La difficile rappresentanza in Europa

La storia politica del “nuovo vecchio mondo”, come Perry Anderson ha definito l’Unione europea (The New Old World, Verso, 2011), è stata caratterizzata da quello che studiosi e opinionisti hanno denominato “deficit democratico”. Fino a tempi recenti, la debolezza di legittimità democratica ha riguardato le istituzioni comunitarie, non il progetto europeo. Sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa ha personificato “valori universali” largamente condivisi e si è proposta come un faro per i “diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto”, come recita il Preambolo del Trattato di Lisbona. Il cosmopolitismo democratico, un capitolo importante della teoria democratica contemporanea, è una creazione dell’utopia europeista di estendere le norme democratiche oltre i confini nazionali per riuscire a governare la globalizzazione economica e proteggere la democrazia. Il “deficit democratico” è invece da imputarsi all’incompiuta integrazione politica dell’Unione per cui, mentre le competenze burocratiche si sono irrobustite, gli organi politici di accountability sono rimasti allo stato di crisalide.

Plenary room of the European Parliament in Strasbourg, France on 20 March 2013. Photo: Botond Horvath. Source: Shutterstock

Una conseguenza accertata dell’interruzione del processo di integrazione politica è stata il consolidamento di una “dominazione esecutivista” (rubricabile nella categoria del dispotismo illuminato) che, in concomitanza con la crisi economica, si è rivelata essere uno dei fattori scatenanti dell’antieuropeismo populista. Una dirigenza europea distante, non controllabile per vie democratiche e, in aggiunta, espressione sempre più marcata dello squilibrio di potere tra gli Stati membri: sono queste le accuse rivolte all’Ue che rischiano di minare il consenso sugli ideali. Dominazione esecutivista e ideologia antieuropeista stanno in un rapporto osmotico, con la conseguenza che all’opinione pubblica la proclamazione della fedeltà ai principi rischia di apparire come una costruzione ideologica funzionale allo status quo e smentita dai comportamenti politici della dirigenza europea. La sedimentazione di questa opinione ben più che euroscettica è l’aspetto più temibile dell’antieuropeismo che dominerà la prossima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, perché il suo linguaggio attraversa l’intero spettro politico e non è confinato ai partiti e movimenti di destra. Se fino a pochi anni fa le mancanze e le debolezze delle politiche europee erano ascritte all’incompiutezza dell’integrazione politica, oggi sembra che il problema sia lo stesso progetto di unione europea.

Nel suo recente messaggio alla Spd, Jürgen Habermas ha scritto che “i popoli europei hanno buoni motivi per volere una unione europea”: ebbene, questa opinione è forse meno condivisa oggi di quanto non lo fosse solo alcuni anni fa, e a metterla in discussione non sono solo i militanti delle destre xenofobe, se è vero che lo stesso Habermas ha usato parole dure per richiamare un partito europeista come la Spd alle sue responsabilità di contrastare la retorica antieuropeista invece di pensare di sfruttarla a proprio vantaggio (J. Habermas, La nuova Europa in quattro mosse, “la Repubblica”, 7.2.2014).

Ora, rispetto a questo scenario ideologico antieuropeista, l’incompetenza degli organi rappresentativi di determinare la governance dell’Unione potrebbe sembrare una circostanza felice e il deficit di democrazia un inconveniente virtuoso. Si tratta di un’ipotesi di lettura provocatoria che vale la pena sondare proprio al fine di apprezzare l’importanza di una politicizzazione dell’agenda dell’Ue, argomento con il quale chiuderò questa riflessione. Vediamo prima di tutto di esaminare schematicamente le interpretazioni del “deficit democratico”.

