Il fanatismo, da Lutero a Bin Laden

Il crescente uso del termine “fanatismo” per identificare i pericoli del presente, in particolare la recrudescenza della politica religiosa e il fenomeno terroristico, raramente viene accompagnato da una riflessione sulla genealogia del termine e la varietà dei suoi usi. Uno sguardo sulla storia filosofica del concetto ci permette invece di cogliere le sue sfaccettature e di impostare una critica della sua funzione retorica e analitica. Seguendo le tracce di quei grandi pensatori che hanno cercato di determinare il significato di “fanatismo”, spetta a noi contemporanei il compito di ripensarlo come precisa figura storica, politica e psicologica per il presente, e non semplicemente come talismano per esorcizzare paure.

Da quando l’avvento spettacolare della minaccia terroristica ha chiuso il compiaciuto interregnum postcomunista, l’Altro delle democrazie parlamentari è stato spesso presentato, nella pubblicistica ma pure da “esperti” psicologici, nelle vesti del “fanatico”. Figure di spicco hanno identificato nel fanatismo una vera e propria sindrome culturale, o addirittura una profonda psicopatologia che ci permetterebbe di spiegare la supposta crescita nella violenza extrastatale. Fernando Savater e Alain Finkielkraut (rispettivamente su “El Pais” e “Liberation”) hanno ravvisato nelle proteste e polemiche sulle caricature di Maometto pubblicate in Danimarca l’emergenza di un nuovo soggetto della mondializzazione, il “fanatico senza frontiere”. Mentre il testo di Savater sfoggia un’irriverenza anticlericale di stampo libertario che colpisce a 360 gradi, quello di Finkielkraut, come parecchi dei suoi recenti interventi, manifesta un’ossessione nei confronti dell’intolleranza “islamica”, del “loro” fanatismo illiberale, che pare riproporre, in salsa repubblicana, le sciagurate tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà. In entrambi i casi lo spettacolo del fanatismo, nella sua rapidissima circolazione mediatica globale, è l’oggetto dello sguardo teorico, molto meno le sue cause, o le realtà dalle quali scaturisce (realtà come quella della concreta intolleranza verso gli immigrati musulmani in Danimarca).

L’introduzione del concetto di fanatismo nel dibattito sui conflitti ideologici odierni pare infatti prediligere cause culturali e psicologiche invece di intrecci politici, strategici e materiali. Il fanatismo appare spesso come un’invariante che trascende le vicende della storia, se non addirittura, in vena orientalista e razzista, una caratteristica di entità fantastiche come “la mente araba”. L’antistoricità del concetto è in parte ciò che ne permette un uso spesso arbitrario o ipocrita. Il fanatismo, come non possiamo fare a meno di notare con martoriante frequenza, è spesso proiettato sul proprio nemico col quale, per definizione, non si può negoziare. Come scrive Amos Oz in Contro il fanatismo, “Vi basterà leggere il giornale, o guardare il notiziario in televisione, per rendervi conto della facilità con cui la gente diventa fanaticamente antifanatica, antifondamentalista, con cui intraprende una crociata antijihad”. Parole che ironicamente guadagnano peso quando si nota che lo stesso Oz, che ci suggerisce di “immaginarci” l’altro, è stato inizialmente spinto dalla recente guerra in Libano ad abbandonare le sue stesse ragioni, proponendo un’apologia d’Israele e una demonizzazione di Hezbollah che fallisce qualsiasi test, empirico o morale. Da solo, il titolo orwelliano di un suo recente editoriale ci dà un senso dei pericoli dell’antifanatismo di parte: “Perché i missili israeliani colpiscono per la pace”.

Il crescente uso del termine “fanatismo” per identificare i pericoli del presente, in particolare la recrudescenza della politica religiosa e il fenomeno terroristico, raramente viene accompagnato da una riflessione sulla genealogia del termine e la varietà dei suoi usi. Uno sguardo sulla storia filosofica del termine ci permette invece di cogliere le sue sfaccettature e di impostare una critica della sua funzione retorica e analitica. In queste pagine vorrei semplicemente, per introdurre una tale ricerca, vagliare alcuni episodi nella storia di questo concetto squisitamente polemico, episodi che ci permettono di riconoscere la persistenza di certi leitmotiv nel discorso sul fanatismo, tra i quali spiccano la psicologizzazione della politica, il problema dell’universale e l’immagine dell’islam.

