Danny Postel
Ramin Jahanbegloo
Martina Toti
Danny Postel/Reset
Eurozine
Reset
Reset 97 (2006) and Logos, volume 5, issue 2 (English version)
2006-10-06
Il mio dialogo con Rorty a Teheran
Intervista a Ramin Jahanbegloo
Danny Postel: Lei ha parlato dell'urgenza, in Iran, di uno "scambio dialogico non imitativo" con l'Occidente moderno. Il che porta alla mente il passo di un saggio di un nostro comune amico, Fred Dallmayr, in cui si osserva che spesso oggi ci sono "risonanze più vibranti" del pensiero europeo in un posto come l'Iran piuttosto che in Europa. "Ciò non significa -- scrive Dallmayr -- che le prospettive europee siano semplicemente disseminate nel mondo senza reciprocità o conoscenza reciproca. E neppure che le origini locali siano semplicemente cancellate in favore di un blando universalismo. Quel che significa è che paesaggi e località subiscono metamorfosi simboliche e che le esperienze un tempo localizzate in una data area trovano sempre più eco e camere di risonanza in società e popoli distanti." (Small Wonder : Global Power and Its Discontents; p. 115). È questo quello che ha in mente quando parla di scambio dialogico non imitativo?
/XML/infobox/jahanbegloobox.htmRamin Jahanbegloo: Fred Dallmayr è un collega e un amico con cui ho avuto molti scambi fruttuosi. Condividiamo un profondo interesse per Gandhi e per l'India. Condivido la sua visione di un discorso globale o cosmopolita condotto secondo linee non egemoniche. La sua idea di un modello alternativo di interazione cosmopolita, ispirata in parte dal legame proposto da Oakeshott tra la conversazione e l'amicizia inter-umana, è stata davvero utile per la mia formulazione del concetto di "universalismo democratico". Nel mio dibattito con Richard Rorty durante la sua visita in Iran, ho proposto una distinzione tra due concetti di "universalismo": un universalismo "morbido" e uno "duro". Quello "morbido" ci fornisce un quadro teorico per varie possibili versioni di vita morale senza essere fondato su un'idea stabilita del Sé. In altre parole, l'universalismo "morbido" o quello che possiamo definire "universalismo democratico" offre un criterio universalistico con cui esaminare i principi d'azione che possiamo perseguire in quanto fondamentali per le nostre vite, attività e istituzioni. L'universalismo morbido non ci costringe a scegliere, ma ci offre ragioni e argomenti per adattare i principi che noi adotteremmo. In altre parole, l'universalismo morbido applica il diritto universale alla reciprocità in un mondo di valori plurali in modo da permettere a persone con valori diversi di accettarsi reciprocamente. A differenza dell'universalismo "morbido ", quello "duro" è alla ricerca di uniformità e omogeneizzazione perché non accetta il principio del pluralismo culturale. Per molti il paradosso del corpus dei diritti umani è che esso cerca di incoraggiare diversità e differenza ma lo fa solo sotto la voce della democrazia occidentale. In altre parole, afferma che la diversità è positiva fintanto che viene esercitata all'interno del paradigma occidentale del liberalismo. Come risultato, il centro della discussione si sposta sulla questione se la democrazia occidentale debba o meno essere considerata un principio universale. Oggi, nel nostro mondo, la democrazia occidentale viene sfidata da fondamentalisti religiosi e da gruppi nichilisti sulla base del fatto che essa rappresenta una forma di imperialismo o egemonia politica. Ebbene, credo che anche se la democrazia non sia così ampiamente diffusa o profondamente radicata come molti pensatori e politici americani hanno presunto, non c'è ombra di dubbio che ogni processo democratico sia un potenziale alleato nella lotta contro le sfide del nostro secolo come i conflitti etnici e religiosi, il terrorismo, la povertà e il degrado ambientale. Questo è il motivo per cui penso che l'idea dell'"universalismo democratico " potrebbe essere il modo migliore di avere un'implementazione non egemonica dei diritti umani in paesi in cui la libertà individuale non è la cosa più equamente distribuita. Il che va a braccetto con l'idea dello "scambio dialogico non imitativo " attraverso cui propongo un discorso intellettuale per ridefinire in senso pluralistico le comunità e i rapporti tra individuo e comunità. Mi riferisco qui anche al concetto di "transculturazione" di Todorov, che è molto diverso da quello di "acculturazione ". La transculturazione entra e vive in un'altra cultura senza necessariamente appropriarsi del suo modo di essere. La transculturazione è l'inclusione di nuovi elementi in una cultura esistente. Essa è la capacità di afferrare altre tradizioni e incorporarle nel proprio sistema di pensiero.
