Gli intellettuali europei hanno fallito

Verso la fine dell’anno scorso, mentre la crisi dell’Eurozona toccava di nuovo l’apice, diversi giornalisti della stampa specializzata tedesca mettevano in guardia i loro lettori su un aspetto della crisi che, fino a quel momento, aveva ricevuto scarsa attenzione. Infatti, se con la crisi dell’euro, erano emersi il fallimento dei banchieri centrali dei paesi europei, i burocrati greci, gli evasori italiani, Angela Merkel (dipende dai punti di vista), non era però emerso il generale fallimento degli intellettuali.

Perché gli intellettuali non avevano difeso le grandi conquiste dell’integrazione europea? Perché non avevano espresso alcuna visione positiva del futuro del continente, invece di dilapidare il grande patrimonio di fiducia e di comprensione tra gli europei, coltivato nel corso dei decenni? Che cosa facevano? Dormivano nonostante la crisi che sarebbe potuta sfociare nel ritorno odioso di nazionalismi o addirittura di conflitti armati, come vecchi statisti europei del calibro di Helmut Kohl ancora non si stancano di ripetere?

Negli ultimi anni, si è discusso intensamente della possibilità di una “grande narrazione” che includesse Est e Ovest in una storia europea condivisa.1 Quanto pesano, oggi, le interpretazioni controverse sugli eventi storici recenti che hanno unito e diviso le società europee?

Intellettuali e traditori: rileggere Julien Benda

L’idea di un “fallimento”, se non addirittura di un “tradimento”, degli intellettuali ha avuto origine nel XX secolo, generalmente considerato come “l’era delle ideologie”: le idee non erano importanti solo in sé, ma potevano essere tradotte direttamente in politica e diventare forze devastanti. Basti pensare alla famosa osservazione di Czeslaw Milosz sul fatto che, nell’Europa della metà del secolo scorso, “gli abitanti di molti paesi europei sono arrivati alla conclusione spiacevole che il loro destino potesse essere influenzato in modo diretto da libri di filosofia intricati e astrusi”. Gli intellettuali salivano sul palcoscenico della storia del mondo, partecipavano al dramma sanguinoso della battaglia tra liberaldemocrazia, fascismo e comunismo sovietico.

Se era questo il loro ruolo, in che cosa avrebbero “fallito”? Nel non recitare nel modo giusto le battute che l’ideologia prescriveva? Nel 1927, il saggista e moralista francese Julien Benda accusava i suoi colleghi scrittori e filosofi, che prendevano le difese di posizioni nazionalistiche, di tradire la loro vocazione: i veri intellettuali, sosteneva, avrebbero dovuto parlare in modo franco e diretto con il potere, invece di darsi da fare solo per promuovere l’interesse nazionale. Non solo: anche gli intellettuali che difendevano gli ideali universalistici e comunisti venivano accusati di tradimento, soprattutto per aver creduto alle menzogne di Stalin e per aver chiuso un occhio sui limiti sempre più evidenti dell’Unione Sovietica.

Un “oggetto politico non identificato”

Ma davvero si può sfasciare l’Europa? L’intero vocabolario del fallimento ci può colpire oggi per la sua varietà: gli intellettuali non sono scolaretti che vengono bocciati da altri intellettuali e non sono neanche vincolati dai codici di comportamento propri dei professionisti esperti. Ma anche se la situazione in cui si trova l’Europa del XXI secolo è differente, non è detto che gli intellettuali, rispetto ai valori liberaldemocratici, non possano interpretare le cose in modo sbagliato: possono infatti diventare nazionalisti rabbiosi, avallare tacitamente nazionalismi nascenti non essendosi pronunciati pubblicamente contro di essi, o addirittura tacere della profonda ingiustizia di quanto si sta attualmente facendo nel nome dell’austerità e della correttezza fiscale.


Prendiamo due esempi banali, Grecia e Germania. Se i rapporti tra i due paesi a livello poli-tico sono rimasti relativamente composti, le rispettive società civili lo stanno diventando sempre meno. In Piazza Syntagma, i dimostranti brandiscono cartelli (con lo slogan Memorandum macht frei) che paragonano il nuovo regime imposto dall’UE a Dachau. C’è perfino un partito che di anti-tedesco ha tutto tranne il nome, “Greci indipendenti” (“Anexartitoi Ellines”), che promette resistenza contro il “Quarto Reich” e che non perde occasione di alludere all’occupazione tedesca negli anni Quaranta. In Germania, d’altro canto, anche se non esistono retoriche e simbolismi che accostano passato e presente (per ovvie ragioni), tuttavia sono piuttosto diffuse le lamentele sui meridionali pigri, tra l’altro incoraggiate da una stampa scandalistica e irresponsabile.

