L'avvento della memoria

Stiamo vivendo l’avvento mondiale della memoria. Da venti, venticinque anni e più, tutti i paesi, tutti i gruppi – sociali, etnici, famigliari – hanno conosciuto un profondo cambiamento nel rapporto tradizionale che intrattenevano con il passato. Tale cambiamento ha assunto forme molteplici: critica delle versioni ufficiali della storia e riaffioramento del “sepolto” storico; rivendicazione delle tracce di un passato cancellato o confiscato; culto delle radici e sviluppo delle ricerche genealogiche; effervescenza commemorativa di tutti i generi; rinascita della sensibilità rispetto al possesso e all’apertura degli archivi per la consultazione; attenzione rinnovata verso ciò che gli anglosassoni chiamano “eredità” e i francesi “patrimonio”. Quale che sia la combinazione di questi elementi, è come un’ondata memoriale che si abbatte sul mondo e che annoda la fedeltà al passato – reale o immaginario – al sentimento di appartenenza, la coscienza collettiva alla coscienza individuale, la memoria all’identità.

La Francia è stata forse il primo Paese a entrare in quest’èra della memoria – appassionata, conflittuale, quasi ossessiva. Poi, dopo il crollo del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, è arrivata la “memoria ritrovata” dell’Europa dell’Est. E ancora, con la caduta delle dittature in America Latina, con la fine dell’apartheid in Sud Africa e la nascita della Truth and Reconciliation Commission, si sono manifestati i segni della creazione di una vera mondializzazione della memoria e di forme molto diverse, ma comparabili, di regolamento dei conti con il passato.

L’accelerazione della Storia

Questo movimento della memoria, che ho proposto di chiamare “l’èra della commemorazione”, è così generale, così profondo, così potente, che vale forse la pena di interrogarsi sulle sue ragioni. L’avvento della memoria è al crocevia, così mi sembra, dei due grandi fenomeni storici che contraddistinguono la nostra epoca: un fenomeno temporale e un fenomeno sociale. Su questo vorrei soffermarmi.

Il primo ha a che fare con ciò che si usa definire “l’accelerazione della Storia”. Questa formula, proposta da Daniel Halévy, indica che il fenomeno più continuo e permanente non è più la permanenza e la continuità, ma il cambiamento. Un cambiamento sempre più rapido, un rovesciamento accelerato di ogni cosa in un passato che si allontana sempre più in fretta. Dobbiamo prendere la misura di questa trasformazione, se vogliamo organizzare la memoria. Questo capovolgimento ha infranto l’unità del tempo storico, la linearità pura e semplice, che univa al passato il presente e il futuro.

Di fatto, a determinare ciò che si doveva trattenere del passato per prepararsi al futuro, e che dava un senso al presente – cerniera tra i due – era l’idea che una società, una nazione, un gruppo, una famiglia si facevano del proprio avvenire. Un po’ schematicamente, potremmo dire che il futuro era decifrabile attraverso tre figure, le stesse che determinavano il volto del passato. Il futuro era immaginabile come una forma di restaurazione del passato, come una forma di progresso, o come una forma di rivoluzione. Questi tre schemi di comprensione del mondo che permettevano l’organizzazione di una “storia” non sono più applicabili. Un’incertezza assoluta pesa ormai su ciò che sarà il futuro. Ed è questa incertezza a vincolare il presente – ricco di mezzi tecnici straordinari per la conservazione del passato – al ricordo. Noi non sappiamo che cosa i nostri discendenti avranno bisogno di sapere di noi per comprendere se stessi. E questa incapacità di anticipazione del futuro ci costringe ad accumulare religiosamente, in maniera talvolta indifferenziata, tutte le tracce visibili e tutti i segni materiali che testimonieranno (forse) di ciò che siamo o che saremo stati. In altri termini, la fine di ogni teleologia della storia – la fine di una storia di cui si conosce la fine – carica il presente di quell’imperioso “dovere di memoria” di cui oggi tanto si parla. Diversamente dall’amico Paul Ricoeur, che prende le distanze da quest’ultima formulazione e le preferisce quella di “lavoro di memoria”, io l’accetto, ma a condizione di conferirle un senso molto più generale di quello che le è in linea di massima accordato: un senso molto più dilatato, meccanico, materiale, patrimoniale, rispetto al senso morale abituale. Un senso che non è legato al debito, ma alla perdita – e c’è una grande differenza.