Le origini nella Riforma

Il discorso sul fanatismo emerge dal crogiuolo di scontri ideologici, teologici e politici che accompagnano la Riforma. Nasce, più precisamente, dalla ferocissima polemica di Lutero e Melantone contro i vari movimenti urbani e contadini che, ispirati o comandati da predicatori ribelli come Thomas Müntzer, e in parte spinti da un comunismo plebeo e millenario, rifiutano l’autorità di principi e clero e tentano, difendendo il modus vivendi contadino dalle prime manifestazioni di ciò che Marx chiamò l’accumulazione primitiva, di appropriarsi di ciò che producono. Come vedremo, il termine usato dal fondatore del protestantesimo per condannare i ribelli, Schwärmer (da Schwärmerei, tradotto con “fanatismo”), finirà per giocare un ruolo importante nel progetto critico di Kant. Ma a cosa si riferisce questo concetto nel mezzo dei violenti scontri del 1524-25? Seguendo la terminologia agostiniana, gli ideologi della Riforma vedono in questi movimenti sociali un tentativo di eliminare la distinzione chiave tra Città Terrena e Città di Dio, ovvero di forzare follemente, attraverso un millenarismo politicizzato e plebeo, la realizzazione del regno dei cieli sulla terra. Secondo Melantone, che si rifà qui alle traduzioni della Politica di Aristotele, ciò significa eliminare il ruolo della “società civile”. Per Lutero, il tentativo di rovesciare le autorità secolari è un segnale di disastrosa superbia, una catastrofe religiosa.

Lo scontro tra Lutero e i ribelli contadini mostra molto bene il meccanismo plurisecolare che porta dalla condanna per “fanatismo ” alla giustificazione della repressione politica e militare più crudele (e appunto fanatica). Mescolando argomenti teologici e calcoli prettamente politici (come far sopravvivere la Riforma nel bel mezzo della crisi indotta dalle guerre contadine), Lutero, che aveva pure aspramente criticato i principi tedeschi, scrive nel maggio 1525, il testo Contro le brigantesche e scellerate bande dei contadini, dove con grande entusiasmo esorta gli eserciti dei principi a sterminare i rivoltosi “come cani”, e sostiene, citando san Paolo, che chiunque muoia in tali battaglie “non potrebbe avere morte più beata”. Lutero vede nel “fanatismo ” dei contadini, soprattutto nella fattispecie del fanatico per antonomasia, il predicatore Müntzer, un assalto contro qualsiasi ordine sociale. È proprio qui, alle origini del discorso sul fanatismo, che il suo carattere relativo e di parte si mostra più chiaramente. Innanzitutto, come si vedrà più tardi con i sans culottes della rivoluzione francese, per esempio nei commenti di Edmund Burke sul “fanatismo epidemico”, il “fanatico” è spesso il rivoltoso plebeo; il fanatismo è sovente identificato alla “folle” richiesta dell’uguaglianza sociale. Come hanno notato tanti, l’etimologia del termine tedesco si addice a questo tema della “paura delle masse”, per citare Balibar ne La paura delle masse, in quanto i fanatici sono proprio uno sciame (Schwärm), una plebe o moltitudine in rivolta. Non solo, ma ciò che, come ci mostra la recente ricerca storica, si presenta perlopiù come un movimento articolato, con specifiche richieste istituzionali e costituzionali (il mantenimento delle assemblee contadine, l’alleggerimento dell’estrazione di tributi e tasse), e che usa il discorso religioso (il Vangelo) in termini minimalistici e pragmatici, viene presentato – per meglio giustificarne la soppressione – come una psicopatologia teologica, una malattia dello spirito.

