La nostalgia è mitigata dall'accoglienza

E da politiche intelligenti

“Un rifugiato deve superare mille difficoltà, la sua stessa vita è in pericolo;
ma insieme alla disperazione, in lui c’è anche una forte dose di speranza in una vita migliore.
Ma la speranza può essere tradita. E comunque, una volta
abbandonata la propria terra d’origine, il rifugiato sarà sempre un senza patria”

“In Inghilterra o in Canada le istituzioni sentono di dover proteggere chi cerca asilo.
In Italia la condizione del rifugiato è tradita. Quando recentemente
ottantanove somali sono morti in mare, c’è stato uno shock generale, poi tutto è tornato
come prima. La colpa è delle vostre strategie politiche deliranti”

Giancarlo Bosetti: Il sottotitolo del suo ultimo libro, Rifugiati, è Voci della diaspora. Perché la scelta di questo concetto, “diaspora”?

Nuruddin Farah: In realtà, il sottotitolo inglese era Yesterday Tomorrow: il termine diaspora è stato adottato solo nella versione italiana. Quella di “diaspora” è una nozione molto precisa, che ha origine dalle antiche migrazioni degli Ebrei. Si riferisce a una qualsiasi comunità di persone soggetta a persecuzione in un dato luogo, e che per questo motivo si disperde altrove, per creare nuove comunità in altri paesi. In seguito a una diaspora, si verifica una ghettizzazione di un gruppo di individui: questi non possono tornare alla loro terra d’origine, ma allo stesso tempo non faranno mai veramente parte del paese che li ha accolti. Tratti diasporici contraddistinguono alcune comunità più di altre, alcune epoche più di altre. In Italia, per esempio, il trend della diaspora è oggi più vivo che in passato. Negli anni venti il governo fascista pagava agli emigranti biglietti di sola andata per l’estero, invitandoli a cercare fortuna altrove, perché la patria non aveva più niente da offrire loro. Allora il flusso di chi espatriava si dirigeva verso destinazioni specifiche: per lo più in Svizzera, per cercare lavoro, e in Africa, per diventare proprietari terrieri. Persone molto vicine, spesso legate da vincoli di parentela, vivevano destini decisamente diversi. La diaspora non ha effetti univoci sulle varie comunità.

GB: Il concetto di diaspora implica un sentimento di comunità molto forte, di gran lunga più vivo di quello che ci può far venire in mente il termine “immigrazione”. Non credo che si possa parlare di una diaspora italiana.

NF: Negli ultimi vent’anni l’intensificarsi delle comunicazioni ha cambiato molto le cose. Quando da giovane studiavo in Inghilterra, chi voleva mangiare il salame italiano doveva andare in Italia a comprarlo. Se volevo l’aglio, era praticamente impossibile trovarlo, perché nessun inglese lo mangiava. Bisognava andare a chiederlo a qualche ristoratore italiano. Gli emigranti dovevano prendere il loro salame, o il loro aglio, e portarlo con loro. Oggi le comunicazioni invece sono molto più facili. Ci sono negozi dove si può acquistare qualsiasi cosa, e questo ha modificato l’atteggiamento che la gente ha nei confronti dei cibi tipici della propria terra d’origine. Tutto comunque dipende dall’ampiezza delle comunità. Le faccio un esempio. Io abito a Città del Capo da circa cinque anni (anche se spesso torno in Somalia, appena posso, perché sto lavorando a una trilogia sulla guerra civile). Mia moglie è nigeriana, e lì non ci sono molte persone di quella nazionalità. Se vogliamo mangiare nigeriano, dobbiamo rivolgerci a un nigeriano che cucini secondo le tradizioni di quel paese. Ecco cosa significa diaspora. Voi italiani non usate quest’espressione perché gli italiani sono molti, dovunque: a Rhode Island, in Massachusetts, ovunque. Ma non può negare che esista una differenza tra un italiano che va lì per la prima volta e un italiano che invece fa ormai parte della popolazione autoctona.