Ma allora perché non ripartire dal modello di Benda e adattarlo al contesto europeo? Perché la missione primaria degli intellettuali non torna a essere quella di denunciare le ingiustizie, di lanciare J’accuse! verso chi le commette, di parlare in modo franco e diretto con il potere di Bruxelles, cioè di Speak truth to power?2 Il problema qui è questo: non è affatto scontato che l’Europa – e più specificamente l’UE – debba diventare il luogo in cui dibattere questioni morali del genere. Pensiamo alle diseguaglianze socioeconomiche su larga scala. Che esistano in Europa è certo, ma le diseguaglianze intraeuropee diventano moralmente irrilevanti, se le si paragona a quelle su scala globale. Le diseguaglianze globali sono uno scandalo quotidiano. Le differenze di reddito all’interno dell’Europa meritano un’attenzione seria da parte delle scienze sociali e possono anche diventare l’oggetto di proteste, ma, nonostante tutto, non generano una grande indignazione morale.

E che dire, si potrebbe obiettare, del tanto lamentato “deficit democratico” delle istituzioni europee? È qui che ci avviciniamo a quello che mi sembra essere uno dei ruoli propri – anche se piuttosto modesto – degli intellettuali europei di oggi. L’UE è stata notoriamente definita – e nientemeno che dal capo della sua stessa Commissione – un “oggetto politico non identificato” (e se non è riuscito a identificarla Jacques Delors, chi può riuscirci?). Messa in modo più drammatico: l’UE è l’innovazione istituzionale più importante dalla creazione dello Stato sociale moderno, ma è davvero molto difficile darle un senso e capire come funzioni realmente. I collegamenti complessi tra gli stati nazionali europei e Bruxelles possono risultare praticamente inestricabili persino ai più navigati insider del gioco politico europeo – e le questioni della legittimità e di come questa possa fondarsi nell’esperienza vissuta dei cittadini europei sono, se possibile, ancora più difficili da sciogliere. In questo campo, gli intellettuali potrebbero avere il ruolo che io chiamerei di chiarificatori: da un lato, potrebbero farsi carico di spiegare l’Europa al loro pubblico; dall’altro, di tracciare i contorni, e questo è fondamentale, delle scelte normative per lo sviluppo dell’UE, o per come la conosciamo o, forse, per la creazione di politiche completamente diverse – ad esempio, politiche per una reale democrazia sovranazionale, in contrapposizione a un contesto in cui la legittimità delle azioni dell’UE deriva, in ultima istanza, dagli atti dei parlamenti nazionali.

Qualcuno che spieghi l’Europa

Qualcuno potrebbe trovare questa visione del ruolo degli intellettuali un tantino deprimente. Non dovrebbero essi combattere per essere qualcosa di più, rispetto a ciò che negli USA viene spesso genericamente chiamato “intellettuale pubblico” (definizione con cui gli americani intendono semplicemente gli accademici che in pratica spiegano qualcosa a un pubblico istruito), in una parola, l’esperto? Niente affatto. Il punto è che gli intellettuali, che svolgono il ruolo qui prospettato, non dovrebbero essere soltanto impegnati in quella che i francesi, con espressione meravigliosa, chiamano “volgarizzazione”; dovrebbero anche valutare le argomentazioni normative, affinché i cittadini europei siano in grado di elaborare propri giudizi morali e politici sulla destinazione finale di quel loro “oggetto politico non identificato”. Vale a dire, chiarificazione e giustificazione pubblica dovrebbero viaggiare assieme. Questo è anche un ruolo eminentemente democratico: non si tratta di scatenare entusiasmi per una visione particolare (cosa che gli addetti alle pubbliche relazioni dell’UE cercano a volte di fare con i ben noti risultati disastrosi: si veda per esempio il video sulla superdonna bianca europea che soggioga svariati barbari – asiatici, neri, arabi – tramutandoli, guarda un po’, nelle stelline gialle della bandiera europea).3 Si tratta piuttosto di rendere chiare le opzioni e il loro significato dal punto di vista morale, per poi lasciare la decisione ai popoli d’Europa.