Almeno due sono le posizioni più rappresentative. In un caso, il deficit è stato definito e valutato in relazione al modello nazionale di democrazia, dove la rappresentanza svolge due funzioni, quella di rappresentare appunto la volontà degli elettori e quella di dare corpo al governo. È l’assenza di queste due funzioni tradizionali a livello di governo europeo a rendere l’Unione più impermeabile al controllo democratico. Se questo è il parametro per misurare la legittimità democratica, la ricetta per curare il “deficit democratico” non potrà che essere l’adattamento all’Europa di modelli nazionali (siano essi federali o confederali) senza i quali la rappresentanza non potrebbe svolgere le sue due funzioni. Una ricetta destinata al fallimento proprio per la natura non nazionale dell’Unione europea (L. Siedentop, Democracy in Europe, Penguin, 2001; J. Habermas, The Postnational Constellation, Polity Press, 2000). Nel secondo caso, la risposta e la diagnosi sono opposte: ha sostenuto Andrew Moravcsik che se per democrazia si intende controllo e monitoraggio dei poteri costituiti allora non esiste alcun deficit democratico, poiché le funzioni di governo della Ue sono comunque limitate dagli attori nazionali (democraticamente legittimi), sicché sarebbe ridondante appesantire l’organizzazione continentale di un ulteriore livello politico-partitico. Come si vede, in un caso, o l’Europa diventa una forma compiuta di governo rappresentativo sul modello di quello nazionale o resta un ibrido fallace; nell’altro caso, invece, non è necessario (e neppure desiderabile) che l’Europa diventi rappresentativa nel modo completo in cui lo sono gli Stati nazionali, mentre è sufficiente che l’ibrido Europa si stabilizzi codificando le sue funzioni amministrative e il metodo intergovernativo per meglio servire le esigenze degli Stati membri e il libero mercato (A. Moravcsik, In Defence of the “Democratic Deficit “: Reassessing Legitimacy in the European Union, “Journal of Common Market Studies”, vol. 40, n. 4/2002).

Se l’idea di modellare la struttura europea ai governi nazionali desta giustificato scetticismo (nello scorso numero del “Mulino ” Maurizio Ferrera ha ben ripercorso lo slalom infinito degli europeisti tra i modelli federalisti, semi-federalisti, confederali ecc.), la rilegittimazione delle procedure burocratiche non è più convincente. La proposta di ripensare la democrazia non più in alternativa ai poteri burocratici è stata argomentata da Pierre Rosanvallon, che ha proposto di rivalutare la funzione stabilizzatrice dei dipartimenti impolitici come la giustizia e soprattutto la burocrazia, le due gambe più solide dell’Unione (La Contredemocratie, Seuil, 2006). Ai corpi burocratici, tradizionalmente ritenuti antitetici alla politica e alla democrazia, Rosanvallon attribuisce due funzioni cruciali: forza d’integrazione e di solidarietà e forza di imparzialità, la seconda molto importante soprattutto nella democrazia in cui le decisioni politiche sono marcate da parzialità e partigianeria. L’Unione europea avrebbe dunque contribuito a fare emergere il valore legittimante del potere delegato, soprattutto quando attuato attraverso un capillare sistema regolatorio capace di imporre standard uniformi ai vari sistemi amministrativi nazionali e regionali. Le antiche concezioni ottocentesche della burocrazia, basate su una rigida gerarchia, il controllo centralistico dello Stato e il trattamento omogeneizzante di persone e questioni hanno lasciato il posto a una prassi diffusa e ramificata di regolamentazione attenta alle specificità locali.

L’Unione europea avrebbe insomma contribuito a emancipare l’amministrazione dal suo stigma, modificandone il carattere e facendone una risorsa per l’integrazione della società nella democrazia. Ecco perché, nella misura in cui l’Unione può consentire il monitoraggio e il controllo, i cittadini possono sentirsi attori nel ruolo di giudici che valutano l’efficacia della governance di Bruxelles attraverso l’impatto che ha sugli organismi periferici. Certo, non si tratta di partecipazione politica via rappresentanza, ma è comunque una partecipazione competente che garantisce sorveglianza del potere, un prerequisito centrale delle democrazie costituzionali. In questa cornice di contenimento della politica si colloca lo scetticismo per le proposte di risolvere il deficit democratico mediante iniezioni di accountability elettorale.

L’attuale crisi economica ha messo in discussione questa visione ottimista della funzione democratica della tecnoburocrazia. Soprattutto, ha mostrato i rischi populisti che la dominazione esecutivista può incubare senza peraltro riuscire a neutralizzare o sconfiggere. È la crisi economica che rilancia la politica e riporta al centro la questione del deficit democratico dell’Unione perché la risposta alle retoriche nazionaliste e antieuropeiste può venire solo dalla ripoliticizzazione delle questioni europee.