GB: Ma gli italiani ormai integratisi negli Stati Uniti non sono più italiani. Lei invece è ancora un somalo, e non solo in astratto: mangia somalo, parla somalo. Gli italo-americani no.

NF: I miei amici italiani di Rhode Island però non mi parlano in inglese, ma in italiano, perché si sentono ancora parte del vostro paese. Solo quando l’immagine dell’Italia nel mondo sarà irrimediabilmente compromessa, questa gente prenderà le distanze dalla propria terra d’origine. Finché questo non accadrà, resteranno italiani.

GB: Lei stesso ha vissuto molti anni in India. Nella stessa collana del suo Rifugiati è stato pubblicato un libro di un autore indiano, Arjun Appadurai, a proposito della diaspora indiana. Appadurai ha formulato il concetto di “sfera pubblica della diaspora”. Una sfera di dibattito e riflessione, un’opinione pubblica specifica della diaspora indiana. Ce n’è anche una somala?

NF: Se dovessi esprimere una mia personale opinione sull’argomento, le farei un altro esempio. Metta che venga celebrato un matrimonio tra somali a Roma. Immagini che gli invitati siano tutti somali, fatta eccezione per una coppia di amici italiani. Allora, forse, si creerebbe una sfera pubblica della diaspora, fatta di gente che appartiene a classi diverse, che in Somalia non si sarebbe mai incontrata, ma può farlo all’estero come facente parte di una comunità diasporica. Quella che conosco meglio, tuttavia, è la sfera privata della diaspora. Io sto cercando di insegnare il somalo ai miei figli. Parlo sempre loro in quella lingua. E a loro piace. È il nostro spazio privato, una dimensione in cui possiamo parlare una lingua che gli altri non capiscono. Ho chiesto a mia figlia, che ha dieci anni, perché le piacesse così tanto il somalo. E lei non mi ha risposto che le interessava dal punto di vista culturale: mi ha detto che le piaceva l’idea di poter comunicare privatamente con me nei luoghi pubblici, di potermi dire le cose usando un codice che ci estraniava da chi ci stava intorno. Forse Appadurai avrebbe dovuto fare quattro chiacchiere con lei.

GB: Sempre secondo Appadurai, gli indiani all’estero pare si riconoscano dalla loro ossessione per il cricket in tv. Come si riconosce un somalo all’estero?

NF: Non lo so. In realtà, non sono molto d’accordo con Appadurai neanche riguardo agli indiani e al cricket. Riconoscere le nazionalità dai piccoli particolari è un gioco molto difficile. Da cosa si riconosce un italiano?

GB: Dalla passione per il calcio, per esempio.

NF: Non penso sia così automatico. Molte persone sembrano somale, ma non è possibile dirlo con certezza. Si può solo tirare a indovinare: dalla camminata, per esempio. Ma si potrebbe trattare di un eritreo, o di uno yemenita. Con il diffondersi dell’immigrazione il mondo è diventato più piccolo. E più grande allo stesso tempo.

GB: I somali non hanno niente in comune?

NF: Forse il modo di vestire, la postura del corpo. Ma niente di significativo.

GB: Nel suo libro parla della nostalgia che contraddistingue la condizione del rifugiato. Si arriva a sentire la mancanza anche delle trombe d’aria, del vento e della sabbia del deserto.

NF: È inevitabile. Se uno crescesse sulle Alpi svizzere e poi si ritrovasse a vivere nel Sahara sarebbe la stessa identica cosa. Sono i piccoli dettagli che danno un senso alla vita di ogni giorno. A Città del Capo, nelle notti d’estate, se prendi un bicchiere d’acqua e lo lasci in cucina scoperto, la mattina lo ritrovi pieno di formiche. Gli insetti, assetati per il caldo estremo, vanno a bere l’acqua e affogano. Sono cose a cui ci si abitua, se si vive in uno stesso posto per trent’anni. E se per un qualsiasi motivo ci si trasferisce a New York, si prende in una notte d’estate un bicchiere d’acqua e la mattina dopo non ci si trova nessuna formica morta dentro, si è portati a credere di vivere proprio in uno strano posto.

