Marco SimoniMarco Simoni / Il MulinoEurozineIl MulinoIl Mulino 2/20132013-05-08Le radici del declino economico italianoA tutti gli osservatori attenti è noto che la difficile condizioneeconomica e sociale dell'Italianon dipende, come una vulgataautoassolutoria tende a sostenere,solo dalle recenti crisi degli equilibrifinanziari internazionali. Èalmeno dalla metà degli anni Novantache l'economia italiana hasmesso di crescere: ma perché,dopo circa quarant'anni di crescitasuperiore alla media europea,siamo entrati in un declino lentoe apparentemente inesorabile?Questa domanda è tanto più rilevantese si osserva che le riformeapprovate a partire dall'iniziodegli anni Novanta hanno toccatopraticamente tutti i settori, nel sostanzialeaccordo bi-partisan: dal1994 al 2008 si sono succedutecinque alternanze di governo tracentrodestra e centrosinistra, manessun caso di profonda revisionelegislativa in campo economico.
Le riforme del mercato dellavoro, del sistema bancario, deldiritto societario, della previdenzasociale, le privatizzazioni sonostate confermate dai successivigoverni, al netto di piccoli interventiper soddisfare marginali ragionielettorali.
La quantità e l'estensione di questicambiamenti -- spesso salutatipositivamente -- sono tali da lasciaresconcertati se si pensa cheil risultato finale e quello dell'Italiaattuale: un Paese in cui nessunindicatore economico e miglioratoe in cui i cittadini hanno la percezionedi un'inerzia invincibile.A ciò va aggiunto che le ragioniaddotte più frequentemente perspiegare il declino, anche se individuanofattori reali di criticità,non sembrano sufficienti.È insufficiente focalizzarsi sulMezzogiorno e sul suo ritardo disviluppo. Infatti, negli anni deldeclino, il Sud è cresciuto più delNord. Allo stesso modo, le renditemonopolistiche, pur presentiin dimensione eccessiva, nonsembrano in grado di spiegare lastagnazione economica. Gli indicatorisono concordi e mostrano-- dagli anni Novanta a oggi-- un indebolimento dei sindacati,l'aumento della concorrenza neimercati e l'aumento del pluralismopolitico: dunque i poteri diinterdizione monopolista si sonoaffievoliti -- e non accresciuti -- rispettoal passato.L'alibi più diffuso per chi non voglia guardare alle ragioni endogenedel declino italiano punta ildito contro la globalizzazione. Èun argomento che si divide a suavolta in due: alcuni sostengonol'impossibilita di adattarsi a unacompetizione "truccata" con Paesiin via di sviluppo dal costo dellavoro troppo basso. Altri sottolineanol'incapacità del nostro Paesedi adottare riforme (di stampopuramente liberista) che lo mettanoal passo con le economie piùmoderne. Eppure, l'Italia dellaPrima Repubblica -- in particolarenegli anni Settanta e Ottanta -- è stata capacedi svilupparsi proprio approfittandodi successive ondate di apertura agliscambi internazionali. Inoltre, ilcosto del lavoro nei distretti erastrutturalmente più alto che inparagonabili realtà produttive. Inaltre parole, la fonte della nostracompetitività era l'innovazione,non i costi vantaggiosi, innovazionela cui crisi è la causa "algebrica" più prossima del recentedeclino.Infine: molte delle riforme approvatenegli anni Novanta -- dalmercato del lavoro al diritto societarioalla ristrutturazione bancaria-- sono state market friendly.È possibile che siano state insufficienti,ma, data la loro ampiezzae la chiara direzione nel senso diuna maggiore apertura dei mercatialla concorrenza, ritenere chetale insufficienza abbia causatoaddirittura un declino economicorichiede l'individuazione di parametridi confronto che non esistono.Piuttosto che cercare nellemancate riforme la causa del declino,e dunque interessante capireperché, nonostante le riforme,esso si sia comunque manifestato.La versione sintetica della mia tesiche ho esposto più diffusamentein volume (Senza Alibi. Perchéil capitalismo italiano non crescepiù, Marsilio, 2012) e che ildeclino economico italiano sia ilfrutto dell'assenza di una visionepolitica compiuta da parte deglischieramenti che si sono contesie hanno detenuto il potere in Italiadai primi anni Novanta a oggi.L'assenza di una visione chiara,traducibile in un insieme coerentedi politiche pubbliche, ha portatoi governi che si sono succedutiad approcciare il tema delleriforme economiche in manieraframmentaria. Nei diversi ambiti icambiamenti sono stati negoziatie discussi solo con le categorieche erano direttamente interessate.Questo approccio negozialee parziale ha avuto due conseguenzenegative: innanzitutto hafatto trascurare gli effetti che taliriforme avrebbero avuto sugli altrisettori; in secondo luogo, haimpedito di riflettere sull'effettocomplessivo delle riforme, sulleloro interazioni.
