Quello che il Vaticano non sa della ragione islamica

Quando Richard Rorty disse che nel Medioevo Dio era dio, poi, nell’età dell’Illuminismo e della modernità, la ragione divenne dio e oggi, ovvero nell’età postmoderna, non c’è nessun dio, la sua affermazione conteneva una buona misura di verità. L’idolo della ragione o il dio della ragione oggi è andato in frantumi. E l’adorato termine “razionalità”, che una volta era la parola più nobile e sacra, veicola ora poco più di un significato sospetto, ambiguo e modesto. La ragione aristotelica, la ragione cartesiana, quella kantiana, hegeliana, la ragione religiosa, quella storica, dialettica, teoretica, pratica e tutte le altre varietà della ragione hanno mandato questo specchio in tante migliaia di pezzi che è impossibile vedervi una qualsiasi immagine intera e non distorta.

Oggi, quando qualcuno parla di ragione, si riferisce o ai metodi logici di un ragionamento deduttivo e induttivo, di una prova e di una confutazione ecc. o ai prodotti della ragione che consistono nella filosofia, nel linguaggio, nella moralità, nella scienza e simili. E, poiché questi prodotti sono fluidi e mutevoli, si considera assiomatico nella nostra epoca che la ragione cambi (o che evolva e sia perfettibile all’infinito). La ragione moderna e quella classica sono differenti perché i loro prodotti ­ per esempio, la loro scienza, filosofia, moralità, politica ed economia ­ sono differenti. E, poiché le cose stanno così, è inevitabile sottomettersi a una sorta di relativismo. Ed è questa esattamente la situazione in cui tutti noi viviamo e respiriamo oggi.

La modestia razionale postmoderna

Alcuni filosofi musulmani considerano la ragione teoretica come un insieme di verità teoretiche autoevidenti e la ragione pratica come un insieme di verità pratiche autoevidenti. Sulla base di questa definizione, va detto che le verità autoevidenti sono cambiate e che quello che sembrava autoevidente alle persone nel passato non lo sembra oggi. L’esistenza di Dio era qualcosa di simile a una verità teoretica, autoevidente nel Medioevo, mentre oggi ha perso la sua importanza. Al contrario, i diritti umani sono considerati verità autoevidenti nella nostra epoca, mentre non comparivano tra le verità pratiche autoevidenti nel passato.

L’età dell’Illuminismo si riteneva illuminata e descriveva il Medioevo come un’età buia. E, ovviamente, se qualcuno avesse potuto chiedere alle persone nel Medioevo avrebbero detto esattamente il contrario: che erano loro gli illuminati e che coloro che avevano qualsiasi opinione opposta vivevano nelle tenebre. Il fatto che quasi nessuno utilizzi più l’espressione “secoli bui” testimonia un importante cambiamento di posizione riguardo al sapere. È diventato chiaro che sia l’età dell’Illuminismo che il Medioevo erano presi e delimitati dai loro stessi paradigmi o verità autoevidenti, e che coloro che vivevano questi due paradigmi (epistemici) avevano potuto a malapena sollevare le proprie teste oltre i loro stessi bastioni per criticarsi. È stato solo quando questi bastioni sono caduti che gli occhi si sono aperti e le lingue hanno parlato. Nell’età postmoderna, la nostra condizione è simile alla loro. E quello che abbiamo appreso da Thomas Kuhn e Michel Foucault tra gli altri è che non abbiamo una singola razionalità ma più razionalità. La lezione che ce ne viene è quella della modestia razionale. In passato, si diceva che l’arroganza e l’egoismo fossero impedimenti alla razionalità; ora, dobbiamo dire che l’arroganza è uguale all’irrazionalità e che la modestia è una delle inevitabili virtù delle persone razionali e di coloro che cercano di imparare. Estrarre norme generali, universali, astoriche dal cuore della “ragione assoluta” e ritenerle applicabili a tutti i popoli di tutte le epoche è diventato più difficile oggi che mai. L’umanità è arrivata a un pluralismo e a un relativismo sano e benefico, il cui frutto è la modestia e il rifiuto del dogmatismo. Dobbiamo essere grati di questo e considerarlo di buon auspicio.

Ma la ragione non è stata affrontata soltanto, internamente, da una schiera di varietà sconvolgenti e per lei schiaccianti; essa ha dovuto anche confrontarsi con molti nemici esterni. Parlerò qui di tre rivali della ragioni con i quali ho convissuto e di cui ho fatto esperienza personalmente.