Affrontare la modernità in maniera dialogica significa avere il diritto di rispondere a essa. E questa risposta diviene, in effetti, una parte del processo stesso della modernità. Di conseguenza, un impegno dialogico è un processo aperto in cui il significato non è collocato al di fuori del soggetto ma è situato nella relazione intersoggettiva tra i due soggetti culturali che si trovano a dialogare insieme. Nel modello che sto delineando i soggetti del dialogo si aggiungono reciprocamente all'identità dell'altro attraverso e nello scambio dialogico. Uno scambio dialogico tra culture è il solo modo in cui la nostra ignoranza delle altre culture e civiltà possa essere esposta, i nostri pregiudizi sfidati e il nostro sapere esteso. Uno scambio dialogico è il solo modo per negoziare differenti interpretazioni del mondo senza imporne una sulle altre. Stiamo parlando di uno scambio tra due partner consapevoli sulla base di un rispettoso confronto delle proprie esperienze e della conoscenza del processo. Perciò, non vi è imitazione in un'interazione comunicativa di tipo dialogico tra due agenti culturali. Penso che paesi come l'Iran, la Turchia e l'Egitto meritino di essere esaminati come società che hanno imitato la modernità per un lungo periodo di tempo invece di avere uno scambio critico con essa. Il risultato di questo scam- bio acritico con la modernità è stato la totale assoggettazione a modalità differenti di razionalità strumentale senza alcuna attenzione per la critica motrice della modernità ovvero, in termini kantiani, "fuga dalla tutela" e "uso pubblico della ragione". La modernità riguarda fondamentalmente la costruzione riflessiva della storia e, in questo processo, la lotta per il riconoscimento reciproco occupa il posto più importante. Questa lotta per il riconoscimento reciproco nasce da uno scambio dialogico, perché è un mutuo desiderio di rispetto. Perciò essa è accompagnata dalla richiesta che, nel proprio interesse, una persona sia stimata culturalmente. Ovviamente, è importante fare di nuovo riferimento qui al concetto di universalismo democratico, che ritiene che ci sia una fondamentale unità umana che offra a tutti gli individui diritti basilari indipendentemente dalle loro culture. Avanzerò l'idea che né l'universalismo duro né il relativismo culturale siano sufficienti a far fronte alla crescente varietà delle ontologie umane. Il che vuol dire che dobbiamo perseguire un universalismo fondato su tutte le esperienze umane della storia anziché solo sui valori occidentali. Questo è possibile solamente attraverso incontri culturali di larga scala. Prendendo in considerazione l'impatto ontologico di questi incontri, un giudizio dall'esterno e l'esame delle violazioni locali dei diritti umani non possono essere criticati come un'interferenza ideologica arbitraria.
DP: Lei ha accennato al suo dibattito con Richard Rorty. Su che verteva?