Infatti, “l’accelerazione della Storia” ha l’effetto brutale, simmetrico rispetto al futuro, di tenere a distanza tutto il passato, dal quale siamo tagliati fuori. Si tratta, in altre parole, di ciò che uno storico demografo inglese riassumeva in questa celebre formula: “Il mondo che abbiamo perduto”.1 Noi non lo abitiamo più, quel mondo, esso ci parla solo per tracce – tracce diventate misteriose e che dobbiamo interrogare perché in esse si nasconde il segreto di ciò che siamo, la nostra “identità”. Non siamo più in rapporti amichevoli con questo passato. Lo possiamo ritrovare solo ricostruendolo per via documentaria, archivistica, monumentale – cosa che fa della “memoria”, essa stessa costruita, il nome attuale di ciò che un tempo chiamavamo semplicemente “Storia”. Ci troviamo di fronte a un profondo e pericoloso ribaltamento del senso delle parole che esprime, anch’esso, lo spirito del nostro tempo. “Memoria” ha assunto un senso così generico e inclusivo da tendere a sostituire quello puro e semplice di “Storia” e a porre lo studio della Storia al servizio della memoria.

Dunque, per riassumere, “l’accelerazione della Storia” ha due effetti sulla memoria: da una parte, un effetto di accumulazione legato al senso della perdita e che è responsabile dell’importanza esagerata che attribuiamo alla funzione della memoria, con la relativa proliferazione delle istituzioni e degli strumenti della memoria: musei, archivi, biblioteche, collezioni, digitalizzazione di inventari, banche dati, cronologie, eccetera. E, dall’altra, tra un futuro imprevedibile e un passato restituito alla sua oscurità, alla sua opacità, l’autonomizzazione del presente, cioè l’emergenza del presente come categoria di comprensione di noi stessi, ma di un presente già storico, sul quale si sovrappone la consapevolezza del suo carattere e della sua verità. A conferire alla memoria tutta la sua attualità, è l’esplosione della continuità storica e temporale: il passato non è più garanzia del futuro. È questa la ragione principale della promozione della memoria come agente dinamico e come promessa di continuità. Una volta esisteva solidarietà tra passato e futuro, di cui il presente era solo un momento di passaggio, come si diceva. Oggi c’è solidarietà tra presente e memoria.

La democratizzazione della Storia

Il secondo motivo di questa sollecitazione memoriale è di ordine sociale ed è legato a ciò che potremmo definire, per analogia con “l’accelerazione”, la “democratizzazione” della Storia. Essa consiste nel forte movimento di affrancamento e di emancipazione di popoli, di etnie, di gruppi e anche di singoli individui del mondo contemporaneo, cioè l’emergenza veloce di forme di memoria delle minoranze per le quali il recupero del passato è parte integrante dell’affermazione della loro identità.

Queste memorie minoritarie dipendono in via di principio da tre tipi di decolonizzazione: la decolonizzazione internazionale che ha fatto accedere alla coscienza storica e al recupero/fabbricazione memoriale le società che vegetavano nel sonno etnologico dell’oppressione coloniale; nelle società occidentali classiche, la decolonizzazione interna delle minoranze sessuali, sociali, religiose, locali, in via di integrazione e per le quali l’affermazione della loro “memoria” – cioè, di fatto, della loro storia – è una maniera di farsi riconoscere nella loro particolarità dalla comunità generale che rifiuta loro il diritto sia di coltivare la loro differenza, sia l’appartenenza a un’identità in via di dissoluzione. C’è infine un terzo tipo di decolonizzazione che nasce dal crollo dei regimi totalitari del XX secolo, che siano comunisti, nazisti o dittatoriali: una decolonizzazione ideologica che tende a riunire i popoli liberati e le loro memorie lunghe e tradizionali, confiscate, distrutte o manipolate dai vari regimi: è il caso della Russia, dei paesi dell’Europa dell’Est, dei Balcani, dell’America latina e dell’Africa. L’esplosione delle memorie minoritarie ha avuto l’effetto di modificare molto in profondità i rispettivi statuti di Storia e di memoria e i loro rapporti reciproci. Per essere più precisi, ha avuto l’effetto di valorizzare la nozione stessa di “memoria collettiva”, molto poco utilizzata fino ad allora. Diversamente dalla Storia, per troppo tempo in mano ai potenti, alle autorità pubbliche, agli studiosi e ai gruppi di specialisti, la memoria ha acquisito i privilegi nuovi e il prestigio di un movimento popolare di protesta. È apparsa come la rivincita degli umiliati e degli offesi, degli esclusi – la storia di chi non ha avuto diritto alla Storia. E fin qui ha avuto dalla sua, se non la verità, almeno la fedeltà. Ciò che c’è di nuovo, oggi – e che ha a che fare con l’insondabile sofferenza del secolo, con l’allungamento della durata della vita, con la sopravvivenza dei testimoni – è la rivendicazione di una verità più “vera” rispetto alla verità della Storia: verità più “vera” perché del vissuto e del ricordo.