“La prosecuzione dell’attuale politica radicalizza il circolo vizioso: quante più competenze Consiglio e Commissione si arrogano nella politica di consolidamento, tanto più questo governare a porte chiuse spinge i cittadini alla consapevolezza del crescente peso della tecnocrazia” (Habermas, La nuova Europa in quattro mosse, cit.). Del resto, le ragioni di riallineare l’integrazione politica e quella economica sono da cercarsi nella conformazione dei mercati globali: il progetto europeo è un tentativo comune che serve ai governi nazionali per riuscire a recuperare a Bruxelles quella capacità di intervento che singolarmente hanno perso ( J. Habermas, A Constitution for Europe?, “New Left Review”, n. 11/2001). La proposta avanzata dopo la firma del Trattato di Maastricht da Lionel Jospin, di avviare cioè una robusta governance economica nella zona euro e progettare un’integrazione fiscale del continente, rispondeva a questa esigenza. Quel progetto restò nel cassetto, come l’integrazione politica, benché si trattasse di una scelta prudente, non utopistica, che doveva servire a neutralizzare due problemi (allora sul nascere) tra loro correlati: l’aggravarsi del “deficit democratico” a causa dell’incremento di prerogative della Commissione e soprattutto del Consiglio dei ministri e, come contraccolpo, l’insoddisfazione crescente dei cittadini europei, soprattutto dei Paesi più piccoli o economicamente più deboli, sulla quale ha fatto presa la propaganda anti-europeista orchestrata da Paesi esterni (ma collegati alla Ue da trattati commerciali di varia natura), come la Norvegia, la Gran Bretagna e la Svizzera.

Questa previsione fatta da Habermas nel 2001 non poteva essere più calzante: l’esito del recente referendum nella Federazione elvetica sulle restrizioni all’ingresso di lavoratori europei funge da amplificatore dell’ideologia xenofoba dentro l’Europa, dimostrando come il pattugliamento delle frontiere cominci a unire i popoli europei più saldamente di quanto non facciano i “valori universali” europeisti. Che cosa può opporre a tutto questo una Unione politicamente debole? Le critiche da Bruxelles alla Svizzera non valgono a nascondere il problema della gravissima crisi occupazionale nel vecchio continente: i movimenti nazionalisti dei Paesi europei si confessano invidiosi della libertà degli svizzeri di potersi opporre all'”arroganza dei burocrati non eletti di Bruxelles” (S. Erlanger, Swiss Vote Seen as Challenge to European Integration, “The New York Times”, 11.2.2014).

L’euroburocrazia non vale a legittimare l’élite europea anche per la sovrapproduzione di esecutivismo che la crisi economica ha accentuato (D. Curtin, Executive Power of the European Union. Law, Practices and the Living Constitution, Oxford University Press, 2009). In effetti, molto prima che la crisi venisse usata come argomento per giustificare celerità e discrezionalità nelle decisioni, le riunioni informali tra i ministri dei Paesi membri e i loro funzionari (i breakfast e gli incontri faccia a faccia nei vari club di Bruxelles) erano diventate un abito consolidato, raccontato con precisione analitica da Deirdre Curtis, la quale ha tra l’altro mostrato come, soprattutto in seguito al Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo (dei ministri), già centrale nella fisionomia dell’Ue, abbia accresciuto il suo potere diventando l’organo che stabilisce l’agenda dell’Unione in aree come la giustizia e la programmazione economica. Parallelamente è diminuito il potere di iniziativa della Commissione. “La professionalizzazione che il supporto al lavoro del Consiglio europeo richiede ha comportato un incremento della frequenza dei suoi incontri, che è molto al di sopra delle quattro volte all’anno come prescritto dall’Articolo 15 (3) Tfeu” (D. Curtis, Challenging Executive Dominance in European Democracy, “The Modern Law Review”, vol. 77, n. 1/2014, p. 8). Insieme è cresciuta la pratica dei trattati intergovernativi siglati a latere o fuori degli esistenti trattati comunitari (come nel caso del Fiscal Compact).