L’esempio tipico di questo genere di lavoro sono gli interventi di Jürgen Habermas che non è soltanto l’intellettuale europeo più importante, ma anche l’intellettuale che più si dedica al significato dell’UE e ai suoi futuri potenziali. I dettagli delle analisi di Habermas possono risultare provinciali dal punto di vista intellettuale (Perry Anderson ha recentemente notato come, nell’ultimo saggio di Habermas sull’Europa, tre quarti dei riferimenti siano ad autori tedeschi e il resto ad angloamericani; come a dire che, nel resto d’Europa, gli intellettuali non esistono). Si può criticare Habermas per la sua disattenzione verso l’esperienza di vita degli europei nel continente. Si possono trovare le sue soluzioni irrimediabilmente idealistiche. Eppure rimane il fatto che esiste un intellettuale che cerca in buona fede di imparare dagli esperti, di spiegare ciò che lui ritiene, giusti o sbagliati che siano, essere le conquiste, i difetti e il potenziale normativo dell’Unione, e dunque di promuovere un serio dibattito politico. In altre parole, si può rifiutare il contenuto di quanto propone Habermas, e comunque trovare convincente il modello che ci fornisce per l’impegno intellettuale verso l’Europa. Ma non è l’unico, di modello: esiste un altro ruolo per gli intellettuali europei, che veniva dato quasi per scontato ed è ora invece a rischio di estinzione. Come spesso è stato rilevato, fino almeno agli anni Trenta del Novecento, esisteva un’autentica Repubblica Europea delle Lettere, in cui scrittori e filosofi non avevano difficoltà a dialogare l’uno con l’altro al di là dei rispettivi confini e spiegavano ai loro lettori anche le altre culture nazionali. Si può pensare alla straordinaria relazione tra uno Stefan Zweig e un Romain Rolland, o al lavoro di uno studioso della letteratura come Ernst Robert Curtius. A onor del vero, tutto ciò avveniva al livello di quella che oggi verrebbe liquidata come pura “cultura alta”, ma il punto è che queste cose erano la realtà dell’epoca. E quel fermento, anche se con vena diversa, è sopravvissuto, almeno per un po’ dopo la Seconda guerra mondiale, quando era incombente l’imperativo della riconciliazione. Si pensi a figure come Alfred Grosser e Joseph Rovan, che hanno spiegato i tedeschi ai francesi e viceversa. Costoro non sono stati gloriosi apologeti di vezzi nazionali, o mediatori che sarebbero silenziosamente scomparsi al compiersi del riavvicinamento. Avevano una loro statura, ma in pratica giocavano il ruolo di sofisticati traduttori culturali e mediatori politici.4

E ora? A questo punto è ragionevole pensare che, più l’Europa si integra dal punto di vista politico, legislativo ed economico, più i singoli stati-nazione diventano provinciali e autoreferenziali dal punto di vista culturale. Easyjet e il festival in Eurovisione non sostituiscono la Repubblica delle Lettere, dove gli intellettuali intrattenevano un rapporto autentico con almeno due o tre diverse culture europee.5

Intellettuali “chiarificatori” ed “esplicatori”

Per quanto riguarda la creazione di una sfera pubblica autenticamente europea, non esiste una panacea. Si può solo sperare che i singoli individui diventino più curiosi, più disposti a capire quanto quest’opera di traduzione e di mediazione sia feconda. Il tutto può suonare ovvio, ma è davvero un obiettivo urgente, in particolar modo in questa congiuntura critica, ma non solo. Prendiamo un esempio banale: i tedeschi (e altri “nordici”) devono comprendere la storia della guerra civile greca, il modo in cui lo Stato greco è stato usato per pacificare una società profondamente polarizzata, e come i soldi europei sono serviti a creare una classe media che aiutasse i partiti a rimanere al potere, ma che diminuisse anche i pericoli di un rinnovato conflitto sociale (sia chiaro, nessuna di queste ragioni giustifica la corruzione e uno Stato che in generale non funziona – tout comprendre, ce n’est pas tout pardonner). Al contrario, sarebbe utile che gli osservatori al di fuori della Germania facessero un po’ i conti con la particolare forma di economia liberale che, per molto tempo, ha animato le politiche di Bonne di Berlino: quella strana cosa chiamata “ordoliberalismo”, i cui portavoce si consideravano i veri “neoliberisti” – liberisti che avevano appreso le lezioni della Grande Depressione e dell’ascesa delle dittature nel XX secolo, e che infatti non volevano che il liberismo fosse ridotto a mero laissez-faire. Secondo loro, i sedicenti neoliberisti come Ludwig von Mises non erano che “paleoliberisti”, rimasti fermi, quanto ad autoregolamentazione dei mercati, alle ortodossie ottocentesche. I neoliberisti tedeschi, d’altra parte, volevano uno Stato forte, capace e disposto non solo a fornire un sistema di riferimento per i mercati e per la società, ma anche a intervenire nei primi per assicurare competizione e “disciplina”.

