Francia, ripensare la laicità senza irrigidimenti

Riformare la legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiesa in Francia? A qualche mese dal suo centesimo anniversario, il 9 dicembre prossimo, la totalità della classe politica si accorda implicitamente sull’impossibilità di porvi mano. Del medesimo parere sono due grandi istituzioni, direttamente interpellate: la Chiesa cattolica e la Ligue de l’enseignement1. Meglio non farsi illusioni, allora: non ci sarà una revisione della legge del 1905. Ma per quale ragione? Per paura di tradire i grandi principi laici che la animano? Non si toccherà la legge perché, si dice, ha una dimensione simbolica: incarna i principi motori e intangibili della Repubblica.

Eppure, è stata già ritoccata in varie occasioni e può quindi essere emendata tramite un regolamento. Che si tratti di associazioni cultuali, della necessità di armonizzare la legge del 1901 sulle associazioni e quella del 1905 o, ancora, delle forme di finanziamento degli edifici religiosi, si sarebbe potuto immaginare di rispondere alle domande della comunità protestante o ai bisogni della comunità musulmana in un modo che non imponesse di rimettere mano alla legge. Si poteva acconsentire ad un diverso aggiustamento, secondo modalità giuridiche appropriate. Per un paradosso un po’ strano, quando si parla di laicità francese si ha a che fare con un tabù, un’entità quasi-sacra, infallibile. Come se l’elemento religioso, che la legge del 1905 aveva voluto mettere o rimettere al proprio posto, avesse contaminato quello laico, che voleva invece emanciparsene.

La legge in quanto “vacca sacra”, le paure politiche di rianimare vecchie ma furiose diatribe, l’incapacità di immaginare delle riforme e i timori di proporne si danno la mano per fare dell’immobilità una virtù. Eppure, vi è qualcosa di “ubuesco”2 in questo atteggiamento. In effetti, chi non vede che la situazione storica è radicalmente differente di quella del 1905? Ciò, almeno, riguardo tre punti: in primo luogo, la Chiesa cattolica non ha più in Francia il ruolo che rivestiva allora; in secondo luogo, la cultura politica laica tende ad irrigidirsi in un contesto in cui, attraverso la religione, transitano frustrazioni di vario tipo, rivendicazioni comunitarie e nel quale si fanno luce nuove domande religiose, che rischiano di rimettere in causa il principio della separazione tra spirituale e temporale, tra religione e Stato; infine, la crescita dell’Islam, religione troppo spesso confusa con l’immigrazione araba, cambia decisamente lo scenario.

Una contrapposizione che viene meno

Si può certo giudicare in diversi modi la forza e la posizione della Chiesa cattolica nella Francia del 2005. In questi ultimi anni, però, il dibattito è ruotato attorno soprattutto alla sua condizione di “minoranza” – del suo essere nella società francese una minoranza tra le altre e delle conseguenze di questa nuova situazione. I principali indici offerti consistono, spesso, nell’affievolirsi delle pratiche parrocchiali in favore di pratiche motivate da un impegno di natura meno ascrittiva e più volontarista (e anche, di converso, più puntuale ed effimera), nella forte individualizzazione delle pratiche causata dall’adozione di una “religione à la carte“, nella scomparsa dei militanti e nella marginalizzazione della cultura cattolica. Danièle Hervieu ha addirittura parlato di “deculturazione” per esprimere l’idea di una sorta di esclusione di fatto dell’istanza cattolica, in quanto criterio di decisione, dal campo sociale, scientifico e politico. Non parliamo poi dell’incultura religiosa e della perdita, in generale, di ogni memoria cristiana.