Kant e il superamento dei limiti della ragione

Mentre “l’Altro” del discorso protestante è rappresentato dal contadino in rivolta, l’illuminismo, che viene spesso e giustamente definito come una lotta contro il fanatismo religioso, propone altre, talvolta egualmente ambigue figure del fanatico. Per esempio, nella tragedia di Voltaire, Le fanatisme, ou Mahomet le prophet (1741), dove Maometto obbliga un suo sicario (o séide – la vicenda è basata in parte sui racconti che circolavano a proposito della setta degli Assassini di Hassan-e-Sabah) a uccidere lo sceicco della Mecca, che si rifiuta di inginocchiarsi alla religione del fanatico. Séide è, a sua insaputa, figlio dello sceicco Zophire, il che porta Dominique Colas a leggere la tragedia come una dimostrazione della spinta profanatoria del fanatismo. Per altri invece, il fatto che il Maometto di Voltaire è una figura “straussiana “, che non crede al proprio dogma e strumentalizza il fanatismo, costituisce la vera lezione della tragedia. Più in generale, l’opera di Voltaire ci mostra gli strani effetti di un cortocircuito tra una categoria apparentemente astratta, il fanatismo, e la sua identificazione con una cultura particolare. La persistenza dell’equazione tra fanatismo e islam nell’orientalismo illuminista non può essere facilmente messa da parte argomentando che l’islam è semplicemente una maschera o un caso tra tanti altri di una patologia universale.

È invece nell’austerità dell’illuminismo di Kant che il tema del fanatismo si stacca più nettamente da un discorso culturalista. Per Kant è nella struttura stessa della soggettività, nel rapporto tra conoscenza e prassi, che va rinvenuto il bacillo fanatico. Nella Critica della ragion pratica, Kant distingue tra un “fanatismo religioso”, che concerne la supposta conoscenza di Dio, e un molto più pericoloso “fanatismo morale “, che, invece di rendere ragione delle proprie azioni attraverso il semplice dovere, cerca di fondare la morale sul sentimento, la nobile convinzione, la fede sublime. Il fanatico morale è un soggetto che, non sottoponendosi all’universalità del dovere, può tramutarsi in benintenzionato omicida. Per Kant il fanatismo è sempre una trasgressione dei limiti della ragione umana, un delirio metafisico. Nella Critica del giudizio il fanatismo, che per Lutero era causato da un eccesso di iconoclastia (la furia antirappresentativa della Riforma radicale), è descritto “esteticamente” come un desiderio di “vedere l’infinito”, quasi un’idolatria metafisica (infatti Kant loda qui l’iconoclastia ebraica), mentre nel saggio “Che cosa significa orientarsi nel pensiero ” il fanatismo, proiettato su Spinoza (che altri vedono, giustamente, come nemico acerrimo della soggettività fanatica), è identificato con un dogmatismo ontologico che malsanamente pensa di avere accesso al soprasensibile.

Qual è il nerbo politico del discorso kantiano sul fanatismo? Innanzitutto, per Kant il fanatismo è legato a un’ossessione che, sebbene si pensi universale, si rivela particolaristica – questo è il caso del fanatismo nazionalistico, al quale Kant contrappone il cosmopolitismo. Riemerge in Kant pure la difesa dell’autorità che avevamo incontrato in Lutero: non concesso alcun diritto alla ribellione e il dovere in politica costringe a un rispetto dell’autorità, della legge e delle istituzioni rappresentative. Ciò è spiegato non solo dall’indole cauta di Kant, ma da una delle sue possibili definizioni di fanatismo, ovvero il confondere un’idea regolatrice (la repubblica, per esempio) con un progetto costituente che può essere affermato materialmente e soggettivamente. Questa tendenza a neutralizzare il fanatismo costituente si vede molto bene nella complicata reazione di Kant alla rivoluzione francese, ben analizzata da Hannah Arendt nelle sue lezioni su Kant e il giudizio. Mentre il ribelle sans culotte è implicitamente visto come una figura fanatica e patologica, il moto rivoluzionario è salvato e universalizzato in termini del suo effetto sullo spettatore, che lo giudica nei termini della storia umana e del segnale di universalità che esso porta. E così che nel Conflitto delle facoltà Kant, paradossalmente senza giustificare gli attori della rivoluzione, vede questa come una prova della tendenza morale della nostra specie, e (ripetendo una dicotomia presente nella Critica del giudizio, l’Antropologia e vari altri testi) distingue il fanatismo dall’entusiasmo, una passione per l’ideale che non si riversa nel tentativo “fanatico” di realizzarlo hic et nunc.