Tutta la Storia, diventata disciplina con ambizione scientifica, è stata costruita fino a oggi, a partire dalla memoria, ma contro la memoria, considerata come individuale, psicologica, ingannevole, legata solo alla testimonianza. La Storia era la sfera del collettivo, la memoria quella del particolare. La Storia era una e la memoria, per definizione, sempre plurale, perché essenzialmente individuale. L’idea di una memoria collettiva, emancipatrice e sacralizzata, presuppone un capovolgimento radicale rispetto a questa posizione. Gli individui avevano la loro memoria, le collettività la loro Storia. L’idea che le collettività abbiano una memoria comporta una trasformazione profonda del ruolo che gli individui hanno nella società e del loro rapporto rispetto alla collettività: ecco dove si annida il segreto di un altro avvento misterioso che merita anch’esso di essere chiarito: l’avvento dell’identità, senza il quale non è possibile comprendere l’upsurge of memory.

Memoria e identità

La nozione di identità ha conosciuto un capovolgimento di senso analogo e parallelo a quello che ha conosciuto la memoria. Da nozione individuale, essa è diventata nozione collettiva, e da soggettiva è diventata quasi formale e oggettiva. Tradizionalmente, l’identità caratterizza l’individuo in ciò che egli ha di unico, al punto da assumere un significato essenzialmente amministrativo e poliziesco: le nostre impronte digitali esprimono la nostra “identità” – ognuno di noi ha la carta o un documento d’identità. L’espressione è diventata una categoria di gruppo, una forma di definizione di noi dall’esterno. “Non si nasce più donna, lo si diventa”, scriveva Simone de Beauvoir. La stessa formula potrebbe valere per tutte le identità create dall’affermazione di sé. L’identità, come la memoria, è una forma di dovere: io sono tenuto a diventare ciò che sono – un corso, un ebreo, un operaio, un algerino, un nero. È a questo livello di obbligo che si annoda il legame decisivo tra memoria e identità sociale. Da questo punto di vista, le due obbediscono a uno stesso meccanismo: i due termini sono praticamente diventati sinonimi e la loro unione rappresenta la nuova economia della dinamica storica e sociale.

Il caso della Francia

Questa metamorfosi di una coscienza storica di sé in una coscienza sociale, la Francia l’ha conosciuta in maniera particolarmente intensa.

La Francia, infatti, ha intrattenuto con il proprio passato, con la propria storia, un rapporto essenziale e determinante. Questo rapporto ha assunto, con la Terza Repubblica, un centralità peculiare perché la storia è diventata il perno attorno al quale ruotava il legame sociale e politico. Attraverso la scuola, attraverso i piccoli manuali scolastici di Ernest Lavisse e i libri per bambini come il celebre Tour de la France par deux enfants, si è fissata la grande narrazione della collettività nazionale: una saga immensa dalle versioni molteplici e varie, ma offerta a tutti, e che attutiva tutte le particolarità, che fossero provinciali, famigliari, linguistiche, religiose, sociali, sessuali, che non apparivano rilevanti nella grande storia nazionale.

Dunque, da un lato, c’erano le gesta, cioè un recitativo potente che aspirava all’epopea, con i suoi alti e bassi, le sue grandezze e le sue sfide, il suo repertorio infinito di personalità, di scene, di repliche, di intrighi, di date, di buoni e cattivi, un palpitante romanzo famigliare che partiva da Vercingetorige e dalla battaglia di Alesia per finire con il trionfo della Repubblica e dei diritti dell’uomo, passando per le Crociate, per Luigi XIV, l’Illuminismo, la Rivoluzione, l’epopea napoleonica, la conquiste coloniali, le prove della guerra del 1914, e di cui de Gaulle avrebbe finito per essere l’erede. Dall’altro lato, c’erano le appartenenze particolari, le fedeltà individuali. Da una parte, la storia collettiva e nazionale; dall’altra, memorie di tipo privato. Una storia santa, perché della stessa natura del catechismo religioso che essa intendeva combattere; una storia sacra, perché era quella della patria che meritava il sacrificio della vita – una leggenda che funzionava, però, come potente motore di integrazione, di coesione e promozione sociali e di memorie dei gruppi, cioè delle minoranze: memoria operaia, ebraica (all’epoca, si diceva “israelita”), realista, bretone o corsa o femminile.

È su questa divisione che si è costruita l’identità francese tradizionale e che essa si è fortificata a partire da un secolo fa, ed è questo il modello che è andato in frantumi. È andato in frantumi per effetto di un movimento duplice: lo sfaldamento interno del mito portatore di un progetto nazionale e l’affrancamento liberatorio di tutte le minoranze.