Bisogna ancora trarre le conseguenze da tutto ciò. In primo luogo questa: il cattolicesimo non forma più una controcultura opposta a quella della Repubblica, e ciò non avviene senza ricadute sulla stessa cultura laica. Questa, infatti – e non se ne abbiano a male i più ferventi militanti della laicità – trovava proprio in tale opposizione una delle molle principali (assieme alla logica scientifica) del suo braccio di ferro contro questa controcultura. Con l’indebolimento del cattolicesimo sul duplice piano, istituzionale e spirituale, è la cultura laica a perdere di sostanza. Si parla di crisi dell’istruzione civica: ma questo significa dimenticare che l’età dell’oro dell’educazione ai valori repubblicani coincide con quella dell’educazione religiosa. Diciamolo: si è sorpresi, su questo punto – quando si leggono certi contributi “laici”, vedendo certi irrigidimenti (come quelli relativi alla questione del velo islamico), costatando la violenza di un certo anticlericalismo sconfinante in aperto anti-cristianesimo (presente soprattutto in certa stampa e in certi programmi televisivi) – dalla scarsa capacità riflessiva dei militanti laici, dal loro disconoscere la reale situazione religiosa, dalla loro ignoranza circa le ricomposizioni avviate e realizzate da decenni, dalla tendenza a prendersela con gli altri per spiegare e scongiurare una crisi che è loro, dalla loro tentazione di risolverla chiamando in causa leggi e metodi autoritari, appellandosi al “braccio secolare” dello Stato. Alcuni laici intransigenti e rispettabili arrivano a fare della laicità una “spiritualità” – cosa in sé legittima (la spiritualità non appartiene, o non appartiene più, a nessuno in particolare), ma che la dice lunga sulla contaminazione in essere ad opera dell’elemento religioso.

In generale, la lotta laica si volge oggi contro due nemici: quello tradizionale, l’idra cattolica, sospettata di perseguire in mille modi la sua opera di conquista o di riconquista clericale e morale della società; quello nuovo, l’Islam, vituperato (talvolta in modo umiliante) senza giri di parole (si potrebbe aggiungerne un terzo: le sette, una lotta di cui si è ufficialmente incaricato lo Stato laico da una decina d’anni).

Laicità di Stato e secolarizzazione della società

Molte reazioni antireligiose e anticlericali confondono principio di laicità e processo di secolarizzazione. Se il principio di laicità ha certamente conosciuto degli aggiustamenti e degli adattamenti quanto alla regolamentazione, in linea di principio esso non risulta perciò meno intatto, a un secolo di distanza. Regge sempre, in un contesto modificato, i rapporti della Chiesa e dello Stato in Francia. Ogni fazione può certo trovare, qui o là, in questo o quest’altro momento storico, nel dato avviso, sentenza, decreto, circolare modificante questo o quest’altro punto della legge, ragioni di inquietudine e motivi di soddisfazione. D’altro canto, è stato Émile Poulat, in particolare, a mostrare come queste modifiche e questi nuovi equilibri assecondassero interessi ben compresi da ciascuna delle parti in causa, e in ogni caso da Stato e Chiesa (anche se facevano confondere militanti e attivisti di entrambe le parti3). L’ultimo “punto” messo a segno dai militanti laici è stata la legge sui segni ostensibili del febbraio 2005, non voluta dalla Chiesa cattolica (come dagli altri “culti”). Nondimeno, si sente dire o si legge, da parte laica, che dopo un secolo la Chiesa ha recuperato per via regolamentare tutti i tipi di vantaggi che aveva perduto nel 1905, e che il campo “laico” esce sconfitto, e amaramente, da un secolo di lotte contro le pretese della Chiesa. Questa lettura del secolo e la delusione che l’accompagna sono rispettabili ma, crediamo, sbagliati.

