Il mediterraneo dopo le rivolte del mondo arabo

Frank Westerman, nel suo libro El Negro e io ci racconta una storia incredibile che potremmo collocare nel XIX secolo, se non sapessimo che invece si svolge in un paese vicino a Barcellona nel 1992. Anno importante per la Spagna: l’Esposizione Universale a Siviglia, le Olimpiadi a Barcellona. Un medico haitiano Alphonse Arcelin visitando per caso il museo di storia naturale, Darder, dal nome del suo fondatore, a Banyoles, dopo essersi soffermato nelle sale che ospitavano uccelli, rettili, gorilla, entrò, a seguire, in una sala e si diresse verso una teca in cui c’era un uomo di colore impagliato. Westerman che aveva fatto lo stesso percorso, scrive nel suo libro: “Non eravamo al museo di Madame Tussaud. Non stavo ammirando un’illusione della realtà; questo boscimano non era un calco fatto per dare i brividi, e nemmeno una mummia trovata per caso nella torba o da qualche altra parte. Era un essere umano, scuoiato e poi impagliato come si fa con gli animali. C’era quindi stato qualcuno che l’aveva fatto, ed evidentemente, visto quali erano i rapporti, il preparatore doveva essere europeo bianco, e il suo oggetto un africano nero.” Il racconto continua con la ricostruzione della storia di quel boscimano, da dove veniva e come mai si trovava nel museo Darder di Banyoles.

Ma ritorniamo al dottore haitiano, il quale assalito dall’orrore di vedere quell’uomo impagliato organizzò una protesta attirando l’attenzione delle delegazioni alle Olimpiadi proprio perché le autorità spagnole avevano pensato bene di farlo, in omaggio ai visitatori dei diversi padiglioni allestiti per le Olimpiadi, di esporre la statua . Il boscimano fu quasi subito ritirato da quel luogo pubblico grazie alle proteste di molti ambasciatori, ma la polemica tra coloro che volevano che il boscimano rimanesse in quel museo e quelli che protestavano per quell’atto di inciviltà , si protrasse per diversi anni sino a quando, nel 2000, il governo spagnolo non decise di trasportare nottetempo in aereo “El Negro” in Botswana per dargli sepoltura.

A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto questo con il Mediterraneo e con le rivolte sulle quali intendiamo proporre alcune riflessioni e formulare alcune ipotesi di lettura? Apparentemente niente.

La storia che qui racconto però è paradigmatica della persistenza di uno schema culturale impregnato di razzismo, e rivelatore, a mio modo di vedere, di un radicato convincimento della propria superiorità non solo spagnola, ma della razza bianca. La persistenza di questi schemi culturali influenza inevitabilmente i nostri comportamenti e il nostro sguardo verso il diverso. Tutto ciò però non è ancora sufficiente a spiegare il nesso tra questo avvenimento e il Mediterraneo se non fosse per una ulteriore riflessione sulla situazione del Vecchio Continente che, a mio avviso, e caratterizzata da spinte contraddittorie: gli impulsi per l’affermazione dei valori di libertà, di democrazia, dei diritti fondamentali della persona umana convivono con una zavorra ideologica sulla nostra superiorità nei confronti di altri popoli. Quindi non bisogna mai dimenticare questo quadro di riferimento entro il quale si inaugura nel novembre del 1995 la Conferenza di Barcellona alla presenza dei rappresentanti politici di 27 stati: quindici della riva nord del Mediterraneo e dodici del sud. L’ evento viene presentato come una svolta nella politica tra le due rive del Mediterraneo e tutto faceva sperare che lo fosse. Nei documenti ufficiali dell’UE si può leggere in sintesi quale erano gli obiettivi che tale Conferenza e la relativa Dichiarazione finale intendevano raggiungere.

“La presente dichiarazione- si può leggere- è l’atto fondatore di un partenariato globale tra l’Unione europea (UE) e dodici paesi del Sud del Mediterraneo. Lo scopo del partenariato è di rendere il Mediterraneo uno spazio comune di pace, stabilità e prosperità, attraverso il rafforzamento del dialogo politico e sulla sicurezza, la cooperazione economica e finanziaria, sociale e culturale.”

