un’identità europea comune può emergere e servire come base per la legittimazione di nuove società transnazionali dovrà essere più ampio.

In conclusione, sembrerebbe che c’è un solo sentiero percorribile per rispondere alla sfida posta da una collettività eterogenea di spettatori, ascoltatori e lettori orientati in senso nazionale: uno spazio pubblico europeo guidato da media nazionali già consolidati, le cui traduzioni – sia di linguaggio che di contesto – possono offrire ai pensatori e ai concetti “stranieri” un posto alla tavola dove i lettori svedesi, francesi ed estoni, si sentano tutti a casa. Quotidiani come Dagens Nyheter, Le Monde e Postimees devono giocare un ruolo decisivo. Ma qualsiasi slancio in questa direzione richiederà almeno un po’ di apertura da parte dei media-leader, che hanno ancora a loro disposizione il format e la volontà per interpretare le loro responsabilità giornalistiche e pubblicistiche alla luce delle nuove condizioni sociali, di fatto alla luce di una situazione completamente nuova. Se, come afferma Castells, lo stato è un network europeo, allora il quarto potere deve ridefinire i suoi compiti. Non un solo intellettuale svedese di una certa rilevanza ha dedicato un’analisi coerente al provocatorio manifesto di Habermas. Se ne può dedurre che gli intellettuali svedesi abbiano trascurato il loro dovere, ma un approccio più utile sarebbe quello di chiedersi che cosa dice questa irresponsabilità riguardo all’abilità da parte dei maggiori media svedesi di rilevare e partecipare attivamente a discussioni che iniziano al di fuori del proprio Paese.

Invece di guardare ai propri fratelli minori, per esempio le riviste, con una strana mistura di invidia (format e prestigio) e disprezzo (diffusione e impatto), i quotidiani nazionali potrebbero prendere l’iniziativa per una collaborazione che attraverso l’Europa aprirebbe i cancelli a un mondo più ampio. Ciò potrebbe significare molte più pre-stampe e ristampe di articoli pubblicati su riviste, in edizioni più o meno ridotte, o accordi per l’acquisizione dei diritti per le pubblicazioni estere – e non solo inglesi. Sì, viene già fatto – qua e là – ma il potenziale è lontano dall’essere raggiunto. Una mossa del genere evidenzierebbe, favorirebbe e trarrebbe profitto dalle potenzialità dei giornali nel costruire uno spazio pubblico transnazionale. Nel frattempo, i quotidiani più diffusi riceverebbero un grande input e un incentivo per affrontare le loro responsabilità di forum critici per la formazione dell’opinione pubblica in un mondo dove gli intellettuali leader non si riuniscono più in un singolo Paese- sia esso la Svezia, la Francia o l’Estonia. In realtà, al momento di organizzare reti editoriali che trascendano i confini nazionali e corporativi, i quotidiani avranno molto da imparare dalle riviste.

Uno spazio pubblico europeo può essere un prerequisito per un’Europa unita, ma l’unità non deve essere confusa con l’uniformità. Piuttosto è il contrario. Non si tratta di avere svedesi che scrivano come estoni o estoni che scrivano come tedeschi. Si tratta invece di prendere sul serio la diversità e fare spazio a nuovi punti di vista – sia che si tratti di parole o di pensieri. Solo un dialogo così ricco e libero può – forse – forgiare un’identità comune e metterla alla prova.

Possiamo ancora sorridere della controparte svedese del giornalista provinciale di Gustav Freytag, un editorialista di un piccolo giornale locale Smålands Allehanda che insisteva sul suo ruolo in una sfera pubblica più ampia, facendo una bella ramanzina a Bismarck: “Abbiamo già avvertito il Cancelliere tedesco di non perseverare nelle sue attuali politiche, e adesso ripetiamo quell’ammonimento”.

Sì, possiamo ridere. Ma non si può negare che un’audacia del genere abbia un interesse tutto suo.

Published 16 June 2004
Original in Swedish
Translated by Martina Toti

Contributed by Caffé Europa © Eurozine

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