In assenza di una visione politicaorganica le negoziazioni eranobasate su modelli astratti, spessoimportati dall'estero, adattati alfine di generare il minor dissensopossibile. Ma avere come bussolal'interesse dei singoli gruppi, anzichéla coerenza tra le diverseriforme, ha generato un insiemeincoerente di interazioni tra le varie"sfere istituzionali" economicosociali,ossia tra le diverse istituzioni,regole formali e prassi checaratterizzano il nostro modellodi capitalismo.L'incoerenza nelle misure adottateha generato un modello di capitalismoibrido, dunque lontanosia dal modello liberale -- di stampoanglosassone -- sia da quellocoordinato -- di stampo tedesco.Di fronte alla scelta se seguire unmodello liberale o uno coordinato,l'Italia ha continuato a voltarsiprima da una parte e poi dall'altra,senza darsi un piano e soprattuttosenza chiedersi se nonvalesse la pena piuttosto considerarela realtà della propria economiacome base fondamentale perfar evolvere in modo coerente ecostruttivo le proprie istituzioni.
Questa tesi si basa su un approccioteorico (introdotto da PeterHall e David Soskice in un volumedel 2001, Varieties of Capitalism,Oxford University Press, e testatoempiricamente da Peter Halle Daniel Gingerich in un saggiodel 2009 pubblicato sul "BritishJournal of Political Science") chesostiene che il successo o l'insuccessodi un modello di capitalismonon dipenda solamente dalla bontà delle singole istituzioni odal funzionamento dei meccanismioperanti negli ambiti crucialidel lavoro e del capitale. Di altrettantaimportanza e la coerenzanella logica di funzionamentodei diversi istituti, che non possonoessere considerati come uninsieme di norme slegate tra loro,ma formano un set complessivo: interazioni ottimali danno luogo a sinergie positive e formano cil che si chiama un "vantaggio istituzionale comparato".