Ragione e rivelazione

Papa Benedetto XVI, nel controverso discorso di Ratisbona, si vantava della collaborazione tra cristianesimo e filosofia greca, e descriveva la loro riconciliazione e alleanza come propizia e epocale. Criticava l’islam e il protestantesimo per non aver stabilito un legame forte come avrebbero dovuto con la razionalità e, in particolare, con quella filosofica e greca. Descriveva persino il Dio islamico come un Dio irrazionale o antirazionale.

Non è questo il luogo per valutare le osservazioni, a volte inaccurate e mal soppesate, del papa. Il punto è che il rapporto tra ragione e rivelazione non è mai stato calmo e complessivamente amichevole. La ragione indipendente-dalla-rivelazione è sempre stata considerata una nemica della rivelazione e i profeti non hanno mai amato farsi definire filosofi. I teologi, che rendevano la fede religiosa ragionata e razionale, e che consideravano in questo modo di servire la religione, erano ritenuti dei traditori dai religiosi ortodossi. Questi ultimi erano dell’opinione che razionalizzare la religione significasse sottometterla alla ragione e misurare la sua verità e veracità sulla scala della razionalità e che questa fosse, in definitiva, una cosa sospetta e inutile. I credenti sostenevano che la rivelazione era sopraggiunta per assistere la ragione; come poteva, allora, questo rapporto essere capovolto con la ragione che assisteva la rivelazione? Alcuni si spingerebbero anche oltre e direbbero che la fiamma della ragione era utile nell’oscurità che aveva preceduto la rivelazione, ma una volta sorto il sole della rivelazione, quella fiamma doveva essere spenta.

La cooperazione tra ragione e rivelazione era, ovviamente, un’altra possibilità. Il fatto che il Dio che aveva creato la ragione era lo stesso Dio che ci aveva mandato la rivelazione offriva una base per la cooperazione. Molti grandi filosofi musulmani e cristiani, come Avicenna, Farabi e san Tommaso d’Aquino, appartenevano a questa linea di pensiero. Sadreddin Shiraz, il filosofo iraniano del XVII secolo, si spinse così avanti da dire: “Male colga a qualsiasi filosofia che non sia confermata dalla religione di Dio!”.

La scuola di teologia mu’tazilita, che sfortunatamente soffrì una devastante sconfitta storica per mano della rivale scuola ash’arita, venne fondata sulla base della compatibilità della ragione e della religione ed era anche in buoni rapporti con la filosofia greca. Il Dio dei mu’taziliti era un Dio giusto e morale, e tutta la Sua condotta non perdeva di vista i criteri razionali. Questa era anche la loro idea del Profeta e dei suoi insegnamenti. La ragione, secondo questa scuola, era così corpulenta che la religione in confronto sembrava emaciata, a differenza della scuola ash’arita di teologia, che aveva una religione corpulenta e una razionalità emaciata. Dal canto loro, i sufi ­ che nel complesso costituivano un altro credo ­ avevano raggiunto un amore corpulento, al fianco del quale sia la religione che la ragione apparivano emaciate.

In ogni modo, le scoperte della ragione empirica nell’Europa del XVI e XVII secolo e il conflitto tra la scienza e le scritture risvegliarono improvvisamente la battaglia dormiente tra ragione e rivelazione e rimandarono, a frangersi in quest’oceano, ondate pericolose. Insegnarono a entrambe a diventare più modeste e a fare meno rivendicazioni, e le resero più sensibili alla complessità delle verità che venivano scoperte nei diversi domini.

Ovviamente, la battaglia si spinse così lontano da aprire la strada ­ con l’emergere del protestantesimo e l’occorrere di conflitti sanguinosi tra le diverse sette cristiane ­ al pieno splendore del secolarismo. Gli Stati iniziarono a proclamare la loro neutralità rispetto alle religioni e l’egemonia di una religione su tutte le altre venne rovesciata. Sebbene a volte sia stata sia in buoni che in cattivi rapporti con la ragione non-religiosa (e specialmente quella filosofica/greca), la rivelazione islamica non venne mai affrontata dalla ragione empirica, e questo semplicemente perché la scienza empirica moderna non si sviluppò tra i musulmani. Così, essi non soffrirono i pericoli della battaglia, ma non beneficiarono neppure delle sue benedizioni. E quando la scienza vittoriosa approdò nelle terre islamiche nel XIX e XX secolo, invece di far tremare tutti di paura, rallegrò la gente che vedeva la vincitrice che aveva sconfitto la cristianità e che avrebbe fatto amicizia con l’islam. È molto interessante notare che la scienza e la filosofia moderne non incontrarono quasi alcuna resistenza nelle terre islamiche. Vennero spalancate loro prima le porte delle università e, poi, quelle dei seminari ed esse divennero materie di studio e discussione. È stato così anche in Iran dopo la Rivoluzione islamica. Ricordo come, quando ero membro dell’Istituto per la Rivoluzione Culturale dopo la rivoluzione, un giornalista italiano mi chiese in un’intervista se la teoria dell’evoluzione sarebbe stata eliminata dai piani di studio universitari. Gli risposi di no e, poi, pensai tra me e me che un’idea del genere non era mai passata per la mente né a me né ai miei colleghi. Ovviamente, da questo punto di vista, il marxismo va messo tra parentesi. I religiosi lo hanno sempre considerato una teoria materialista e antireligiosa.