Hegel e l’eccesso di universalità islamico

Il concetto di fanatismo (per il quale il filosofo tedesco usa sia Schwärmerei che Fanatismus) gioca un ruolo assai interessante nell’opera di Hegel. Mentre in Kant abbiamo a che fare con una disposizione cognitiva e affettiva, con un risultato illegittimo del nostro inevitabile impeto metafisico, in Hegel il fanatismo è concepito come un passaggio necessario nella progressiva universalizzazione dello spirito. Come è stato giustamente notato da Domenico Losurdo, il pensiero tedesco da Kant a Hegel si può caratterizzare come una risposta filosofica al trauma storico e alla speranza d’emancipazione rappresentata dalla rivoluzione francese. Nella trascrizione concettuale della rivoluzione, il fanatismo appare come un cortocircuito tra l’universale astratto e la sua realizzazione concreta, una manifestazione della libertà soggettiva nella sua pura negatività, nel suo rifiuto attivo di qualsiasi determinazione. Come è noto, nella Fenomenologia dello spirito, Hegel ravvisa in questa figura il motore spirituale che sta dietro al Terrore rivoluzionario e alla sua spietata logica del sospetto – uno schema che di recente Alain Badiou nel Il secolo (Feltrinelli, 2006) ha riesumato per riassumere l’essenza del XX secolo.

Nella Filosofia del diritto Hegel torna su questo tema, parlando di un “fanatismo della distruzione” che si incarna nell’eliminazione di individui sospetti, nel rifiuto della stabilizzazione rivoluzionaria in qualsiasi ordine istituzionale determinato. Anche se, in politica, il fanatico dichiara di cercare la realizzazione di un ideale egli finisce comunque per rifiutare qualsiasi organizzazione particolare, in quanto la sua “libertà negativa” si dà solamente nella distruzione del particolare. In un’aggiunta alla Filosofia del diritto, tratta da note di studenti, Hegel associa questa furia “nichilista ” all’introduzione della soggettività religiosa nell’oggettività dello Stato. In quanto la religione è caratterizzata da una spinta intransigente verso la totalità e lo Stato invece dipende dalla differenziazione dei suoi “organi”, la sua introduzione in politica è distruttiva. “Il desiderio di avere il tutto nella parte”, scrive Hegel, “può solo essere adempito dalla distruzione del particolare, e il fanatismo è il rifiuto di dare qualsiasi portata alle differenze particolari” (Filosofia del diritto, paragrafo 270, aggiunta di Gans). Quando la devozione entra nello Stato si rivela essere pura, dirompente intolleranza. Questa pagine potrebbero dare l’impressione di un semplice rifiuto, liberale o conservatore, dell’intransigenza politica. Spostando la nostra attenzione ai testi prettamente storici di Hegel, possiamo invece notare che questo fanatismo della distruzione, questo terrore dell’astratto, può rappresentare un passaggio inevitabile, e non semplicemente, come per Kant, una disposizione contro la quale potremmo essere immunizzati da una sana dose di illuminismo. A questo punto giova notare che l’uso di Hegel del concetto di fanatismo, anche se gioca un ruolo assai specifico nello sviluppo dello spirito, ha in comune con la sua recente fortuna una notevole plasticità. Si potrebbe persino dire che la specificità del concetto di “fanatismo della distruzione”, per quanto storicizzato, è proporzionale alla sua estensione a casi apparentemente sconnessi – i rituali delle tribù del Dahomey, l’induismo, l’islam. O meglio, vi è nel discorso hegeliano sul fanatismo uno strano cortocircuito tra un momento squisitamente immanente allo spirito europeo e l’apparire del suo Altro, non-europeo e a-storico. Lasciando da parte le immagini stereotipe di un’Africa selvaggia e frenetica, e di un’India che annega nelle acque tiepide dell’Assoluto, il discorso sull’islam “fanatico”, che parrebbe ricalcare il peggio dell’orientalismo ottocentesco, contiene spunti interessanti e talvolta sorprendenti.