Di nuovo, comprendere tali idee non significa accettarle (con l’ordoliberalismo, in particolare, ci sono buone ragioni per sospettare che nascondesse un lato illiberale, se non autoritario). In un dibattito più produttivo e più sofisticato per riflettere meglio sulla politica e, naturalmente, sull’economia, non si possono ignorare le profonde diversità dei punti di partenza nazionali. In questo senso, quelli che ho chiamato “chiarificatori” devono lavorare insieme agli “esplicatori”, cioè a quegli intellettuali che spiegano le proprie tradizioni a chi, al di fuori dei confini nazionali, non le conosce.

Si potrebbe obiettare: tutto qui? Chiarire e spiegare? Ma così il dibattito europeo non diventerebbe solo la somma di quanto gli “esplicatori” di ogni nazione si dicono l’un l’altro? C’è sicuramente anche altro, ma questi due sono gli impegni più urgenti. Ogni generazione se li deve assumere in modo nuovo, e non per rispondere a una sfida particolare, ma almeno per preparare meglio il pubblico a reagire alle crisi, specialmente a quelle politiche.

Il che mi porta all’ultimo punto, quello sulle crisi politiche che ci riguardano tutti: se l’Unione Europea è un sistema di governo e se essere cittadini europei significa qualcosa, allora non esistono più affari interni di singoli stati nazionali che gli altri europei non siano legittimati a discutere o a giudicare. E se in un qualsiasi Stato europeo la democrazia e lo Stato di diritto sono minacciati, allora tutti gli intellettuali europei hanno il dovere di lanciare l’allarme. Caso evidente è l’Ungheria, che potrebbe facilmente diventare il primo Stato membro a ricevere pesanti sanzioni dall’UE per il suo arretramento verso una forma di illiberalismo.

Di fronte alle aspre critiche del Parlamento e della Commissione europei, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha evocato l’immagine di un complotto transnazionale di sinistra, capeggiato da gente dello stampo di Daniel Cohn-Bendit, che trama contro i valori propugnati da Orbán e dai suoi alleati: orgoglio nazionale, cristianità, concezione tradizionale della famiglia. Non solo Orbán – uno che nei conflitti e nelle polarizzazioni ci sguazza – ha cercato di dare vita, all’interno del suo Paese, a una Kulturkampf onnicomprensiva; ha anche cercato di dividere l’Europa nel suo complesso tra una sinistra liberale, che sembra includere figure in teoria conservatrici come Manuel Barroso (un ex maoista, a dire il vero), e quella che, poco tempo fa, lo stesso Primo ministro ungherese ha chiamato Europa “nascosta” o “segreta” – un’Europa in linea con i valori del suo partito, ma che non osa pronunciare il proprio nome. 6

 

È forte la tentazione di considerare auspicabile un conflitto del genere, anche se si dissente da tutto ciò che Orbán sostiene: non potrebbe essere un’astuzia della storia dell’integrazione europea se un conflitto transnazionale di questo genere producesse un’Europa più unita? Voglio dire: la politicizzazione (e perfino la polarizzazione) non è forse una cosa buona in sé, dato che rafforza le istituzioni come il Parlamento europeo, fa scendere nella mischia gli intellettuali di tutti gli schieramenti, costringendo anche i singoli cittadini europei a restare vigili?