In effetti, come abbiamo detto, in Francia la stessa Chiesa cattolica esce “esaurita” dal XX secolo. Non a causa della laicità francese, della quale arriva a riconoscere sinceramente, comprese le alte sfere, i meriti (e i vantaggi che essa stessa ne ha ricavato, in primo luogo quello di essersi liberata dal clericalismo), ma a causa della secolarizzazione della società, soprattutto negli ultimi quarant’anni, con i suoi aspetti contrastanti, complessi, in evoluzione e in parte oscuri anche per i ricercatori. Qui non ne riportiamo la storia. Sul contesto politico, sociale e culturale che mette in crisi (a partire dal 1905, in realtà) il principio della laicità o alcuni fra i suoi presupposti e i suoi risultati, si possono leggere con profitto le riflessioni calibrate e pertinenti di Jean Baubérot in Laicité 1905-2005, entre passion e raison4. Ci limitiamo a ricordare, in questa sede, che anche per dei buoni osservatori, ma a fortiori per il senso comune, “secolarizzazione” ha significato per un’epoca indebolimento, arretramento, riflusso, scomparsa del religioso, a un tempo in quanto pratica e in quanto fede (o “ideologia”, per riprendere il vocabolario degli anni ’60-’70). Ora, va detto che in Francia, soprattutto da parte di persone di Chiesa ma anche da parte di militanti laici (i primi dolendosene, i secondi rallegrandosene), la laicità dello Stato viene associata, per non dire identificata, a questo concetto di secolarizzazione. Questo riflesso è oggi ancora frequente, allorché l’attuale ignoranza religiosa dei giovani (e dei meno giovani) è attribuita senza distinguo alla “scuola senza Dio”, cioè a una scuola in cui “Dio” è assente dai programmi scolastici, o alla cultura laica francese. È peraltro sufficiente andare in Germania, dove esiste il sistema dei “culti riconosciuti” e dove l’insegnamento religioso entra a pieno titolo nei programmi, per sentire da lustri le stesse recriminazioni. Un vocabolario troppo elastico – per esempio gli aggettivi “laico” (di per sé polisemico) o “laicizzato” come sinonimi di “secolarizzato”, o “laicizzazione” come equivalente di “secolarizzazione” – non è stato certo un contributo alla chiarezza.

L’ambivalenza della religiosità postmoderna

In realtà, l’eccezione laica francese, ammesso che esista, sta senza dubbio in una sensibilità esacerbata contro qualsiasi tipo di visibilità religiosa, di presenza visibile della religione, e della Chiesa cattolica in particolare, nello spazio pubblico. I “segni ostensibili”, che altrove non fanno problema, provocano qui una levata di scudi. Una presa di posizione pubblica o sociale della Chiesa, che sembrerebbe normale nella maggior parte dei paesi europei, pare in Francia illegittima. Se c’è un “habitus” della laicità, si tratta proprio di questa allergia ai segni visibili, alle tuniche come ai burka, ai turbanti come alle kipa e alle croci attorno al collo. All’arrivo in Inghilterra, le donne poliziotto musulmane impegnate alla frontiera e nel controllo aereo possono portare un foulard islamico, che fa parte della loro tenuta: questa tolleranza ha dell’impensabile in Francia.

Eppure, l'”esibizionismo” dei segni religioso è esso stesso ambiguo, oggi. Di primo acchito, manifesta anzitutto, in particolare nelle sue forme estreme, convinzioni fondamentaliste e identitarie che hanno ora il vento in poppa. D’altro canto, però, nelle sue forme meno aggressive, per quanto più ludiche, tale fenomeno non è senza rapporto con le secolarizzazione, compresa in un secondo tempo non più come perdita o scomparsa del religioso, ma come disseminazione, frammentazione, individualizzazione, bricolage, riassemblamento di pezzi e pezzetti per un uso festivo, estetico, reattivo – in ogni caso, senza un reale ancoraggio in una tradizione, senza coscienza e senza volontà di appartenenza, senza legami comunitari. A dire il vero, semplificando, oggi coesistono due tendenze estreme, che talora si nutrono reciprocamente: da una parte, i fenomeni “identitari”, con i loro aspetti fondamentalisti, integralisti e comunitari, che privilegiano forme di comunitarismo o fanno pesare i vincoli della comunità sulla condotta personale e sull’integrazione sociale; dall’altra, l’individualizzazione del religioso, che si esprime in forme molteplici, spiazzanti, in parte invisibili ma anche tali da provocare questa conseguenza, che oggi il religioso, o quello che gli assomiglia, è dappertutto e da nessuna parte, con delle considerevoli capacità di riattivazione e cristallizzazione.