Strana situazione quella dei primi anni ’90. El Negro a Barcellona, le certezze sbandieriate dalla Dichiarazione, la speranza, non priva di un certo convincimento, di poter risolvere il conflitto israelo palestinese, considerato a ragione la causa principale dell’instabilità della regione mediterranea. E poi, l’euforia della fine della guerra fredda, il diffondersi dei conflitti etnici,nazionalisti e di matrice religiosa, sostenuti dalla folle convinzione della necessità di una purificazione sociale. La guerra del Golfo. L morte di Rabin assassinato il 4 novembre 1995, ventitré giorni prima dell’apertura ufficiale della Conferenza di Barcellona. Un quadro certamente incompleto di questo periodo storico, ma capace di farci intuire la contraddizione in cui si dibatteva l’azione dell’UE caratterizzata da una politica mediterranea volontaristica, affascinante nella sua formulazione, ma senza fondamenta perché priva, come direbbe Pierre Vidal-Naquet, di un solido rapporto tra memoria e presente. Come è possibile pensare a rapporti nuovi e diversi con il sud del Mediterraneo senza intrattenere una memoria della colonizzazione, sconfiggendo le politiche dell’oblio o della memoria addomesticata? Questo nodo pesa quanto un macigno, ma l’Europa, l’Occidente tutto non riesce a rimuoverlo. Si è piuttosto inclini a trovare formule più accattivanti come quella di Barcellona che individuava nei paesi del sud del Mediterraneo non più paesi in via di sviluppo o non più, nella formulazione più accattivante, paesi terzi non comunitari, ma addirittura paesi partner di quelli della riva nord. Formulazioni evocative di uno status senza fondamento, buone per farci qualche convegno.

Guido Piovene scrisse un volumetto dal titolo molto suggestivo: Processo dell’Islam alla civiltà occidentale pubblicato per i tipi Mondatori nel 2001. In esso veniva riportato il dibattito organizzato nel 1955 alla Fondazione Cini, da Francesco Carnelutti, Pasquale Saraceno, Giorgio Bausani, Francsco Gabrieli, Giorgio Levi della Vida ed altri, con altrettanti prestigiosi intellettuali arabo musulmani, dal titolo che poi fu lo stesso per il libro di Piovene. Un intervento particolarmente seguito fu quello dell’intellettuale egiziano Taha Hussein, il quale a proposito del colonialismo, sintetizzò così il suo pensiero:

“Gli occidentali furono discepoli degli orientali; poi, superatili, ne divennero maestri, e insieme oppressori. L’Occidente ha insegnato agli orientali i metodi della ricerca scientifica; ha svegliato il mondo dell’Islam; gli ha dato coscienza dei suoi diritti; ma nello stesso tempo l’ha oppresso. Bisogna individuare i colpevoli. Incolpevoli gli scienziati, i veri uomini di pensiero. Nessuna opposizione tra il Cristianesimo e l’Islam; nessun processo al Cristianesimo. Non bisogna mettere in conto alla religione i peccati che i cristiani commettono; essi peccano contro la loro religione quando colonizzano l’Islam senza giustizia e carità. Innocente anche il popolo, vero depositario della civiltà. La colpa è tutta dei politici, degli uomini d’affari, industriali, banchieri, fautori e autori della colonizzazione. Colonizzazione ipocrita, giacché prende il pretesto di salvare, redimere, beneficiare i Paesi arretrati…” e Taha Hussein continuava: “Da biasimare è anche la vanità, per cui gli occidentali credono di contare maggiormente davanti a Dio.”( Cfr. Franco Rizzi, L’Islam giudica l’Occidente, Lecce 2009 ) Di fronte ad un’analisi di questo genere, bisogna chiedersi se effettivamente la proposta politica dell’Europa verso il Mediterraneo registra elementi di superamento di questi schemi culturali così come Taha Hussein descrive il rapporto tra le due rive. Quali sono a tutt’oggi le categorie mentali con le quali leggiamo questa realtà mediterranea? Prendiamo ad esempio il discorso pronunciato da Nicolas Sarkozy il 26 luglio 2007 a Dakar. Dopo aver liquidato il colonialismo come un errore del passato su cui non ci si deve soffermare perché non è salutare, secondo l’ex presidente della Repubblica francese, rimuginare il passato, iniziò ad elencare gli aspetti folcloristici dell’Africa, ricordando la supremazia dell’Europa che rappresenta “l’aspirazione alla libertà, all’emancipazione, alla giustizia…” contrariamente all’Africa che insegue sogni “immobili”. Una posizione che sarà ribadita anche nel caso dell’Algeria, per la quale, secondo Sarkozy, una buona politica significa girare pagina, a condizione, aggiungiamo noi, di leggere tutte le pagine del libro e non solamente sfogliarle, per non arrivare alla fine senza aver capito nulla. Né vanno dimenticati i tentativi di Chirac di introdurre, con la legge dei 23 febbraio 2005, un insegnamento per le scuole che sottolineasse gli aspetti positivi del colonialismo francese.