Un pensiero del genere potrebbe risultare troppo dialettico, perché ci sono in agenda questioni più urgenti, e anche perché i benefici a lungo termine, prodotti dal progresso degli alti ideali dell’unità europea, non possono giustificare la sofferenza attuale degli ungheresi. Lo scopo primario della lotta per i tanto decantati “valori europei” è senza dubbio che questi valori possano, lungo la strada, diventare più chiari e, in ultima istanza, ulteriormente radicati, anche se questo scopo fosse ottenuto come effetto secondario di qualcos’altro. Spetta agli intellettuali europei spiegare perché, ad esempio, una certa interpretazione europea condivisa dello Stato di diritto non sia un approccio partigiano o provinciale a un valore universale da cui si può deviare in nome della “diversità” e del “pluralismo”.

Per un “super-Stato europeo”

Questa battaglia intellettuale è stata resa ancora più difficile dal fatto che, sull’onda del fallimento della Costituzione europea, le élite politiche europee hanno deciso di darsi molto da fare per sottolineare che l’UE si fonda sulla diversità e sui singoli percorsi di ogni Stato membro verso la democrazia e verso la propria felicità nazionale. Si tratta di una retorica dissennata che mira a lenire i timori di un “super- Stato europeo”, ma che, nei fatti, ha dato carta bianca a gente come Orbán. Dopo tutto, Orbán si è difeso sostenendo che la nuova Costituzione ungherese è una via di mezzo tra le tradizioni del Paese e le sfide di oggi.

Diversità e pluralismo non sono valori equiparabili a libertà e democrazia. Tutto dipende dalla risposta alla domanda: “Diversità rispetto a che cosa?” Libertà e democrazia sono ciò che gli intellettuali europei devono difendere, se è necessario. Nel resto del tempo, dovrebbero proseguire nel loro compito di chiarire e spiegare. Per parafrasare Émile Zola, l’uomo che rese popolare il termine “intellettuale” nell’Europa di fine Ottocento: Allons travailler !

 

Questo testo è stato scritto per il Focal Point di Eurozine dedicato a "European histories (2): Concord and conflict", una riflessione al di là del divario storico fra Est e Ovest. A descrivere le cause della crisi e le sue possibili soluzioni, anche Jacques Delors, Jürgen Habermas, José Ignacio Torreblanca, Daniel Daianu, Ulrike Guérot, Slavenka Drakulic, John Grahl.

L'American Friends Service Committee, fondato nel 1917, è un'associazione religiosa di quaccheri che opera per la pace e la giustizia sociale negli USA e nel mondo. Nel 1955, l'AFSC pubblicò il pamphlet Speak Truth to Power: A Quaker Search for an Alternative to Violence. Partendo dal tema della Guerra fredda, il pamphlet intendeva "offrire una dimostrazione pratica dell'efficacia dell'amore nei rapporti umani". Lo scritto, diffondendo il pacifismo cristiano, segnò il pensiero sia laico che religioso.

Si veda Anya Topolski, "Does it get more transparent than this?", in OpenDemocracy, 10 marzo 2012 e la video-clip promozionale, intitolata Growing Together, disponibile su YouTube, destinata ai giovani.

Ne sono testimoni le recenti lamentele di Pierre Nora negli stessi toni, tinte però di un certo pessimismo culturale, in FAZ, "Man hat sich auseinandergelebt"

Naturalmente, esistono delle eccezioni: se state leggendo questo, vuol dire che state visitando uno dei principali siti dove gli europei possono mettersi al corrente dei dibattiti che hanno luogo negli altri paesi (e, non ultimo, di come gli intellettuali negli altri paesi vedano i loro vicini). Un'altra notevole eccezione è il libro di Perry Anderson, The New Old World del 2009. Per un'eccellente panoramica dei dibattiti intellettuali sull'UE nei diversi paesi europei, cfr. il volume curato da Kalypso Nicolaidis e Justine Lacroix, European Stories: How National Intellectuals Debate Europe (Oxford University Press, 2010); devo confessare che sono l'autore di uno dei capitoli del libro. Però, le tendenze complessive non sono incoraggianti: lo testimonia la chiusura di www.signandsight -- un ottimo sito per il dibattito europeo e la promozione della reciproca comprensione, nonostante il nome ridicolo -- alla fine di marzo 2012.

Published 21 May 2013
Original in English
Translated by Giordano Vintaloro
First published by Eurozine (English version); Lettera Internazionale 15 (2013) (Italian version)

Contributed by Lettera Internazionale © Jan-Werner Müller / Lettera Internazionale / Eurozine

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