Di qui l’ambivalenza del religioso nelle nostre società postmoderne. Si pensi, per esempio, all’immensa mediatizzazione della morte di Giovanni Paolo II, dei suoi funerali e del successivo Conclave, fino alla delusione che è subentrata nell’accogliere il successore e che ha messo fine piuttosto rapidamente all’orgia televisiva. Si sa fino a che punto ciò abbia urtato, non senza ragione, le mentalità laiche. “Semiologi” e “mediologi” di ogni risma, chiamati alla riscossa, hanno però oscillato, in generale, tra due interpretazioni: gli uni hanno visto in primo luogo la meravigliosa macchina comunicativa cattolica, in grado di competere con i migliori “comunicatori” del mondo e da cui potrebbero trarre ispirazione i nostri poteri secolari. Gli altri hanno insistito soprattutto sul fatto che i media andavano dal papa morente, e poi morto, allo stesso modo in cui erano andati da lui molto prima, finché era ancora in vita. Il papa ha saputo sfruttarli, certo, ma non era in alcun modo in grado di portarli dalla propria parte – e del resto il suo conservatorismo morale non aveva niente per sedurli. La visione un pò paranoica dei primi (che Il codice Da Vinci, l’ormai celebre thriller di Dan Brown, ha sicuramente rafforzato, agli occhi di qualcuno) deve confortare i laici nell’idea che la potenza visibile della Chiesa cattolica si avverte e spadroneggia ovunque? Possiamo rassicurarli: la celebrazione mediatica di una religione o di un leader religioso non è necessariamente un segno di buona salute. Forse bisogna intenderla esattamente al contrario: la debolezza del cattolicesimo reale sarebbe proporzionale alla mediatizzazione della sua maggiore personalità. In ogni caso, i nostri laici farebbero bene a sostituire le imprecazioni e le consolazioni artificiose, procurate da inconsistenti “trattati di a-teologia”, con analisi serie del fatto religioso in questo inizio di XXI secolo.

L’obiettivo è l’integrazione

È vero che la scena religiosa francese è scossa da un fattore supplementare, da uno scombussolamento della situazione storica. L’indebolimento del cattolicesimo interviene in un momento in cui si manifesta con apparente vitalità l’Islam, una religione senza Chiesa, senza un clero formato da un’istituzione, senza sufficienti luoghi di culto e, però, capace di rendersi visibile in Francia e di espandersi su scala mondiale, peraltro facendo i conti con le tentazioni della teocrazia e, nelle sue frange radicali, del passaggio alla violenza e alla coercizione religiosa. Questa diagnosi è nota. Ricordiamo solamente, a proposito dell’Islam in Francia, che esso ha a lungo beneficiato, in certi ambienti laici di sinistra, di una simpatia o di una comprensione di principio, da leggersi come contrasto rispetto al nemico storico (il cattolicesimo). Ci sono certi dirigenti della Ligue de l’enseignement, pioniera di una rinnovata riflessione sulla laicità, che sono arrivati al paradosso di ritenere che si dovesse “sostenere” l’Islam (attraverso un insegnamento dell’Islam per i maestri formati nelle Écoles Normales), pur continuando a ignorare o a combattere la Chiesa cattolica. Oggi, già prima e ancor più dopo l’11 settembre 2001, i sarcasmi contro l’Islam in quanto tale, non solo contro l’islamismo fondamentalista, sono frequenti e proferiti apertamente, e la cosa non è senza rischi: oltre che trattarsi di una posizione intellettualmente e storicamente contestabile, rifiutare di fare differenza tra Islam e islamismo non può che scoraggiare le posizioni e le riflessioni riformiste e critiche. In ogni caso, per alcuni, l’effervescenza dell’Islam e le pretese di certi musulmani sono il migliore argomento per non toccare quanto stabilito nel 1905: come in occasione dell’episodio del velo, bisogna assicurare i principi della Repubblica con il baluardo della laicità, contro una religione che perturba gli equilibri ereditati dal 1905.