Oggi, il movimento degli intellettuali religiosi in Iran si sta sforzando di ridefinire il rapporto tra ragione e rivelazione. E, sull’interpretazione delle scritture in particolare, sta cercando l’assistenza dell’ermeneutica moderna e dell’esperienza fatta dal cristianesimo. E, al contrario di quanto sembra pensare il papa, lontani dal temere interpretazioni molteplici del Corano e dal ritenerle una violazione del fatto che le parole del Corano sono una rivelazione divina, questi intellettuali religiosi credono che l’islam consista precisamente in queste interpretazioni molteplici e che è praticamente impossibile raggiungere il nocciolo puro della religione.

Ragione e amore

La tradizione nobile e robusta del sufismo islamico è stato il prodotto delle reazioni a due cose: innanzitutto, una reazione a gozzoviglie e baldorie senza limiti, alla corruzione, al materialismo, e alla ricerca del piacere delle corti sotto i califfati umavidi e abbasidi, e dall’altra, una reazione al Dio terrificante, tirannico e onnipotente degli ash’ariti e alle interminabili digressioni filosofiche dei mu’taziliti sugli attributi e sulle azioni di Dio, in particolare sulla Sua giustezza.

La prima reazione produsse il sufismo ascetico e la seconda il sufismo dell’amore. Quest’ultimo tracciò un confine sia con la ragione che con la paura. Voleva amare Dio, non temerlo. E voleva essere incantato da Dio, come un amante è incantato dall’amato, non risolvere Dio come un filosofo risolve un rebus. Mansour Hallaj, il celebre sufi del IX secolo, comunicava l’essenza condensata di questo approccio così: “L’amato è colmo di fascino non di segreti”. In altre parole, Dio non è un oggetto per filosofi e razionalisti, Dio è un oggetto per gli amanti. Fine della storia. E l’amore era tale da entrare in guerra con la ragione. Forse la parola “amore” sembra un po’ troppo forte, ma la lettura delle opere dei sufi non comunica niente meno che questo.

L’amore divenne nemico sia della ragione teoretica che di quella pratica. Da un lato, i sufi sostenevano che l’amore concedesse a un amante occhi per vedere panorami che vanno oltre il regno della ragione. Jalal-aldin Rumi, il più grande mistico e poeta iraniano/ afghano, nato nel 1234, diceva al suo maestro e amico Shams-e Tabrizi: “Shams-e Tabrizi, l’amore puoi conoscere, non la ragione”. In altre parole, l’amore permette la conoscenza, è capace di fare scoperte che hanno un valore cognitivo. Dall’altro lato, i sufi credono che la ragione sia una creatura egoista, profittatrice e conservatrice e non incline all’altruismo, alla benevolenza, al sacrificio di sé; mentre l’amore riduce l’egoismo a zero, “uccide l’io”, rende l’amante generoso, di buon cuore, ardito e galante, e guarisce tutti i mali spirituali dell’amante. Sebbene questo amore sia il nocciolo della religiosità, esso, in effetti, va oltre i doveri del credente. La maggior parte dei credenti cerca qualche beneficio e qualche compenso per la propria religiosità. E sebbene non ci sia niente di intrinsecamente sbagliato in questo, è lontano delle nobili vette toccate dall’amante che si lascia alla spalle il regno dei benefici e dei compensi e prende la direzione di un azzardo d’amore.

Un sufismo che è costruito su questo tipo di amore è vicinissimo alla rivelazione e considera più o meno i profeti come fossero grandi mistici che hanno messo i prodotti delle loro contemplazioni a disposizione del popolo, mentre i mistici che non sono profeti non hanno una tale missione.

In ogni modo, il rapporto tra sufismo e filosofia o tra amore e ragione ­ come il rapporto tra ragione e rivelazione ­ non è stato privo di problemi. I filosofi musulmani si sono giovati del misticismo proprio come della rivelazione, e non hanno considerato nessuno dei due contrario alla ragione pura. L’ultima cosa che si può dire qui è che i filosofi hanno accolto quelle conclusioni mistiche che si sono prestate alla ragione e hanno scelto il silenzio per le altre. Ma i mistici preferivano menti che fossero libere dalla filosofia e consideravano le riflessioni filosofiche e “il legame con le cause” incompatibile con la condizione di amante. Inoltre, sebbene la comprensione preconcettuale/preteoretica dei mistici potesse riversarsi nei modelli concettuali dei filosofi, perdeva la sua novità e autenticità e questo portò i mistici a stare lontani dalla filosofia.