Seguendo il proprio vantaggioistituzionale, i Paesi si sviluppanoin modo diverso, inventano prodottio processi diversi a secondadella loro dote di istituzioni. Setuttavia si combinano regole chehanno logiche diverse o opposte,i risultati positivi non si vedrannoperché il sistema economico sarà privo diuna logica dominante sullabase della qualegli attori possanoprendere decisioni e l'economiapossa trovare la propriaspecializzazione innovativa. Questae, infatti, la storia economicarecente dell'Italia, che a seguitodi riforme incoerenti ha perdutomolto della specializzazione cheaveva raggiunto negli anni Ottantae ha pertanto visto precipitarela propria capacità di innovazione,e dunque di crescita.Si obietterà che, dal punto divista del disegno istituzionalecomplessivo, l'Italia è sempre stataun Paese ibrido rispetto alleeconomie coordinate del Centroe Nord Europa e alle economieliberali anglosassoni. Tuttavia,fino all'inizio degli anni Novanta,i potenziali problemi derivanti daun disegno imperfetto avevanotrovato adeguate soluzioni.Nel primo dopoguerra è statafondamentale l'azione dell'Iricome "supplente" di coordinamentostrategico. In assenza diuna rete istituzionale coerente,una generazione di manager eimprenditori che ruotava attornoal sistema delle partecipazionistatali fu garante di accordi formalie informali che sostennerol'industrializzazione con strategiedi lungo periodo. Una volta entratoin crisi quel sistema -- giàalla fine degli anni Sessanta incompetenzae clientelismo stavanosegnando la sorte della nostragrande industria -- il luogo dellosviluppo si spostò nei distretti industriali,anch'essi esempi sui generisdi coordinamento strategicodi lungo periodo.Dal 42% di inizio anni Settanta,all'inizio degli anni Novanta quasiil 60% della forza lavoro nel settoremanifatturiero era impiegatonei distretti: grappoli di piccoleimprese operanti in un territoriocircoscritto che si concentravanosu una singola classe di prodotti.Le diverse istituzioni del territoriocontribuirono al loro successo.Questo modello di capitalismo basatosu un coordinamento strategicoorganizzato in forme diverserispetto ai Paesi del Nord Europavenne profondamente riformatoa partire dall'inizio degli anniNovanta. Erano cambiati gli equilibriinternazionali, avanzava laglobalizzazione ed erano dunquenecessarie riforme adeguate. Tuttavia,in assenza di un disegnoorganico, le riforme fecero rapidamentecrollare i meccanismi diun tempo, senza crearne di nuovi.Per osservare il carattere erraticoe contraddittorio dei cambiamentiintervenuti è sufficiente concentrarsisugli ambiti del lavoro edel capitale, comprendendo nelsecondo gruppo il sistema finanziarioe le discipline societarie.La stagione delle riforme economichecominciò con il sistemabancario nel 1990, quando ancorala Prima Repubblica sembravain buona salute. A seguito di unastagione di fusioni e acquisizionifavorite da ondate di privatizzazioni,in un decennio appenail numero di banche in Italia fudimezzato, passando da 44 a 27istituti. La presenza straniera divennecorposa, raggiungendo circa un terzo del totale, e con essail tasso di concorrenza, prima sostanzialmenteassente. La presenza pubblica passò infatti dal 70%al 10% a seguito di ingentissimeprivatizzazioni, arrivando a zerose consideriamo solo le banchequotate.Questo processo da un lato irrobustìil sistema bancario nelloscenario internazionale, dall'altrodiminuì drasticamente la capacitàdell'attore pubblico di intervenirenelle decisioni di investimento.Tuttavia l'intervento pubbliconon fu sostituito organicamenteda altre logiche, ma reso ancorapiù discrezionale ed episodico.Nel frattempo, le banche locali --uno dei pilastri del sistema deidistretti -- vennero acquisite dagrandi multinazionali. Questoebbe l'effetto di asciugare rapidamentela disponibilità di creditoper l'innovazione delle piccole emedie imprese -- proprio in unmomento in cui c'era particolarebisogno di innovare per far frontealle mutate caratteristiche dellacompetizione globale.Uno studio di Pietro Alessandrinie altri, pubblicato nel "Journal ofEconomic Geography" nel 2010,ha infatti mostrato che l'aumentodella distanza tra il quartier generaledella banca -- ossia il luogoin cui si prendono le decisioni dicredito -- e la sede delle aziendeche richiedono i finanziamenti fadiminuire la provvigione di creditoper l'innovazione.A