A questo attivismo dei cugini d’Oltralpe ha fatto da sponda il silenzio italiano, un silenzio rotto da alcuni intrepidi universitari e da Angelo Del Boca che però non sono riusciti a scalfire il mito di “Italiani brava gente”. La nostra storia coloniale è in gran parte lasciata scivolare nell’oblio con conseguenze diseducative per le giovani generazioni, a cui si offre lo spettacolo avvilente degli abbracci, dei baciamani tra Gheddafi e il nostro ex presidente del Consiglio.

Pur nella sua incompletezza, possiamo però dire, che questo era il quadro di lavoro nel quale si elaboravano le linee di politica mediterranea dell’UE. Quindi non c’e da meravigliarsi se nel 2005, la celebrazione dei dieci anni di Barcellona si svolse in tono dimesso, facendo registrare una partecipazione limitata dei paesi della riva sud.

Il sogno di realizzare una regione mediterranea caratterizzata dalla pace e da una ricchezza condivisa si frantumava per le diverse contraddizioni che contraddistinguevano l’azione dell’UE, prima fra tutte l’inesistenza di una politica estera fondata sul ripensamento profondo dei rapporti fra le due sponde del Mediterraneo. Non si può essere maestri di democrazia, di libertà e per salvaguardare i propri interessi essere complici delle più spietate dittature. Constatato il fallimento di Barcellona, gli Stati europei non analizzarono le cause di tale fallimento, ma si attrezzarono per una politica che a loro parere doveva proteggerli dai flussi migratori e dal terrorismo di matrice islamica. E’ una svolta che in un qualche modo rende ancora più esplicito l’appoggio alla politica di Gheddafi, Ben Ali , Mubarak, Assad, alle monarchie del Golfo con l’argomento che questi uomini forti e i loro regimi avrebbero garantito la sicurezza all’Europa. Nicolas Sarkozy liquidò quindi il processo di Barcellona e fu l’artefice più importante di una nuova formulazione politica dei rapporti tra le due rive del Mediterraneo con la creazione dell’Unione Per il Mediterraneo (UPM),inaugurata a Parigi il 13 luglio 2008. Vi fu meno entusiasmo fra i governi delle due rive e a parte la foto di gruppo che incoronavano Sarkozy e Mubarak co presidenti, il tono degli interventi furono improntati ad esaltare una presunta concretezza dell’UPM rispetto a Barcellona a causa dell’individuazione di alcuni progetti che si sarebbero dovuti realizzare. La stampa araba accolse l’iniziativa con una certa freddezza per non dire ostilità come dimostra questo articolo di Abd al Bari Atwan pubblicato in Al-Quds Al Arabi il 12 luglio 2008 dal titolo significativo, L’obbiettivo dell’Unione Mediterranea: addomesticare gli arabi. “Il dialogo tra i popoli del Mediterraneo – scrive Bari Atwan – e fra i loro condottieri è avvenuto il più delle volte con la spada e le cose sono andate avanti in questo modo fino alla metà del secolo scorso, quando la sponda meridionale e quella orientale del Mediterraneo furono assoggettate al colonialismo francese, britannico e italiano. Oggi si affaccia all’orizzonte un tentativo di cambiare gli strumenti al fine di realizzare gli stessi obiettivi in maniera che potrebbero sembrare più civili, all’apparenza”. E ancora “Noi siamo a favore di qualsiasi rapporto di cooperazione fra i paesi del Mediterraneo meridionale ed orientale e i paesi del Mediterraneo settentrionale, a condizione che tale cooperazione avvenga su una base di parità e salvaguardi gli interessi condivisi di entrambe le parti, senza alcuna forma di supremazia e senza dar vita ad un rapporto tra padrone e schiavo. Tuttavia ciò a cui assistiamo attualmente è il riproporsi di una visione egemonica europea che guarda ai paesi del sud come a un enorme serbatoio da sfruttare a livello commerciale e umano, e come ad un’occasione d’oro per spartirsi i profitti”.