GB: Lei parlava di una trappola in cui i rifugiati si trovano costretti. Cosa intendeva?

NF: Quando un rifugiato lascia il suo paese è disperato. Deve superare mille difficoltà, la sua stessa vita è in pericolo, sta scappando. Ma insieme alla disperazione, in lui c’è anche una forte dose di speranza. La speranza è il motore della partenza. Si scappa da un luogo per andare in un altro dove ci si aspetta di vivere una vita migliore. Si spera di sopravvivere, di migliorare le proprie condizioni. Questa speranza può diventare una prigione. Può non realizzarsi, e diventare qualcosa di vincolante, che ti impedisce di andare altrove. Una volta abbandonata la propria terra d’origine, il rifugiato diventa un senza patria. E lo resterà per sempre.

GB: Si potrebbe dire che il senso di appartenenza tipico delle comunità diasporiche deriva dall’esperienza di particolari sofferenze in patria.

NF: Ha ragione. I problemi fanno acquisire una maggiore coscienza della propria identità. Ci si chiede: “Io sono somalo. Perché tutto questo è successo proprio alla mia gente?” D’altra parte in Somalia crediamo che il modo migliore per conoscere davvero una persona sia averci a che fare quando abbiamo bisogno di lei: gli amici si riconoscono nelle difficoltà!

GB: Lei si sente a casa in Sudafrica?

NF: Io non sono un rifugiato. La mia condizione è molto migliore di quella vissuta dalla maggior parte degli altri somali. Sono benestante, quindi se volessi tornare in Somalia non dovrei fare altro che comprarmi un biglietto e andare. O se mi stancassi di vivere a Città del Capo potrei prendere armi e bagagli e venire in Europa, per esempio. La mia situazione è diversa da quella di chi è intrappolato nella propria condizione, di chi non ha più possibilità di scelta. Se però lei mi chiede se mi piacerebbe vivere in Sudafrica per sempre, le rispondo che non lo so. Sono felice perché posso tornare in Somalia quando mi pare, venire in Italia quando mi pare. Ma se non avessi questa possibilità, non so come andrebbero le cose.

GB: Il Sudafrica a suo parere è l’esperienza africana migliore, a livello di democrazia, di sviluppo, di benessere sociale? È una buona società, secondo lei?

NF: Non credo che esista una “società buona” nel mondo.

GB: Però il Sudafrica ha una stampa di qualità…

NF: Non direi. La stampa nigeriana è molto più energetica e varia, per esempio. Più interessante. Ho vissuto in Nigeria per nove anni e so di cosa parlo.

GB: C’è una stampa libera in Nigeria? Sembra difficile da credere. Quando si pensa alla Nigeria la prima cosa che viene in mente è Amina, la donna condannata alla lapidazione per aver concepito un figlio al di fuori del matrimonio.

NF: Sta confondendo le cose. Quel caso si riferisce a una particolare regione del nord della Nigeria, intrisa di fondamentalismo islamico, governata da personaggi che per rimanere al potere non hanno altro mezzo che distorcere gli insegnamenti dell’Islam. Non esiste un paese che non abbia problemi. E comunque, la scorsa settimana parecchie organizzazioni internazionali hanno accusato l’attuale governo non militare nigeriano di repressione e minaccia alla libertà d’espressione. Ora non vivo più in Nigeria, ma le dico che anche se ciò fosse vero, se le accuse si rivelassero fondate, ciò non toglierebbe la qualità della stampa nigeriana. Ho detto che è più energica, non che è più libera. In Sudafrica la stampa punta agli scandali, ai titoli che fanno vendere.

GB: Lei ama la Nigeria. Non altrettanto il Sudafrica.