È questa l’Europa che si appresta a essere giudicata dai cittadini, un esempio nemmeno troppo nuovo di elitismo autoreferenziale che in aggiunta trasferisce i luoghi di decisione dagli organi comunitari a quelli intergovernativi, deprimendo nella pratica la consuetudine comunitaria a favore di quella nazionale. La “netta sterzata verso un federalismo “tra esecutivi”, con credenziali democratiche molto deboli” (M. Ferrera, L’Europa in trappola: come uscirne?, “il Mulino”, n. 1/2014, pp. 63-76) va dunque nella stessa direzione centrifuga nella quale vanno le ideologie dei movimenti di destra: verso un ritorno alla centralità degli interessi nazionali.

Possiamo a questo punto riprendere il discorso sulla natura del deficit democratico come deficit politico. Peter Mair e Jacques Thomassen hanno scritto che il fatto che la rappresentanza europea non svolga la doppia funzione che svolge nel governo rappresentativo nazionale (di rappresentanza della volontà dei cittadini e di designazione del governo) ha di positivo il fatto che, essendo meno ancorata alla dimensione governativa, essa può meglio controbilanciare gli interessi nazionali. Nel sistema europeo assistiamo a una nuova forma d’essere della rappresentanza, che è debole come processo politico ma efficace come strumento di rappresentatività (P. Mair e J. Thomassen, Political Representation and Government in the European Union, “Journal of European Public Policy”, vol. 17, n. 1/2010). Le opportunità implicite in questa sua debolezza governativa a fronte di una più forte rappresentatività sono tutte da esplorare, ma interessanti. Ora, proprio perché in Europa la rappresentanza non governa (né è in predicato di governare, neppure in vista dell’applicazione del Trattato di Lisbona, il quale ne conferma la natura nongovernativa), i partiti potrebbero avere una più ampia capacità di agire come soggetti ideologici invece che come cinghie di trasmissione degli interessi. Sulla scena nazionale i partiti non godono di ottima salute perché la loro funzione partecipativa si è erosa a scapito di quella governativa e istituzionale; ciò potrebbe far pensare che sulla scena europea essi siano meno esposti a questa sofferenza proprio perché in Europa non possono comunque svolgere la funzione di governo e sono, se così si può dire, costretti a esercitare più intensamente la funzione rappresentativa delle idee dei cittadini: “liberi dalle richieste di governo, i partiti a livello europeo potrebbero essere capaci di offrire un più robusto canale di rappresentanza di quanto non facciano i partiti a livello nazionale, dove il deficit democratico è perfino più forte” (Mair e Thomassen, Political Representation, cit., p. 27). Per quanto possa apparire azzardata, la generalizzazione di Mair e Thomassen può essere usata per confermare non solo il bisogno, ma anche la realistica possibilità di una ripoliticizzazione dell’agenda europea.

È la mancanza del bisogno di coordinamento tra i due livelli tradizionali della rappresentanza che rende le elezioni europee perfino più politicizzate di quelle degli Stati nazionali. Questa intuizione sembra confermata dalla crescente radicalizzazione delle posizioni ideologiche nell’imminente campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. Infatti, se non sono le policies o le specifiche proposte al centro del dibattito politico come avviene a livello nazionale è prevedibile che saranno le posizioni generali ad avere più largo campo. Più che nella dimensione politica nazionale, dove i partiti tendono a equivalersi per l’oggettiva limitata diversificazione delle soluzioni ai problemi concreti che sono a disposizione dei governi, nella dimensione europea è ragionevole attendersi una più accentuata divisione ideologica. “Ne segue che se le elezioni servono come strumento di democrazia che connette la volontà dei popoli europei alle funzioni decisionali del Parlamento europeo, la competizione tra i partiti e il comportamento degli elettori dovranno essere organizzati intorno alla dimensione destra/sinistra” (Mair e Thomassen, Political Representation, cit., p. 28).