Avendo insegnato sia filosofia che misticismo, ho vissuto nel cuore di questo dualismo tutta la mia vita e ho osservato bene i miei studenti per vedere in quale direzione sarebbero saltati. Raramente ho incontrato qualcuno che potesse resistere a questo braccio di ferro e continuare a restare aggrappato a entrambi. Alla fine, o ha trionfato l’amore o la ragione, e più spesso che no, l’amore si è dimostrato più forte.

Ragione e rivoluzione

La rivoluzione è un’esplosione rigonfia di odio e l’espressione dell’energia di quest’emozione rovinosa, essa può non avere alcuna affinità con la freddezza della ragione analitica. Quale affinità può esserci tra un odio che vuole distruggere la tradizione, la monarchia, la proprietà ecc. e una ragione che vuole conoscere e capire?

Nelle rivoluzioni, ad amore ed emozione viene dato invariabilmente quel che gli è dovuto, ma la ragione non è servita così bene. Occorre molto tempo prima che i leader di una rivoluzione si rivolgano alla razionalità e alla costruzione e diminuiscano la carica distruttiva. A essere giusti, le rivoluzioni non sono prive di razionalità, ma la loro razionalità si manifesta perlopiù come rifiuto della razionalità eccessiva. I rivoluzionari sanno a cosa si oppongono, ma sono ben lontani dal sapere cosa vogliono. Sono idealisti focosi che si sbagliano su quello che possono ottenere. Immaginano di poter cambiare le tradizioni e gli esseri umani velocemente e poterli sostituire con nuove tradizioni e nuovi esseri umani. Tutte le rivoluzioni sono, in certo senso, anarchiche e se non c’è alcuna componente di anarchismo in una rivoluzione, allora non si tratta di rivoluzione.

Lo spettro colorato della realtà sbiadisce in un monocromo e tutto viene ridotto al bianco e al nero: il passato è male, il futuro è bene; un controrivoluzionario è male, un rivoluzionario è bene; e così dicendo. In questo modo, viene chiusa la porta alla ragione analitica, che cerca categorizzazioni molto più realistiche e sottili di queste.

Nelle rivoluzione c’è solo un’unica misura per il bene e il male: la rivoluzione stessa. E ciò equivale ad abbandonare tutte le misure: non solo la rivoluzione è un bene ma è uguale al bene! Quando qualcosa diventa misura di se stessa, si è arrivati all’irrazionalità.

Il compito delle persone razionali nel mezzo delle rivoluzioni non è ritirare l’ondata rivoluzionaria, compito che supera le loro capacità. Si tratta invece di ridurre la distruzione e guidare le energie via dal caos e dalla rovina e verso la ricostruzione. Avendo vissuto di persona una rivoluzione e avendo ricoperto delle responsabilità, ho conosciuto questa verità direttamente. Chiunque abbia assistito a una rivoluzione, riconosce la colpevolezza di coloro che non lasciano scelta al popolo, ma ricorrono alla rivolta. In una rivoluzione la prima risorsa che viene dilapidata e l’ultima a ritornare a casa, se mai vi fa ritorno, è la razionalità.

Dei tre nemici della ragione ­ rivelazione, amore e rivoluzione ­ il terzo è più spietato e schiacciante per la ragione. La rivelazione ha più o meno condotto un ragionevole scambio storico con la ragione che può essere utile per entrambe. L’amore, dal canto suo, è sempre stato un bene raro, posseduto da una piccola minoranza. E, se stimola l’eccitazione, non ha incitato alla malvagità. Ma, quando ci troviamo di fronte a rivoluzioni onnicomprensive, che non hanno né la bellezza dell’amore né la sacralità della rivelazione, possiamo solo cercare rifugio in Dio, perché esse rubano alle persone sia la vita che la ragione. In una comunità chi è saggio ha il dovere di guidare le linee politiche, sociali ed economiche verso un sistema razionale e giusto cosicché non sorga mai la necessità della distruzione e dell’irrazionalità rivoluzionarie. È loro interesse diffondere la giustizia e tenere a bada la rivoluzione.

 

Published 30 March 2007
Original in English
Translated by Martina Toti
First published by Reset 99 (2006) and ResetDOC

© Abdolkarim Soroush / Reset / Eurozine

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