rendere critico questo cambiodi paradigma -- la scomparsa diun sistema di credito locale basatosu reputazione e informazioneche, essendo fondato subanche troppo piccole, rischiavadi collassare sotto la spinta dellaconcorrenza internazionale -- è ilfatto che esso non fu sostituito dauna organica disciplina in sensoliberale.La prima riforma contraddittoriaconsentì alle banche, a partire dal1993, di partecipare direttamenteal capitale di aziende non finanziarie,sul modello del capitalismotedesco. Una riforma dunque cheavrebbe portato a sostenere decisionidi credito basate sullareputazione e sull'informazioneprivilegiata, e che avrebbe dovutofavorire proprio quelle logichestrategiche di lungo periodo che,nello stesso tempo, si stavano abbandonandoa livello locale.Ad approfondire questa schizofreniariformatrice intervenironodue riforme del diritto societario,una relativa alle imprese quotatee una a tutte le società private. Amotivare la prima, che seguìesplicitamente il modello anglosassonementre si seguiva quellotedesco per le banche, era la volontà di favorirela mobilità e la dispersionedel controllo delle imprese, e conesse aumentarne la dimensionemedia. A questo fine si rafforzarononotevolmente i diritti degliazionisti di minoranza portandolidal livello tedesco a quello inglese(o americano), facilitando dunquele acquisizioni ostili cheavrebbero dovuto aumentare ilcontrollo di mercato sull'operatodei manager. Eppure, la presenzadelle banche nelle società avrebbeavuto il senso di lasciare incapo agli istituti finanziari l'oneredi tale controllo, in una condizione di "immunità", per così dire,dalle fluttuazioni di mercato.La ciliegina sulla torta di questeriforme contraddittorie è la riformadel diritto societario del 2003.Essa diede a ogni azienda la facoltàdi scegliere il proprio modellodi governance da un bouquet checomprendeva il modello italianotradizionale, il modello anglosassonee il modello tedesco. Il legislatoreitaliano, in altre parole, hascelto di non scegliere tra diversischemi istituzionali, come se talescelta non fosse cruciale per costruireinterazioni positive con lealtre istituzioni economiche.
L'insieme di queste riformenell'ambito del capitale dovevaavere l'effetto di sbloccare uncapitalismo che appariva troppoingessato e non in grado difronteggiare l'epoca della globalizzazionedei mercati. Il loroeffetto complessivo è -- al contrario-- riassuntobene dal titolodi un saggio del 2007 di PepperCulpepper pubblicato su "WestEuropean Politics": Eppur nonsi muove. Comevent'anni fa, l'Italiaha una dimensionemedia delle imprese molto al di sotto diquella europea. Allo stesso tempo,"l'Italia era nel 1995, e rimanenel 2007, un sistema nel qualeun numero ristretto di azionisticontinua a esercitare il controllosulla maggior parte delle impresequotate in borsa". La combinazione di istituti diversi ha generatoincentivi perversi in capo agli attori.Il legittimo perseguimentodell'interesse personale non concorrepiù a consolidare l'interessecollettivo, al contrario di quantoaccade in un sistema capitalistafunzionante.Il mercato del lavoro ha conosciutotre principali ondate di riforme.La prima durante i governitecnici del 1992-93, la secondadurante il governo dell'Ulivo dal 1998 al 2000, la terza durante ilgoverno di centrodestra nel 2002.Tutte hanno toccato i settori fondamentali:contrattazione collettiva,regole dei contratti di lavoro,flessibilità.
In maniera simile a quanto vistoper il mercato dei capitali, i cambiamentihanno per alcuni aspettiaumentato il livello di coordinamento-- in particolare modo nellacontrattazione collettiva dei salari -- e per altri l'hanno completamenteazzerato -- con la flessibilità totale dei contratti precari -- con l'effetto di spaccare il mercato del lavoro come una mela.
Oggi qualsiasi media e simile a quelladi Trilussa, secondo cui se unapersona ha mangiato due pollie una nessuno, in media hannomangiato un pollo a testa: unasintesi incapace di descrivere unarealtà troppo eterogenea.A inizio anni Novanta l'aumentodel coordinamento salariale neicontratti collettivi ebbe l'effetto diridurre il costo del lavoro, e sostenere la svalutazione della lira.Alla fine del decennio, regole diassunzione facilitate hanno fattodiminuire il numero di disoccupatie dunque sono state salutatepositivamente e ulteriormenteflessibilizzate nel 2002.