Sin dalle prime fasi della sua costruzione l’Europa ha guardato al Mediterraneo con un misto di volontarismo e di senso di colpa a causa della sua politica coloniale e postcoloniale che però non le ha impedito di immaginare per questi paesi della riva sud politiche di intervento che favorissero il loro sviluppo rimanendo sempre ancorati ad una logica di stampo coloniale. Allo stesso tempo il discorso politico si attrezzava lungo una linea ideologica che non teneva conto del trauma che questi paesi avevano subito a seguito della politica imperialista europea e alla successiva decolonizzazione. Questo nodo era lì e nessuno si azzardava a intraprendere un cammino per scioglierlo come è stato per altre vicende dolorose che hanno riguardato l’Europa, come ad esempio l’olocausto. Il sogno di una politica globale che inserisse il Mediterraneo in un quadro europeo portava quindi in sé la contraddizione di cui dicevo prima, tanto da esplicitarsi nell’individuazione di linee politiche astratte a cui i paesi del sud dovevano aderire.

La Dichiarazione di Barcellona del 1995 è stata l’esempio di scuola. Il suo fallimento, contrariamente a quanto normalmente si dice, non è dipeso da una incapacità tecnica di realizzare cose concrete, ma soprattutto dalla mancanza di una visione politica che relegava il nodo della memoria del passato ad una affrettata pagina di storia da girare o da dimenticare. Allo stesso tempo, e giustamente, avanzavano, dopo la seconda guerra mondiale, nella coscienza civile europea i principi di libertà e di democrazia, senza che la loro mancanza di applicazione costituisse però un impedimento quando si trattava dei paesi della riva sud del Mediterraneo governati da dittature sanguinarie: gli affari sono affari. Allora cosa rimaneva da fare se non rivestire vecchi comportamenti con un discorso ideologico a cui intere generazioni di giovani hanno creduto: “fare del Mediterraneo – così recitava la Dichiarazione – un mare di pace e di ricchezza condivisa”. Nessuno però sapeva come fare. L’ideologia andava da una parte e la storia dall’altra.

In questa cornice ha avuto buon gioco il terrorismo islamico che ha frapposto la sua politica del terrore ad ogni tentativo di portare a termine qualsiasi iniziativa di dialogo e paradossalmente diventando funzionale alla politica occidentale fondata sulla paura dell’estremismo, in parte fondata, in parte fittizia.

In ogni caso questo stato di cose ha legittimato una serie di schemi mentali attraverso i quali noi occidentali abbiamo guardato il mondo arabo musulmano. In questo contesto non ci sembrava stravagante chiedersi se l’Islam fosse compatibile con la democrazia né tantomeno organizzare convegni e seminari su questi temi; né avevamo alcun problema a fare nostro il leitmotiv della incompatibilità dell’Islam con l’Occidente, con la relativa conclusione dell’inevitabilità dello scontro tra queste civiltà. Anche l’esportazione della democrazia e la lotta al terrorismo era un topos a cui si faceva ricorso per giustificare la guerra in Iraq e in Afganistan.

Cosa è rimasto di tutto questo bagaglio di luoghi comuni alla luce delle rivolte del mondo arabo: quelle riuscite, quelle in corso, quelle che registrano, come in Siria, migliaia e migliaia di morti senza che il potere sia stato capace di mettere a tacere la ribellione popolare? Questi schemi con cui leggevamo il mondo arabo musulmano sono miseramente caduti e noi occidentali ci troviamo nudi alla meta. Questa è la vera ragione per cui non sappiamo dire nulla se non chiacchierare su possibile derive islamiste. Ancora una volta grazie al nostro spirito eurocentrentico ci ergiamo a maestri su ciò che sarebbe auspicabile che questi paesi, attraversati da un cambiamento profondo, facessero perché la primavera non sprofondi in un cupo inverno. Quali sono gli aiuti concreti che l’Occidente sta predisponendo, e non parlo solo di quelli economici finanziari, mi riferisco soprattutto, all’apporto di idee e di sostegno a questo periodo delicato di transizione? Si sente solo il rumore assordante del silenzio. La scena si anima solo quando Sarkozy e Cameron prima, Erdogan poi vanno in Libia a rivendicare la primauté del loro intervento ricordando ai libici che i loro Paesi dovranno avere un posto privilegiato nella spartizione delle ricchezze di quel territorio così martoriato. La storia non insegna proprio niente.

Se è vero come è vero che il deficit più grande che caratterizza la nostra società è la mancanza di una visione strategica del Mediterraneo alla luce delle rivolte arabe, se è vero che le categorie mentali con le quali abbiamo sempre letto la politica e gli andamenti delle società dell’altra riva sono obsolete, bisogna attrezzarsi per capire dove sta andando il Mediterraneo.