Innanzitutto, è interessante notare che in Hegel l’islam appare come un fenomeno non solo spirituale, ma politico. In una frase sintomatica, Hegel lo definisce “la Rivoluzione dell’Est”. Lontano dalla voga per il “dispotismo orientale”, vede nell’islam un movimento di universalizzazione, sebbene uno che, dominato dal “principio Orientale”, è centrato sull’unità astratta (il monoteismo senza trinità), e lascia cadere o dissolve la particolarità, le differenze, il molteplice. Nella Filosofia della storia, l’islam appare come un superamento del particolarismo ebraico, la nascita di una vera e propria personalità universale. Dunque non è in un’ossessione patologica per il particolare – come nel caso del fanatismo nazionalista condannato dal Kant cosmopolita – ma nell’eccesso di universalità che Hegel ravvisa il limite spirituale e politico dell’islam, il cui soggetto è senza predicati, senza qualità. È dunque sulla base della sua teoria del fanatismo come soggettività astratta e negativa che Hegel finisce per resuscitare il discorso orientalista: l’islam è “espansionista”, perché non può stabilizzarsi in un molteplice differenziato; l’islam decade in “sensualità ” (un altro elemento del discorso orientalista, presente nell’ossessione per un Oriente fatto di harem e oppio), perché il nesso sociale è dato solo dall’Uno di Allah, e non dalle istituzioni dello Stato. Pur riconoscendo la spinta universalizzante dell’islam (anche nella fattispecie della dignità e del coraggio dei suoi guerrieri), per Hegel la sua spiritualità si esaurisce in una “desolante distruzione”.

Lasciando da parte la notevole carica di ignoranza del pensiero politico, legale e scientifico dell’islam, che condiziona tali verdetti, e restando all’interno del discorso di Hegel, si può forse trattare il “fanatismo ” islamico come un semplice vicolo cieco dello spirito? In quanto viene assunto come movimento di universalizzazione radicale, non credo che il pensiero di Hegel permetta semplicemente di esorcizzare il “fanatismo” islamico. Nelle sue Lezioni sulla filosofia della religione, abbina esplicitamente il “formalismo puro” dell’islam alla rivoluzione francese e alla sua dissoluzione “terroristica” dei legami prerivoluzionari. Per quanto lo Stato hegeliano miri a integrare soggettività e libertà in un sistema organico e differenziato di determinazioni istituzionali, il suo pensiero storico non può ignorare il carattere inevitabile e in un certo senso “progressista” del momento “fanatico”. Questa forza dell’astrazione ci viene ricordata per esempio dall’esperienza del leader afroamericano Malcolm X, per cui il passaggio all’islam funzionò da rottura contro il particolarismo del nazionalismo nero. Come scrisse in una lettera da Gedda nel 1964 (in un pellegrinaggio drammatizzato nel famoso film di Spike Lee), l’islam per Malcolm X rappresenta “l’unica religione che elimina il problema razziale dalla società”.