Questo doppio movimento si è sviluppato parallelamente, per poi precipitare negli anni Settanta e Ottanta del Novecento; anni cruciali, in cui la Francia ha decisamente conosciuto una trasformazione radicale. Il segreto dell’avvento di una “memoria nazionale” egemonica, tirannica, quasi ossessiva, è nel passaggio da una coscienza storica di sé a una coscienza sociale. Al posto dell’identità nazionale, abbiamo l’avvento delle identità sociali. La fede tradizionale nella grandezza e nel destino della Francia è stata minata dall’interno: le guerre – quella europea, quella mondiale e quella coloniale, 1914-1918, 1939-1945 e la guerra d’Algeria – non solo hanno inflitto al Paese una riduzione reale della potenza, ma hanno anche insidiato in profondità la validità e l’infallibilità del modello nazionale classico. Ciò si è tradotto nella risorgenza di tutto quello che il sentimento nazionale aveva represso (dal Terrore durante la Rivoluzione, alla tortura durante la guerra d’Algeria) che si è manifestata nella crisi di tutte le filiere della formazione nazionale: chiese, sindacati, partiti, famiglie; nell’incertezza sulla natura del messaggio pedagogico; nell’esitazione tra le spinte decentralizzatrici e l’ingresso in un ambito europeo. Nel corso di quel decennio, un forte movimento di decolonizzazione interna e di emancipazione delle identità dei gruppi ha portato ognuna delle minoranze in via di integrazione nazionale a volere una sua propria storia – una sua “memoria” –, a “riappropriarsi” (così si diceva) di quella storia e a esigerne il riconoscimento da parte della nazione. Vediamo il caso ebraico, che è illuminante. Non si sarebbe mai parlato di “memoria ebraica” ancora una trentina di anni fa. Neanche il ricordo di Vichy era particolarmente legato alla legislazione antisemita e alla responsabilità dello Stato francese nella deportazione e nello sterminio. Oggi è il contrario e la “comunità ebraica” – anche questa espressione non si sarebbe mai usata – non ha mai smesso di reclamare dal Presidente della Repubblica il riconoscimento di quella responsabilità. Cosa fatta da Jacques Chirac il 16 luglio 1995 al Vel’ d’hiv, dove erano stati raccolti gli ebrei della grande retata del 1942. Ciò che in Francia viene chiamata “memoria nazionale” non è altro che la trasformazione di questa memoria storica di fondo dovuta all’invasione, alla sovversione, alla sommersione delle memoria dei gruppi.

Un messaggio che non va dimenticato

Per concludere, cerchiamo di evidenziare quali siano gli effetti diretti e immediati dell’affioramento recente di questa memoria. Mi sembra di vederne due principali. Il primo consiste nell’intensificazione rapida degli usi del passato – usi politici, turistici, commerciali – che si traduce, per esempio, nella crescita esponenziale delle commemorazioni. Il secondo consiste nella fine del monopolio tradizionale dello storico in quanto interpretatore del passato. In un mondo in cui esisteva una Storia collettiva e memorie individuali, era lo storico a esercitare sul passato un controllo esclusivo. E la Storia detta “scientifica”, nell’ultimo secolo, ha molto rafforzato questo privilegio. Solo allo storico spettava stabilire i fatti, amministrare la prova, distribuire la verità. Era il suo mestiere – e la sua nobiltà. Lo storico oggi è ben lungi dall’essere solitario nella produzione del passato. Condivide questo ruolo con il giudice, il testimone, i media e il legislatore. Ed è questa una ragione di più per opporre, al “dovere di memoria”, che abbiamo proclamato più di venticinque anni fa, un “dovere di Storia”.

Infatti, il vero problema che oggi pone la sacralizzazione della memoria è quello di comprendere come, perché e in quale momento il principio positivo di emancipazione e di liberazione possa capovolgersi e diventare una forma di chiusura, un motivo di esclusione – un’arma da guerra. La rivendicazione della memoria è, nel suo principio, una forma di appello alla giustizia. Nel suo effetto, essa è diventata spesso un appello al crimine. Contro la memoria, è forse arrivato il momento di riavviare il processo che più di un secolo fa Nietzsche istruì contro la Storia nelle Considerazioni inattuali, sostituendo, alla parola “Storia”, la parola “memoria”. Esiste un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico (intendo dire “memoriale”) al di là del quale l’essere vivente si trova dilaniato e infine distrutto – che si tratti di un individuo, di un popolo o di una civiltà. Ed è questo un messaggio della memoria che non dobbiamo dimenticare.

 

Si tratta di Peter Laslett che, nel 1965, pubblicò The World We Have Lost: England Before the Industrial Age, edito nel 2010 in traduzione italiana presso Jaca Book.

Published 21 May 2013
Original in French
Translated by Chiara Benzi
First published by Transit 22/2002 (German version); Lettera internazionale 115 (2013) (Italian version)

Contributed by Lettera internazionale © Pierre Nora / Lettera internazionale / Eurozine

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