“Lo tsunami che ha sconvolto il Mediterraneo e il mondo arabo, – scrive Lucio Caracciolo nella prefazione al mio ultimo libro, Mediterraneo in rivolta– dalla penisola Arabica al Maghreb e ritorno, segna la fine di un lungo status quo. Quello determinato dalla sconfitta di tutte le potenze europee – Francia e Gran Bretagna incluse, anche formalmente vincitrici – nella Seconda Guerra Mondiale. Negli anni ’50 e ’60 si compie il processo di decolonizzazione, in molti casi più apparente che sostanziale. Le potenze occidentali, sotto il semi protettorato degli Stati Uniti in quanto garanti di ultima istanza rispetto la minaccia sovietica, cominciano a concedere l’indipendenza alle loro ex colonie arabe o medio orientali. Si installano dovunque regimi autoritari. Presidenti e monarchi possono fare quel che vogliono alle loro popolazioni purché garantiscano agli occidentali l’accesso privilegiato alle risorse energetiche ed evitino di schierarsi sulla scena internazionale, contro di esse.”
Questa politica con cui l’Occidente aveva costruito le sue sicurezze si è sgretolata di fronte alle rivolte del mondo arabo. Cosa rimane dei nostri strumenti di analisi con i quali abbiamo giudicato e classificato il mondo arabo? Quale significato assume oggi la parola d’ordine propagandata in tutte le salse che la missione dell’Occidente era quella di esportare la democrazia? E che cosa è rimasto del pericolo di uno scontro delle civiltà attraverso il quale abbiamo voluto leggere qualsiasi posizione che non fosse conforme ai nostri schemi culturali?

Poca cosa, perché le rivolte del mondo arabo, pur nella loro peculiarità e differenza da paese a paese, non si sono connotate per uno spirito antioccidentale, ma hanno mirato, dopo anni di tentativi falliti, alcuni dei quali maldestri, alla ricerca di una loro fisionomia di popolo in un quadro giuridico e antropologico dato e molto spesso negato dalle ingerenze esterne ed interne. Allo stato attuale del processo di transizione questo obiettivo non é stato raggiunto per diversi motivi: fra questi è da registrare, come in ogni rivoluzione, la presenza di interessi legati ai vecchi regimi; di nuovi che si affacciano senza paura di essere repressi sulla scena politica, come le componenti religiose; di nuovissimi come le forze che si liberano in ogni movimento di piazza e che non riescono a darsi una stabile rappresentanza politica. Noi guardiamo tutto questo senza sapere cosa dire. Della nostra sicurezza politica, di analisi, del nostro convincimento ideologico sull’importanza del Mediterraneo per il futuro dell’Europa, sembra essere rimasto molto poco. Si è vero stiamo vivendo una crisi economica, politica e culturale di vaste proporzioni e la nostra mente è distratta da questi problemi. Nonostante ciò rimangono pur sempre gli atteggiamenti mentali dei vecchi tempi quando insegnavamo e spiegavamo al mondo arabo cosa doveva fare. Così la nostra meraviglia, mista di preoccupazione, si focalizza sulle vittorie elettorali delle componenti religiose islamiche e discettiamo se seguiranno o meno un modello di Stato organizzato come quello turco. Così facendo perdiamo di vista, secondo me, l’aspetto più importante che caratterizza oggi queste rivolte e cioè che il processo rivoluzionario non è ancora concluso, come lo dimostra la Siria, le preoccupazioni che manifestano le monarchie del Golfo e in generale l’instabilità della regione. Né pensiamo possa essere una formula politica anziché un’altra capace di chiudere il processo rivoluzionario. E’ una scossa molto profonda quella che si è verificata nei paesi del sud del Mediterraneo e quelle che possono seguire saranno lunghe e difficilmente prevedibili, perché andranno a toccare quegli Stati che apparentemente sono stati risparmiati sin’ora.

Si ha l’impressione che un fantasma si aggira per il mondo, questa volta, ed è la prima volta nei tempi moderni, prende le mosse dal sud per andare verso il nord. Simbolicamente non è poco. Esso è portatore di cose vecchie e nuove, ma la cosa più importante è che va dicendo in giro che è possibile cambiare.

Published 31 October 2012
Original in Italian
First published by Alternative per il Socialismo 22/2012 (Italian version); Eurozine (English version)

© Franco Rizzi / Alternative per il Socialismo / Wespennest / Eurozine

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