NF: No, no! Adoro la Nigeria, ma mi piace anche Città del Capo. Se faccio un appunto su un paese, non vuol dire che intendo metterlo totalmente in discussione.

GB: Però non le sta simpatica l’Italia. All’inizio di un capitolo del suo libro c’è una citazione di Enzensberger abbastanza sarcastica sugli italiani.

NF: Bisognerebbe chiedere a lui, è una frase sua, non mia. Vorrei tornare al suo accenno ad Amina, che mi ha particolarmente colpito. Le spiego perché sta facendo confusione. Ho molti, bellissimi, ricordi dell’Italia e di Roma, molti amici italiani per cui darei anche la vita. Quando faccio delle critiche non esprimo dell’odio. Anche marito e moglie, quando litigano e si dicono cose terribili, non per questo mettono in discussione il futuro del loro rapporto. Conosco degli italiani adorabili, e mi dispiace di non poter avere con loro l’intimità che vorrei perché non vivo più qui da ventiquattro anni.

GB: Avrebbe potuto rimanere!

NF: Sono contento di essere venuto qui, di averci vissuto e aver conosciuto persone meravigliose. Ma sono anche altrettanto felice di essermene andato. Preferisco l’Africa, riesco di più a considerarla casa mia. L’Italia è strana. Stamattina ho chiesto a una cameriera di un ristorante in italiano dov’era il bagno e sembrava fossi invisibile. Le ho ripetuto la domanda in inglese e quasi mi ci voleva accompagnare lei per paura che non lo trovassi. Gli italiani ­ almeno una buona parte di essi ­ sono convinti che chi parla la loro lingua non sia degno di rispetto.

GB: La vita dei rifugiati in Italia è particolarmente dura perché sono neri o perché sono poveri?

NF: È dura perché il governo italiano non si assume nessuna responsabilità nei loro confronti. In Inghilterra o in Canada non è così, le istituzioni sentono di dover proteggere chi cerca asilo nel loro paese. In Italia la condizione del rifugiato è tradita. Non esiste neanche il concetto. Si è creata questa categoria ad hoc dell’immigrato che assolve il governo da qualsiasi responsabilità. Non esistono sfumature né distinzioni. Cos’hanno in comune un marocchino e un somalo? Nulla. Sono persone diverse, spinte da motivazioni diverse e che quindi vanno trattate diversamente. Bisogna studiare il loro caso, parlarci, rispettare le regole internazionali. Le racconto una storiella. Due somali arrivano insieme in Italia. Uno, più impaziente, dopo poco decide di trasferirsi in Canada, l’altro rimane a Roma. Cinque anni dopo, il primo diventa cittadino canadese. Torna in Italia e trova il suo amico allo stesso punto di quando l’aveva lasciato: senza lavoro, senza istruzione. Quando recentemente ottantanove somali sono morti abbandonati in mare dagli scafisti, c’è stato uno shock generale. Per due giorni tutti gli italiani si sono convinti che bisognava assolutamente fare qualcosa per i somali. Due giorni soltanto. Poi tutto è tornato come prima. Ecco la vostra carità cristiana. La responsabilità non è solo del governo, ma anche della popolazione.

GB: Per noi l’immigrazione è un fenomeno recente. L’Italia è stata per lungo tempo una società monoculturale.

NF: Lei sa quanti italiani hanno espatriato tra il 1860 e il 1960? In appena un secolo? Tra i 16 e i 18 milioni. E a quanti stranieri avete finora concesso l’ingresso nel vostro paese?

GB: Un milione circa.

NF: Non è giusto. Gli Inglesi si sono comportati diversamente. Molti di loro sono emigrati in Australia, hanno popolato nuove terre. Ma hanno anche aperto le porte del loro paese. Anche voi avete bisogno di nuove risorse, di nuova energia per crescere.

Published 10 March 2004
Original in Italian

Contributed by Reset © Reset Eurozine

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