Restando più vicini a Hegel, l’inevitabilità e la necessità locale del “fanatismo” (in quanto movimento di universalizzazione intransigente) furono notate dal giovane hegeliano Arnold Ruge in un testo intitolato “La Filosofia del diritto di Hegel e la politica nei nostri tempi”, pubblicato nel “Deutsche Jahrbücher” nel 1842. In che senso il “fanatismo” appare necessario a Ruge? Riflettendo sul problema chiave della sua epoca, il rapporto tra religione e Stato, Ruge dichiara che la religione si manifesta come desiderio (Lust) di liberazione, il fanatismo rappresenta una “religione intensificata”, ovvero una passione (Wollust) per la liberazione che nasce da un previo fallimento, da un bloccaggio delle vie dell’emancipazione. Ritorna ancora l’esempio della Francia, e del suo “folle”, ma comprensibile, tentativo di distruggere gli ostacoli all’uguaglianza sociale, che ritorna. È nella sua fenomenologia del “pathos pratico” del fanatico che Ruge dimostra di essere un nostro contemporaneo. Scrive infatti: “quando c’è qualcosa da far esplodere, ci si fa saltare in aria con essa, così che in fin dei conti, senza risparmiarsi a se stessi, si sacrificano gli altri orribilmente al proprio scopo”. Ma mentre molti dei nostri intellettuali leggono questo pathos (o questa patologia) in senso astratto, per Ruge si tratta di una conseguenza della mancata integrazione della passione per la liberazione nei meccanismi dello Stato. È così che Ruge dichiara che “fin quando ci saranno barricate da presidiare e posizioni da difendere con la propria vita, non avremmo storia senza fanatismo”.

Oggi è bene tenere a mente questa considerazione di Ruge. Durante la guerra fredda, il discorso sul “totalitarismo” ha funzionato a lungo con una versione assai impoverita del concetto di fanatismo già articolato nella filosofia tedesca, soprattutto nel suo desiderio di annullare semplicemente la spinta egalitaria della rivoluzione francese, spesso letta (da autori come Talmon e persino Arendt) come fonte di tutte le catastrofi della nostra epoca. Il socialismo di Stato è stato spesso letto in chiave psicologica e religiosa, lasciando da parte serie analisi storiche e sociologiche. Testi sensazionalistici sulla psicopatologia di Stalin, per esempio, hanno oscurato i meccanismi istituzionali del terrore e il loro contesto materiale ed economico, ignorando per esempio il carattere eminentemente pragmatico e opportunistico delle decisioni che portarono ai gulag, e pure il ruolo machiavellico della “moderazione” ideologica nella traiettoria politica dello stesso Stalin (così ben spiegata da Isaac Deutscher nella sua biografia).

Non solo, il pensiero anticomunista del XX secolo, che ha spesso ravvisato nel “fanatismo” la causa e non l’effetto dei mali sociali (si vedano per esempio le riflessioni di Emil Cioran e Raymond Aron), ha creato la dicotomia puramente ideologica tra un liberalismo della scepsi e del compromesso da una parte, e il fronte del fanatismo dall’altra. In tali pensatori il “fanatismo” non è più una tendenza erronea della ragione umana (Kant) o un estremismo necessario nello sviluppo dell’umanità (Hegel) ma semplicemente una patologia da estirpare. Una tale visione del “fanatismo ” non solo dimentica che scettici e liberali sono perfettamente capaci di causare mali enormi (soprattutto quando legittimati da una “guerra giusta” come le sono per definizione le guerre contro i “fanatici”), e che non tutti i reazionari possono essere catalogati come “fanatici”, ma ignora anche la lezione di Ruge: una “storia senza fanatismo” può essere solamente il risultato di una politica di emancipazione reale e non di una astratta battaglia di idee. Ciò significa forse che il termine “fanatismo” deve essere semplicemente abbandonato? Che il fanatico è una chimera?

Non necessariamente, ma seguendo le tracce di quei grandi pensatori che hanno cercato di determinare il concetto spetta a noi contemporanei il compito di ripensare il fanatismo come precisa figura storica, politica e psicologica per il presente, e non semplicemente come talismano per esorcizzare nemesi assolute. Forse un primo passo consisterebbe nel trattare il fanatismo come predicato di certe azioni e discorsi politici, astenendoci dal definire dei soggetti politici come “fanatici” sans phrase.

Come ci insegna la vicenda di Lutero e dei contadini rivoltosi, la designazione dei nemici come “fanatici” è spesso il sinistro preludio al trattarli “come dei cani” o degli illegal combatants.

Published 7 December 2006
Original in Italian
First published by Reset 97 (2006)

Contributed by Reset © Alberto Toscano / Reset / Eurozine

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Read in: EN / IT

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