In questo contesto, sono possibili tre scenari: andare nel senso di una comunitarizzazione delle nuove religioni (non solo l’Islam), pur col rischio di rendere un pò più fragile il patto repubblicano; rafforzare, nello spirito del bonapartismo di cui Nicolas Sarkozy è l’erede inatteso, il potere dello Stato su una religione a priori difficilmente controllabile (da due anni a questa parte, tramite incursioni nel Consiglio francese del culto musulmano5); o, infine, preoccuparsi di riconferire credibilità ad una cultura repubblicana e laica giustamente incapace di concepirsi al di fuori di una prospettiva di integrazione riuscita. Alla comunitarizzazione e al controllo statuale si dovrebbe certo preferire una cultura laica dinamica e viva, dal momento che si tratta di un’istanza capace di integrare. Ma ecco il punto, la vitalità laica consiste nell’immobilismo e nella riaffermazione che non c’è niente oltre quanto stabilito nel 1905 in materia di separazione di religione e Stato?

Bloccarsi al 1905 ha l’effetto di chiudere la questione della laicità in un confronto tra Repubbblica e Islam in cui abbiamo molto da perdere. Bisognerebbe invece riconsiderare le regole del gioco per conservare il senso dei principi laici. Al momento, però, ciò che si verifica, in modo manifesto e da ogni parte – laica, cattolica, musulmana – è un’opera di disconoscimento di quale sia il mondo in cui viviamo. I timori di una diatriba supplementare, dopo più di un secolo di battaglie, sono legittimi. Come marcare i limiti delle pratiche religiose, questa dovrebbe essere la prospettiva da cui approcciare la questione relativa alla legge del 1905, questione che non si riduce a delle polemiche di ordine giuridico sulla riforma della legge. Come suggerisce Olivier Roy, sarebbe importante distinguere, separare più nettamente di quanto si faccia di solito, sempre nello spirito della laicità, l’aspetto dell’adesione religiosa da quello della cultura – cosa che esige il riconoscimento dell’esistenza di una cultura musulmana (che non è quella dei soli praticanti), ma anche di una cultura laica che deve essere reinventata in un contesto che non è più quello di un’opposizione frontale tra una controcultura religiosa e una cultura anticlericale. Rimettere mano alla legge del 1905 non consisterebbe, allora, nel distribuire o togliere dei vantaggi giuridici a una parte o all’altra. Sarebbe più un problema di visione politica dei rapporti tra le religioni e lo Stato, o dello spazio delle religioni all’interno dello Stato, che una questione di diritto o di legge: una visione che chiaramente manca e che giustifica l’immobilismo. Significherebbe domandarsi: di quale laicità ha oggi bisogno la Francia?

Si tratta di un movimento di educazione popolare, creato nel 1866, attualmente strutturato sulla base di 102 federazioni locali e attivo nell'organizzazione di attività sportive e culturali, dibattiti, formazione, lotta contro la precarietà etc. [n.d.t.].

Con questo riferimento all'opera Ubu re, di A. Jarry, gli autori intendono un atteggiamento insieme leggero, crudele e cinico [n.d.t.].

Si veda, tra le altre opere, il suo eccellente libro Notre laïcité publique, Berg International éd., 2003.

Jean Baubérot, Laicité 1905-2005, entre passion et raion, Paris, Le Seuil, 2004.

Il Conseil Français du Culte Musulman, che ha tenuto la sua prima assemblea generale il 2 e 3 maggio 2003, è un'organizzazione che cerca di risolvere, attraverso un costante dialogo con le istituzioni governative (che hanno spinto per la creazione di una controparte unitaria di tal sorta), i differenti problemi che possono incontrare i musulmani francesi nell'osservare la propria religione: costruzione delle moschee, creazione di aree musulmane nei cimiteri, organizzazione di feste religiose come i battesimi etc. [n.d.t.].

Published 21 July 2005
Original in French
Translated by René Capovin
First published by Esprit 6/2005 (French version) and Reset 90 (2005) (Italian version)

Contributed by Reset © Olivier Mongin/Jean-Louis Schlegel/Reset Eurozine

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Read in: FR / IT / DE

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