Questa lettura si incontra con quella di Habermas, anche per il quale le imminenti elezioni europee offrono “per la prima volta la possibilità di una politicizzazione dell’agenda” perché l’applicazione del Trattato di Lisbona mette in essere la “democrazia rappresentativa “, benché non il governo rappresentativo. All’articolo 10A, il Trattato definisce l’Unione come una “democrazia rappresentativa ” nella quale i cittadini sono “direttamente rappresentati a livello dell’Unione nel Parlamento europeo” e partecipano con il diritto di voto alla “vita democratica dell’Unione”. Attori mediani di questa democrazia sono i partiti che “contribuiscono alla formazione della consapevolezza politica europea e all’espressione della volontà dei cittadini dell’Unione “. Il Trattato dà quindi ai cittadini “il diritto di partecipare” sia alla formazione del Parlamento europeo sia alla formazione della opinione politica con lo scopo di “tenere le decisioni più aperte e vicine possibile ai cittadini” (Habermas, La nuova Europa in quattro mosse, cit.).

La politicizzazione dell’agenda, che la struttura della rappresentanza a livello dell’Unione e le norme costituzionali comunitarie implicano, trova conferma nel carattere intensamente ideologico dell’attuale campagna elettorale per il Parlamento europeo. La lotta ideologica verterà essenzialmente sul significato dell’Unione europea, andrà cioè ai fondamenti del patto che ha segnato la storia della rinascita democratica del dopoguerra. Che le destre nazionaliste e antieuropeiste siano state le prime a scaldare i muscoli è indicativo dell’alta posta in gioco simbolica di queste consultazioni elettorali: la tensione tra i “valori universali” di libertà e democrazia e quelli identitari; il potenziale risvolto antidemocratico della mancanza di lavoro, una vera piaga per l’integrazione europea e la stabilità politica. Nel programma del Freedom Party olandese che ha siglato alla fine dello scorso anno l’alleanza elettorale con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen la retorica protezionistica e antiuniversalista (i diritti ai “nostri” contro gli “altri”) ha trovato largo spazio. L’attacco alle lobby ebraiche e della finanza si è combinato a quello contro la dirigenza burocratica europea e la tolleranza verso gli immigrati.

La retorica autoritaria si è tinta anche di un linguaggio cristiano nel nome del quale la lotta contro l’immigrazione diventa lotta contro la cultura islamica, scontro di civiltà e valori dai toni cupi e, purtroppo, facili da assimilare. L’alleanza tra destra olandese e francese, salutata dai rispettivi leader come “storica”, si è data l’obiettivo di “liberare l’Europa dal mostro di Bruxelles” e ha incassato in poco tempo l’adesione di altri partiti xenofobi: il Freedom Party austriaco, la Lega Nord, il People’s Party danese e il movimento svedese di destra. La destra europea si propone di detronizzare i mistici dell’euro e, insieme a loro, la cultura e la pratica dei diritti per cui l’Europa è andata fiera nel mondo.

Un’Unione fortemente sbilanciata a destra è un esito non irrealistico (come ha dimostrato la riforma costituzionale approvata lo scorso anno dal Parlamento ungherese, e non contrastata dall’Unione), anche perché le forze socialiste e democratiche non sembrano interessate o capaci di opporre proposte in grado di rilanciare il connubio lavoro-diritti e, nello stesso tempo, di introdurre cambiamenti significativi nei metodi decisionali degli organismi europei. Prendendo sul serio il paradigma della politicizzazione, c’è da augurarsi che per contenere questa ideologia nazionalista si formi un fronte capace di convogliare il malcontento nei confronti della dirigenza di Bruxelles verso un programma alternativo riconoscibile da tutti. Per ora, i partiti dello schieramento di centro e centrosinistra si astengono dal posizionarsi in questo senso e si stanno anzi rendendo responsabili di aiutare la propaganda antieuropea blandendo il sentimento nazionalista nel tentativo di attrarre voti. Il paradosso è che, mostrandosi tolleranti verso il linguaggio antieuropeo, rischiano di incrementare la popolarità delle idee rivali nel tentativo di sfruttarle a loro vantaggio. La strategia non è delle più felici anche perché, come hanno mostrato anni di studi sui comportamenti elettorali, gli elettori mossi da ragioni identitarie sanno riconoscere chi offre loro il prodotto originale da coloro che propongono imitazioni.

Published 13 May 2014
Original in Italian
First published by Il Mulino 2/2014 (Italian version); Eurozine (English version)

Contributed by Il Mulino © Nadia Urbinati / Il Mulino / Eurozine

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