RJ: La prima volta che incontrai Richard Rorty fu durante la mia visita a Stanford. Dovevo tenere una lezione lì e colsi l'occasione per incontrarlo. Alla fine del nostro incontro gli chiesi se fosse interessato a visitare l'Iran e a tenere qualche conferenza. Accettò gentilmente e io organizzai il suo viaggio per il giugno del 2004. Pensai che sarebbe stato più interessante avere un dibattito con lui anziché soltanto una sua lezione. Così chiesi a Daryush Shayegan, un filosofo iraniano, e a George McLean, professore emerito presso la Catholic University of America, che era stato invitato da un'altra istituzione iraniana, di unirsi a noi nel panel. Più di 1500 persone assistettero a quell'evento presso la Casa degli Artisti di Teheran. La presentazione di Shayegan si basava essenzialmente sull'idea che la democrazia secolare sembra adesso inevitabile nel mondo islamico dato l'ampio rifiuto dell'ideologia rivoluzionaria e la diffusione di opinioni favorevoli ai diritti umani. Le osservazioni di McLean avevano trattavano della democrazia e del dialogo interreligioso. L'intervento di Rorty si basava sulla sua idea di "postdemocrazia". Secondo Rorty l'età d'oro della democrazia liberale borghese sta giungendo alla fine. È durata due secoli, ed è andata bene finché è durata, ma non possiamo più permettercela. Oggi come oggi le persone vengono facilmente persuase a rinunciare alle proprie libertà nell'interesse della "sicurezza patria". Come lei sa, Rorty accantona le aspirazioni tradizionali della filosofia politica. A differenza di pensatori come Locke, Kant e il primo Rawls che cercavano principi filosofici che potessero offrire il fondamento teoretico per un ordine politico liberal-democratico, Rorty sostiene che la democrazia liberale possa cavarsela senza presupposizioni filosofiche e che le democrazie si trovino ora nella posizione di gettare via i mezzi usati per costruirle. Nel suo discorso, Rorty tornò alla sua idea secondo cui il tentativo di dare un fondamento alla democrazia è inutile perché essa è adagiata su un paradigma filosofico obsoleto e ingenuo. In linea con il suo antifondazionalismo, sostenne che non c'è alcun modo per riconciliare giustificazioni epistemologiche universali e particolari. Rorty diresse la nostra attenzione sul modo in cui una posizione antifondazionalista può produrre istanze etiche. Anticipando le accuse di relativismo culturale, Rorty tornò alle sue idee sulla "cultura dei diritti umani" e sostenne che la tesi secondo cui i diritti umani sono moralmente superiori non debba essere appoggiata postulando attributi umani universali. Presentai, quindi, la mia risposta nel tentativo di elaborare il concetto di un universalismo democratico.
Considerando la tesi di Rorty secondo cui il grado in cui è probabile che una "cultura dei diritti umani" sia persuasiva dipende direttamente dal grado di umiltà con cui essa viene presentata, cercai di mostrare che la scarsa considerazione di Rorty per la politica e per la mancanza di interesse per le condizioni istituzionali della realizzazione degli ideali etici poteva presentare dei problemi riguardo la questione dei diritti umani nello scambio tra culture. Il mio punto è che per molte persone nei paesi non occidentali, il corpus dei diritti umani, come filosofia che persegue la diffusione della democrazia e la sua fondamentale necessità nel mondo, possa, paradossalmente, essere visto come propenso all'omogeneizzazione politica e culturale e ostile alla differenza e alla diversità. A risultato di questo punto di vista, si possono trovare molti intellettuali iraniani o indiani che ritengono l'universalismo il prodotto della storia europea e lo sfidano come una forma di imperialismo o egemonia politica. Come intellettuale non occidentale che crede fermamente nelle idee della democrazia e dei diritti umani, sono stato tentato, attraverso le mie letture di Rorty e per via della mia stessa esperienza come attore della società civile, di cercare una via d'uscita da questo dilemma trovando un equilibrio tra i valori del radicamento culturale e un senso di appartenenza da un lato, e l'idea di valori condivisi, cross-culturali, universali dall'altro. A disagio con il modo in cui Rorty sembra mettere in attesa la discussione sulla politica, ho proposto in modo molto umile la mia distinzione tra i due concetti di universalismo. Come ho detto in precedenza, l'universalismo "morbido", a differenza di quello "duro", non costringe gli altri a scegliere ma offre loro ragioni e argomenti per adattare i principi che potrebbero adattare.
Vedo l'universalismo "morbido" come l'unica speranza per promuovere la democrazia in culture non democratiche. Questo fa affidamento su conoscenza e comprensione cross-culturali consapevoli. Quando la conoscenza cross-culturale può renderci capaci di fare nostri i valori democratici, viene mantenuta la possibilità di entrare e uscire da qualsiasi sistema di valori. In questa situazione, la responsabilità individuale sostituisce i valori particolari come centro d'interesse. Stiamo perciò parlando qui di valori universali all'interno di una sfera democratica globale.