Tuttavia, nel medio periodo, lacombinazione tra accresciutocoordinamento e accresciuta flessibilitàha avuto l'effetto di diminuirela produttività del lavoro,indebolendo la crescita. Il passaggiochiave è proprio nell'incoerenzae dunque parzialità delleriforme: la flessibilità ha riguardatosolo una parte del mondo dellavoro, mentre il lavoro "tipico"conosceva un aumento del coordinamentocontrattuale; anchea conseguenza di ciò, al mondodel lavoro flessibile sono mancatii complementi necessari, ossia lemisure di protezione e promozionedelle competenze (formazioneprofessionale) e quelle di protezionedel reddito (ammortizzatorisociali).Un mercato del lavoro flessibileha bisogno di un sussidio di disoccupazionenon solo per ragionilegate alla tutela delle necessitàindividuali, ma anche per ragionidi efficienza.
Infatti, la protezionedel reddito consente al lavoratored'investire tempo e risorse in formazione,sapendo che, in caso didisoccupazione, avrà tempo a sufficienzaper trovare un lavoro simileperché coperto dal sussidio. Un terzo dei lavoratori italiani e assunto oggi con contratti a termine di varia natura.
A uno stipendiopiù basso e a costi perl'azienda più contenuti, si aggiungonol'assenza di qualsiasitutela contro i licenziamenti, anchei più odiosi, e l'assenza ditutela del reddito. La flessibilitàha generato dunque una fortemobilità che riguarda però solouna parte dei dipendenti, quellipiù giovani; dunque l'incentivoper l'azienda e per il lavoratore ainvestire nelle competenze è statodrasticamente ridotto. Inoltre,esso non e sostituito da un incentivoorientato alla massimizzazionedei risultati di breve periodo-- tipico delle economie flessibili-- perché, come abbiamo visto, laproprietà delle aziende, in Italia,rimane molto concentrata e sostanzialmenteschermata dal controllodi mercato.
Questa è la ragione per cui laflessibilità in Italia -- a differenzadella quasi totalità dei Paesi europeiin cui è stata introdotta -- èdiventata sinonimo di precarietà:la situazione di fragilità contrattualedei lavoratori flessibili conviveda un lato con colleghi dalcontratto stabile e dal redditoprotetto in caso di licenziamento,e dall'altro con una struttura proprietariarigida, in un contestopoco competitivo. In assenza dipotere negoziale, i lavoratori flessibilinon possono far altro cheaccettare le proposte dei datori dilavoro ed essere i primi a soccomberein caso di ristrutturazioni.A detrimento dell'economia èil fatto che in nessuna di questefasi -- assunzione, lavoro, licenziamento-- considerazioni di crescitae produttività aziendale trovinospazio tra le priorità per idestini individuali e collettivi. Perqueste ragioni il dualismo delmercato del lavoro ha avuto effettinegativi sulla produttività.In questo contesto, se tutto ciònon bastasse, i lavoratori più giovaniricevono segnali contraddittori:e bene formarsi in un settorespecifico, sperandodi trovare uno dei pochissimiposti a tempo indeterminato,o iscriversi all'università esviluppare competenze generaliadattabili a diversi contesti in unquadro di flessibilità? Il sistemaitaliano, al momento, non fornisceuna risposta. Questo, purtroppo,contribuisce a spiegare perché l'Italia è tra i Paesi europeicon il più alto tasso di giovaniche né studiano, né stanno sulmercato del lavoro (i cosiddettiNeet): un talento che stiamo lasciandoandare alla deriva.Una delle caratteristiche più evidentidel dibattito politico economicodegli ultimi anni è l'assenzadi un compromesso tra capitalee lavoro in grado di regolarne inaturali conflitti. Nonostante iconfini di queste due categoriesiano profondamente mutati nelcorso degli ultimi trent'anni e nonrispecchino più le dicotomie novecentesche, esse continuano adavere forza descrittiva perché ilconflitto distributivo non è certoscomparso. Tuttavia la caratteristicadell'Italia uscita dalle riformedegli anni Novanta è che taleconflitto non trova forme salutariin cui esprimersi. Questa è la conseguenzapiù chiara, dal punto divista politico, della ibridizzazionedel nostro modello di capitalismo.Dal punto di vista economico, invece,la conseguenza principale èstata il collasso della capacità diinnovazione, che ha portato giùcon sé produttività e quindi crescita.L'assenza di un compromessosalutare è evidente dal paragonetra il caso Fiat e quello dei lavoratoriprecari. Nel primo caso, lediatribe si sviluppano con tonie contenuti etico-morali anzichéeconomici, un dibattito chenon consente prese di posizioneche non siano totalizzanti e chepertanto non è in grado di prefiguraresoluzioni condivise, masolo altri scontri. Al contrario, nelmondo del lavoro precario il conflittoè completamente assente,per la debolezza e l'isolamento dicui soffrono i lavoratori con contrattoflessibile.Questa sproporzione tra un conflittocosì acceso da non consentiredialogo e l'assenza di conflittoè una patologia dell'economiaitaliana, frutto di numerose riformeche non hanno costituito unquadro condiviso uguale per tutti,ma hanno frantumato il mondodel lavoro e con esso un ambitodi compromesso condiviso nelquale si possa esprimere il conflittoin maniera utile per le parti,senza traumi ma anche senzasconti.Dal punto di vista strettamenteeconomico, l'effetto diretto piùchiaro è da riscontrarsi nel collassodella capacità di innovazionedell'economia italiana. Un paragonetra i principali Paesi avanzatimostra una correlazione stabiletra livello di specializzazioneinnovativa e livello complessivodi innovazione. In altre parole,durante il periodo della globalizzazione-- dunque in presenza discambi commerciali crescenti -- lacapacità di aumentare la quantitàtotale di innovazione prodottain ogni Paese sembra dipenderedall'aumento della specializzazione.Il tipo di specializzazione innovativaa sua volta dipende dalmodello di capitalismo.
In Italia, l'ibridizzazione del modelloha avuto la conseguenzadi impedire la specializzazione equindi di far diminuire la capacitàdi innovazione. Quest'ultimo fenomenoha poi, inevitabilmente,condotto alla stagnazione economica.La capacità di un Paese di riformarela propria economia avendocome bussola la propria realtàproduttiva e sforzandosi di farlavorare in maniera armonica lediverse componenti del propriomodello di capitalismo e dunquela chiave per svilupparsi e crescere.Si sente spesso dire che l'Italiae, di per sé, un marchio chepermette di esportare all'esteroi propri prodotti.
Questa verità,purtroppo, e un altro alibi chefinisce per far passare sotto silenziol'enorme sforzo d'innovazioneche e stato necessario compierenelle aziende che, nonostantetutto, continuano a mietere successi,pur in presenza di un quadroistituzionale così distorto.
Anche in settori tradizionali, comel'alimentare o il tessile, la tenutadel Made in Italy e dipesa propriodalla capacità di aggirare limitistrutturali e continuare imperterritia innovare in tutti gli ambiti:i prodotti, le tecniche di management,i mercati di riferimento,i processi di produzione, e cosìvia. Sarebbe ora che questi sforzivenissero compresi meglio e cheriforme economiche puntasseroa rendere l'innovazione possibileovunque, non solo nei casi incui tenacia e capacità imprenditorialeriescono a supplire ai limitistrutturali che noi stessi ci siamocostruiti.